Film > Frozen - Il Regno di Ghiaccio
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Autore: StarFighter    14/04/2015    10 recensioni
AU_Anna è al suo primo anno di college alla NYU ed è alla disperata ricerca di qualcuno che le faccia compagnia alla scoperta di tutti i divertimenti che New York ha da offrirle. Ma per quanto si sforzi, non riesce ad instaurare un rapporto d'amicizia con chicchessia: la sua coinquilina, Merida, a stento le rivolge la parola e i suoi compagni di corso si ignorano l'un l'altro. L'unica che potrebbe iniziarla ai piaceri della città che non dorme mai, è sua sorella Elsa, che vive lì da molto più di lei; ma Elsa, che non vede da tre anni, si rifiuta di incontrarla, adducendo scuse su scuse.
Anna non sa spiegarsi il suo comportamento e quando la sua vita prende la piega che si aspettava, decide di volerla lasciar perdere. Ma il destino la conduce da lei, rivelandole i suoi 'sporchi piccoli segreti', e Anna non sarà più tanto sicura di voler scoprire i piaceri nascosti di New York city.
(Crossover con altri film Disney).
Genere: Angst, Dark, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anna, Elsa, Hans, Jack, Frost, Kristoff
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate
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Booom! Questo chap è per te Adri!! X’D
 
 
Capitolo 7: Awakenings

 

 

7:22 del mattino. Chi diavolo era che la disturbava a quell’ora assurda? Di lunedì mattina per giunta!

Il cellulare continuava a vibrare nella sua pochette, che aveva gettato senza tanti complimenti da qualche parte sul pavimento la sera prima. E lei continuava a fissare l’orologio digitale, con i suoi numeri rossi e giganti, che in quel momento batteva le 7:23.

Rotolò via dalla presa dell’uomo al suo fianco, infinitamente piano, per non svegliarlo: non voleva vedere i suoi occhi e nemmeno il sorriso divertito che le avrebbe rivolto appena avesse posato il suo sguardo su di lei. In effetti  non c’erano pericoli: dormiva così profondamente da sembrare morto.

Con l’aspetto che si ritrova, direi più il dio dei morti, concordò con se stessa, lasciando vagare lo sguardo sulla figura possente e semi coperta dell’uomo.

Recuperò la sua camicia dal pavimento e se la infilò, non per romanticismo o per qualcosa che implicasse il fatto che lui le piacesse, ma solo perché infilarsi il vestito che lui le aveva tolto con tanta velocità la notte precedente avrebbe richiesto troppo tempo, tempo in cui il vibrare del cellulare le avrebbe trapanato il cervello.

Raggiunse velocemente l’oggetto incriminato e sbloccò lo schermo, sospirando nel leggere il messaggio che le avevano lasciato.

DOVE SEI? -H

Se solo lo sapessi, non mi guarderesti nemmeno più in faccia, pensò oscurando lo schermo, senza rispondere.

Rimase a fissare il cellulare tra le sue mani per alcuni minuti, vergognandosi come una ladra per quello che aveva fatto. L’uomo alle sue spalle si rigirò nel letto, riscuotendola dal suo stato di torpore. Uscì in fretta dalla stanza, chiudendo la porta dietro di sé. La luce del sole che sorgeva su un altro giorno la avvolse non appena mise piede nell’enorme salotto, che si affacciava sullo skyline di New York. Addormentarsi in un superattico aveva i suoi pregi, e tra le tante cose, quella era una delle poche che le piacesse così tanto: vedere la città svegliarsi pian piano, animarsi di taxi e pedoni indaffarati, che da quell’altezza sembravano formiche impazzite. Anche lei sarebbe dovuta essere per strada, lontana da quel posto. Il suo riflesso nella gigantesca vetrata le rimandava l’immagine di una piccola donna, troppo coinvolta in qualcosa più grande di lei, schiava degli istinti e della paura.

La sentì arrivare, la crisi di nervi imminente del giorno dopo. Strinse i pugni e ricacciò indietro le lacrime. Rovistò tra le tasche della sua giacca, lasciata sul divano di pelle, alla ricerca delle sigarette. Le teneva in una scatolina di metallo nero laccato, assieme allo zippo decorato con un teschio.

