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Autore: Sara_3210    13/04/2015    2 recensioni
"«Quando ti potrò rivedere?» quella domanda mi colse alla sprovvista, arrossii e non potei fare a meno di sentirmi un pochino lusingata. «Forse la prossima primavera, partiamo oggi e ci incammineremo verso Ovest, ma ripasseremo sicuramente da queste parti.» e tu pensasti bene di sorridere. Bastò quel semplice gesto, un lieve stiramento delle labbra, per farmi battere forte il cuore. «Allora, ti aspetterò. Così potrò sentirti suonare e cantare di nuovo.» non riuscii a non scoppiare a ridere, «Come corri, ti conosco appena!»."
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Thorin Scudodiquercia
Note: Missing Moments, OOC, Otherverse | Avvertimenti: Incompiuta
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Ti scrivo,

È  più facile.



Fino ad ora ho tenuto il conto del tempo trascorso da quel, oramai lontano, giorno di inizio inverno; sono passati esattamente due anni, quarantacinque giorni, diciannove ore e due minuti. Sono sempre più brava coi numeri, vero?

Ti confesso che in tutti questi anni sono scappata dal dolore, ma ovunque provi a guardare è lì, dentro di me. Come se fosse diventato una parte del mio essere, all’incirca come una gamba o un braccio. Da piccola una donna mi raccontò che l’amore è gioia, è quella cosa che ti fa sentire un vuoto nello stomaco, come quando ti dai una spinta forte in altalena e ti sembra di toccare il cielo. Non ho mai creduto a quella stupida favoletta. E questo segna un punto a mio favore. Fin da subito mi è stato chiaro che sarebbe stata dura, ero figlia di una flautista e mio padre non aveva nè volto nè nome. Dopo l’annuncio della gravidanza, mia madre spinse fuori tutti dalla sua vita e, da qualche parte sulle Montagne Azzurre, spinse fuori anche me. Molti si chiedono perché una donna umana sia andata a partorire proprio lì, mia madre non ha mai voluto dirmelo ed io non gliel’ho mai chiesto. Ho passato la mia infanzia ad imparare a suonare il suo flauto ed il vecchio violino che mamma si portava dietro, mi insegnò canti e filastrocche, storie e novelle che provenivano da ogni angolo di Arda. Si cantava dell’amore, delle guerre, delle grandi battaglie, si raccontava di amanti e di guerrieri coraggiosi.



Ero felice di quella vita, di quella libertà. Poi, una sera, nella mia vita sei entrato tu. Un nano dal viso sporco di fuliggine, con le mani rovinate dal martello che tutti i giorni pestava sull’incudine, la barba vecchia di due giorni, ma ostentavi sempre un portamento fiero e regale. Quasi fossi migliore di tutti noi. Stavi lì, seduto in un angolo, affianco alla finestra della locanda, stavi parlando con i tuoi compagni e io vi guardavo. Non so perché lo facessi, mi piaceva guardare le persone e basta. Anche quella sera mia madre estrasse il suo flauto dalla costodia di pelle e, con un gesto, mi chiamò accanto a sé.

Ricordo la canzone che cantai, come potrei scordarmela? Il ritornello faceva più o meno così…

Goodbye my lover.

Goodbye my friend.

You have been the one.

You have been the one for me.

Non era certo una delle canzoni più allegre che conoscevo, ma mi piaceva molto. Parlava di un uomo che diceva addio alla donna amata, dicendole che lei era stata l’unica per lui. Lo trovavo bello, romantico forse. Ma il nostro pubblico la pensava diversamente. Gli uomini, si sa, non vogliono ascoltare le lente ballate romantiche e nemmeno quelle canzoni che si cantano per le feste o semplicemente per rallegrare i commensali. No, quelle sono le canzoni dei giullari e degli ubriachi. Gli uomini di quella sera volevano una canzone che parlasse della guerra. Iniziarono a fischiare, lanciandoci anche dei pezzi di pane secco addosso, mamma si fermò. Non ero spaventata perché non era la prima volta che ci capitava una cosa del genere, solitamente aspettavamo che le acque si calmassero, poi chiedevamo che cosa avrebbero gradito sentire e lo spettacolo riprendeva senza più interruzioni. Ma quella sera qualcosa cambiò, quella sera c’eri tu. Ti alzasti e nel locale risuonò la tua voce. Mentirei, se dicessi che mi ricordo perfettamente le tue parole, ricordo solamente che riuscisti a calmare quegli uomini e noi potemmo continuare il nostro spettacolo.