Così fine eppure così kitsch, sorrise tra sé, mentre ne sfilava via una e se la metteva in bocca.

La piccola fiamma dell’accendino le bruciò i polpastrelli, mentre l’estremità della sigaretta diveniva incandescente. Posò l’accessorio dove l’aveva trovato e inspirò profondamente. Trattenne il fiato per tutto il tempo possibile, poi cacciò il fumo, guardando le volute grigie diradarsi nell’aria attorno a lei. A volte anche lei si sentiva così, come se il più semplice refolo di vento avesse potuto dissolverla, trascinandola via nella corrente.

Aspirò ancora una volta, poi di nuovo, persa nel momento di quiete dopo la tempesta. Poi una mano, la sua mano, le tolse la sigaretta dalle dita, spegnendola con un movimento veloce nel posacenere di cristallo, sul tavolino da caffè, che sembrava più un pezzo d’arte che un mobile d’arredamento.

Non l’aveva sentito arrivare.

-“Sai che odio quando lo fai?”- le soffiò la sua voce, arrochita dal sonno.

-“Cosa? Fumare?”- lei lo sapeva, lo faceva di proposito ogni volta che si risvegliava nel suo appartamento. Qualunque cosa pur di fargli dispetto: era la sua piccola rappresaglia per fargli sapere che lui non comandava su tutto, che almeno qualcosa le era ancora concessa.

-“Già. È davvero volgare, sembri una…”-

-“Prostituta d’alto bordo? Ma lo sono.”- lo beccò, interrompendolo, un’altra cosa che lo infastidiva.

-“Smettila di giocare alla bambina cattiva. Il broncio non ti si addice.”- le disse.

-“Non mi sembra d’avere molto per cui sorridere.”- gli rispose, voltando il viso lontano dal suo sguardo penetrante. Lui prese a giocherellare con i suoi capelli, lasciati liberi a coprirle le spalle.

-“Sicura? Avresti potuto svegliarti nel letto di Dallas o peggio ancora di uno dei Westerguard: sai, ho sentito dire che sono parecchio esigenti.”- ridacchiò a labbra strette -“Invece eccoti qui fiorellino. Mi sembrava che apprezzassi la mia compagnia, ieri sera.”- le disse, tirandole una ciocca di capelli scuri, che aveva arrotolato attorno al dito indice.

-“Mi fai schifo.”- sibilò tra i denti lei, sottraendosi al suo tocco.

-“Non è vero Meg cara, e lo sai, altrimenti non saresti qui.”-

E lei lo sapeva perfettamente e si odiava per quello. Lo disprezzava con tutta se stessa, ma non poteva fare a meno di lui. Sindrome di Stoccolma, le avrebbe detto Elsa. Ma non era vero perché, per quanto lui fosse il suo aguzzino, lei gli si era consegnata spontaneamente, senza giochetti psicologici o violenza fisica. Quando qualche tempo prima l’aveva colpita, lo aveva fatto colto da un eccesso d’ira, per cui poi si era scusato in un modo molto efficace. E quando Elsa l’aveva trovata rannicchiata sul divano in lacrime, con un livido sulla guancia, non le aveva detto il vero motivo per cui piangeva; non per il dolore, o per la paura, ma solo per il disgusto che provava verso se stessa: gli si era concessa, allettata dalle languide carezze e dalle frasi sussurrate sulle sue labbra. Era umana, donna per giunta, e per quanto ne potesse dire la sua coinquilina, non era per nulla forte. Aveva bisogno d’amore nella sua vita piena di fantasmi e, anche se quella era la cosa più lontana dall’amore che esistesse, lui la faceva sentire desiderata e amata, a modo suo.

E poi lui era…lui. Anche con i suoi quasi 40 anni, rimaneva l’uomo più piacente e seducente che avesse mai visto.

-“Non mi pare d’aver avuto molta scelta. Se te l’avessi chiesto, mi avresti lasciata andare?”-

-“No.”- rispose secco, facendole accapponare la pelle. Sapeva farla rabbrividire di piacere e al tempo stesso farle venire la pelle d’oca per la paura, solo con un’inflessione della voce.

-“Sai,”- cominciò, prendendole il mento e voltandole il viso verso di lui –“potrei decidere di non lasciarti andare mai più; potrei decidere di tenerti per me soltanto, senza l’intromissione di altri uomini; potrei decidere di lasciare solo la tua amichetta a fare il lavoro sporco.”- le sussurrò sulle labbra –“Ti piacerebbe?”-

Meg lo fissò intensamente, con gli occhi spalancati per la paura: non poteva dire sul serio.

-“Come puoi chiedermelo?”- fece quasi sconvolta –“Non potrei mai lasciare Elsa da sola in mezzo a tanti”- temporeggiò pensando alle parole da usare –“… rifiuti umani!”

-“Meg, Meg, Meg.”- la canzonò –“L’altruismo e il cameratismo poche volte aiutano e, di solito, non ti portano lontano.”- le sue carezze diventarono più insistenti.

Meg chiuse gli occhi, cercando di non cedere alla malia di quelle mani esperte e tentatrici.

-“E poi Elsa non sembra avere nei tuoi confronti la stessa premura che hai tu verso di lei.”- quelle parole la riportarono con i piedi per terre, risvegliandola da quel torpore intossicante in cui la gettava la presenza di Ades, come una secchiata d’acqua gelata –“ Ti ha lasciata da sola ieri sera, o sbaglio? È fuggita via assieme a quel bamboccio del figlio di Nick North, senza preoccuparsi di te, di quello che sarebbe potuto accaderti, o di chi ti avrebbe riaccompagnata a casa…o se, saresti tornata a casa.”

-“Stava lavorando anche lei, no? Perché avrebbe dovuto preoccuparsi di me?”- cercò di eludere la domanda, anche se il pungiglione velenoso delle sue parole, l’aveva colta su un nervo scoperto: il solo pensiero che Elsa l’avesse lasciata di proposito da sola o che, ancora peggio, non si fosse interessata della sua sorte, la faceva sentir male.

Sobbalzò, presa alla sprovvista, quando Ades le strinse forte i fianchi e l’attirò a sé con prepotenza, con uno sguardo irato negli occhi: “Credi che non mi sia accorto a che gioco sta giocando la tua amica? Crede di essere furba, mmh? E tu di certo non puoi sperare di prendermi in giro come lei, tesoro. Sei un libro aperto per me: riesco a leggere tutto quello che ti passa per la mente, attraverso il tuo sguardo.”- ridacchiò compiaciuto –“Ad esempio, in questo momento vorresti colpirmi, ma la paura ti blocca. Fallo , Meg. Colpisci forte.”- la stuzzicò.

Meg cercava di mantenere un’espressione neutra e lo sguardo impassibile, così che lui non potesse leggervi altro, anche se il cuore le batteva impazzito nel petto ed era sicura di essere diventata di una sfumatura di bianco cadaverico.

La battaglia di sguardi durò alcuni infiniti secondi, prima che lui la lasciasse andare, con un sorriso, quel sorriso che lei tanto odiava, trionfante.

Lo aveva fatto di nuovo. Aveva vinto lui.

-“Ho una riunione importante e non posso far tardi. Ci rivediamo stasera.”- le disse dandole le spalle –“Nic ti riaccompagnerà al tuo appartamento.”- 

Lo guardò allontanarsi di qualche passo e poi voltarsi di nuovo verso di lei: “E di’ ad Elsa che non ci sarà sempre Jack North a salvarla.”

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L’odore dei pancake l’aveva ingannata, facendole immaginare di essere di nuovo a casa, al caldo nel suo letto, con le coperte tirate fin sul naso, Anna che ronfava nella camera accanto e la mamma giù in cucina a preparare la colazione per tutti. Ed invece, quando aprì gli occhi, con un sorriso davvero felice sulle labbra, si ritrovò in una camera che non era quella di casa, né quella del suo appartamento.

Le ci volle qualche minuto per realizzare dove fosse.

Le camere degli ospiti le facevano sempre uno strano effetto, perché erano vuote, prive di un’anima propria, senza un pizzico di vita a colorarne le pareti o le suppellettili: la facevano sentire estranea e non voluta, come un regalo indesiderato, lasciato in un angolo. Questa, per quanto accogliente fosse, non faceva eccezione.