Cantai molto quella sera, ad un certo punto ti cercai con lo sguardo e, imbracciando il violino e guardandoti negli occhi, dissi: «Per te.» , poi iniziai a suonare sfiorando dolcemente le corde con l’archetto. Suonai pensando a te, alla famiglia dalla quale saresti tornato, alle mani grandi e forti che avevi, ai tuoi occhi azzurri. Suonai per te, per ringraziarti di ciò che avevi fatto. Chissà quante paia di occhi mi fissavano, ma io tenevo i miei chiusi e, quando la musica finì ed io li riprii, incontrai il tuo sguardo. Non sentii nemmeno gli applausi ed i complimenti che mi furono rivolti, io guardavo solo te.



Al termine, poco prima che il sole sorgesse, ti avvicinasti a me. Stavo riponendo il violino nella sua custodia, mentre mia madre discuteva con il locandiere sul pagamento e tutti i clienti uscivano per fare ritorno alle loro case, sussultai quando mi toccasti una spalla per attirare la mia attenzione. «Come ti chiami?» mi chiedesti, mi imbarazzai per tutta quell’attenzione improvvisa, ma la mia voce rimase comunque ferma, mentre ti rispondevo: «Serena, e tu?» mi sorrisi, poi prendesti una ciocca dei miei capelli che era scivolata fuori dalla mia treccia e la sistemasti dietro il mio orecchio. Avevi un tocco delicato per essere un fabbro. «Thorin. Thorin ScudoDiQuercia, se preferisci.» avrei voluto ringraziarti per quello che avevi fatto per noi, ma mia madre mi chiamò urlandomi di prepararmi. «Devo andare, Thorin. Grazie, forse un giorno ci rivedremo e suonerò ancora per te.» promisi alzandomi ed iniziando a mettere a posto gli spartiti, ordinandoli secondo il numerino che si trovava nell’angolo in basso a sinistra. Me ne scivolò uno a terra e le nostre mani si toccarono accidentalmente nel tentativo di raccoglierlo, «Quando ti potrò rivedere?» quella domanda mi colse alla sprovvista, arrossii e non potei fare a meno di sentirmi un pochino lusingata. «Forse la prossima primavera, partiamo oggi e ci incammineremo verso Ovest, ma ripasseremo sicuramente da queste parti.» e tu pensasti bene di sorridere. Bastò quel semplice gesto, un lieve stiramento delle labbra, per farmi battere forte il cuore. «Allora, ti aspetterò. Così potrò sentirti suonare e cantare di nuovo.» non riuscii a non scoppiare a ridere, «Come corri, ti conosco appena!» tu facesti un mezzo sorriso, ma prima che potessi aggiungere qualcosa, mia madre mi urlò:«Serena, ti vuoi muovere?! Non posso aspettarti tutto il giorno!» a quel punto dovetti prendere la borsa ed avviarmi sul serio. Sistemai le cinghie in modo che non mi scavassero la pelle delle spalle e mi voltai a guardarti. «Ci rivedremo in primavera, Thorin. Non dimenticarti di me.» mi regalasti un ultimo sorriso che fui felice di ricambiare. In quel momento, mentre mi avviavo verso mia madre sollevando di poco la gonna dal terreno in modo che non si insudiciasse, tutto quello cha avevo detto e pensato sull’amore non aveva più senso. Avevo sempre ritenuto quel sentimento una cosa frivola, capace solamente di renderti succube del tuo compagno.

Quanto mi sbagliavo!

Tutto cambiò in un solo istante e, mentre tutte le mie idee cambiavano e le mie certezze crollavano – sembra una cosa ridicola, ma da quando avevo incontrato il tuo sguardo, mi sentivo viva. – capii che non mi sarei mai sentita più al sicuro o a casa se non tra le tue braccia tozze e forti. Perché il mio cuore ti aveva riconosciuto ed ero incondizionatamente, irrimediabilmente, perdutamente innamorata di te.

Serena

   
 
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