Eppure, era solo una sua strana sensazione, nessuno l’aveva accolta lì di controvoglia, anzi. La sera prima aveva pregato Jack di non riaccompagnarla al suo appartamento, ma di portarla ovunque ci fosse la vita vera.  Andiamo a bere, per quanto ne possiamo sapere potremmo essere morti entro domani mattina, gli aveva detto. Ma Jack non si era lasciato impressionare da quelle parole: l’aveva guardata trattenere a stento le lacrime che le riempivano gli occhi e aveva ingranato la quinta, senza rivelarle la loro destinazione.

Quando erano arrivati nei garage sotterranei del North Building, l’aveva ringraziato silenziosamente per non averle dato ascolto e, appena ne aveva avuto l’opportunità, lo aveva stretto in uno di quegli abbracci che molto raramente concedeva, trattenendolo a sé più del necessario. Ma lui non si era scostato. Aveva ricambiato il gesto con più trasporto di quanto Elsa s’aspettasse.

-“Preferisci dormire nella camera degli ospiti o…”- le aveva chiesto, appena avevano varcato la soglia del suo appartamento.

-“La camera degli ospiti andrà benissimo.”- lo aveva interrotto prontamente lei, abbassando lo sguardo imbarazzata.

Lui le aveva fatto strada, anche se lei avrebbe saputo trovarla ad occhi chiusi quella stanza. La vista dell’enorme letto a doppia piazza aveva immediatamente risvegliato la sua stanchezza, lasciandole addosso il desiderio di tuffarsi tra quei morbidi cuscini e non risvegliarsi mai più.

- “Vuoi che resti a farti compagnia finché non ti addormenti?”- le aveva chiesto ancora, quando lei aveva tentennato sulla soglia, tremando impercettibilmente.

Aveva annuito, senza pensarci due volte. Quel letto così invitante le era sembrato all’improvviso troppo grande, freddo e vuoto. Jack le aveva rivolto un piccolo sorriso rincuorante ed era sparito per alcuni minuti, per riapparire poi con indosso la sua tenuta da notte e degli indumenti adatti per lei, tra le mani.

-“Credo che questi ti vadano bene…erano di Tooth.”- le aveva detto, depositando sul letto gli abiti piegati.

Aveva annuito sovrappensiero, poi si era cambiata in fretta e in silenzio, evitando di indugiare troppo sui suoi pensieri tetri, sui ricordi conservati in quella casa, tra le pieghe di quelle lenzuola, nel profumo di quegli abiti che non le appartenevano, ma che non avevano più un proprietario.

Si era lasciata cullare dall’abbraccio di Jack finché il sonno non l’aveva vinta, non trovando nessun imbarazzo in quella loro vicinanza o nelle parole di conforto che le aveva rivolto. In realtà, sarebbe stata bene con lui anche in silenzio, ma lui sembrava ostinato a voler riempire quelle pause con gesti premurosi e frasi apprensive. Si era sentita amata, come non le accadeva da molto e il suo sonno era stato piacevole e ristoratore, privo degli incubi che la turbavano quasi ogni notte. Si sentiva a casa tra le braccia di Jack. Eppure non aveva sognato lui quando il sonno l’aveva vinta.

Un paio di occhi giada avevano danzato dietro le sue palpebre chiuse, per tutta la notte. Occhi che la scrutavano attentamente, che le scavavano dentro, alla ricerca di un tesoro dimenticato sul fondo della sua anima. Per quanto assurdo fosse stato il loro incontro, Hans Westerguard, con il suo portamento fiero, il sorriso luminoso, lo charme di un uomo d’altri tempi e i suoi modi affabili, si era indubbiamente scavato una piccola nicchia nei suoi pensieri. Le era  difficile decifrare quali sensazioni le suscitasse il ricco erede: oscillavano dall’inquietudine ad un’insana attrazione. Ma anche ora che si trovava in quel letto troppo grande per lei sola, ad osservare il soffitto stuccato, non riusciva a venire a capo di quel mistero che era il più giovane dei Westerguard.

Tutto in lei aveva gridato fuggi, quando lui le si era avvicinato come un predatore, con passo sicuro e silenzioso, quasi temesse di farla scappare se avesse fatto il minimo rumore. Si era sentita come un uccellino in gabbia, messo all’angolo dal gatto. Tuttavia la sua voce calda e pacata, e il suo tocco leggero sulle sue mani fredde, aveva calmato il ritmo accelerato del suo cuore.

E quando Jack l’aveva portata via, sottraendola alla sua presenza ingombrante, non aveva potuto fare a meno di voltarsi a guardarlo per un’ultima volta, incrociare il suo sguardo sicuro e penetrante, guardare quegli occhi troppo belli per essere veri e la sua espressione delusa nel vederla andare via.

Un bussare alla porta la richiamò alla realtà: “Els, sei sveglia?”

Si alzò a sedere, stropicciandosi gli occhi: “Tra un po’.”- disse sorridendo a Jack, che si era fermato sulla soglia.

-“Babbo Natale e signora sono seduti a colazione, ti andrebbe di farmi compagnia?”- le chiese, prendendo il giro il padre con quel soprannome calzante.

-“Con piacere.”-  disse strofinandosi di nuovo gli occhi. Le mani erano diventate nere, piene del makeup con cui era andata a dormire –“ Forse dovrei rendermi presentabile prima, che dici?”-

-“Il bagno sai dov’è e per quanto riguarda i vestiti, puoi benissimo venire in pigiama, ma se vuoi l’armadio di Tooth è sempre nello stesso posto.”- le disse abbassando lo sguardo.

Elsa gli si avvicinò e gli lasciò un bacio sulla guancia: “Grazie.”- Si ritrovò a pensare che, molto probabilmente, non avrebbe mai smesso di ringraziare Jack North.

*-*-*-*-*-*-*

Rovistare tra i vestiti della sua migliore amica morta, come fosse in uno dei tanti franchising Target, non era il modo migliore per cominciare la giornata. Purtroppo le toccava se non voleva scendere in strada con un pigiama verde con stampe di colibrì, o ancora peggio con un vestito Armani ricoperto di paillette a specchio che avrebbe praticamente calamitato l’attenzione di mezza New York su di lei. Essere al centro dell’attenzione era tutto ciò che non voleva in quel momento. Così scelse gli abiti più semplici che riuscì a trovare: un paio di jeans, un maglione blu e delle snickers che un tempo dovevano essere di un bianco immacolato.

Si vestì in fretta, guardando in giro, osservando i resti materiali della vita di Toothiana North, la prima amica che avesse mai avuto, la sua spalla al liceo, la sua complice, la sua migliore amica, la sua sorella maggiore. Erano praticamente cresciute assieme. Quando i North avevano lasciato Arendale per trasferirsi nella Grande Mela, aveva sofferto come un cane: non c’era più alcun divertimento senza Tooth. Ma quando anche lei era arrivata a New York tre anni prima, le scorribande erano ricominciate e il divertimento si era triplicato, fino a quando... Ancora non le sembrava vero che lei non ci fosse più. Era qualcosa che la consumava dentro, il dolore della sua perdita. Poteva solo immaginare come dovesse sentirsi la sua famiglia, cosa provasse Jack. Toothiana era stata una figlia devota, un po’ pazza,  ma dedita alla sua famiglia, una studentessa modello, prima in tutti i suoi corsi, ed un brillante futuro chirurgo. Eppure tutti i suoi sogni erano andati persi, rinchiusi in un scatola. Per sempre.

I suoi occhi luminosi le sorridevano dalle foto appese nel lungo corridoio che portava alla sala da pranzo. C’era anche lei in alcune di quelle foto e in una c’era persino tutta la sua famiglia al completo: gli Aren e i North erano amici di lunga data. Alcune foto ritraevano il signor North con suo padre Agdar, insieme alla squadra di canottaggio di cui avevano fatto parte al college. In un’altra, i coniugi North si abbracciavano, con il piccolo Jack che faceva capolino da un fagottino tra le braccia della madre. Ingrid North le era sempre piaciuta, con il suo portamento elegante e i lunghi capelli biondi e quegli occhi scuri, profondi come due pozzi, capaci di inghiottirti, colmi di una tristezza che sembrava bruciarle l’anima. Si era sempre chiesta cosa nascondessero quegli occhi tristi, quale segreto celassero sul fondo. Eppure il suo sguardo era dolce e attento.

-“Eccoti Elsie.”- la salutò la padrona di casa, chiamandola con quel nomignolo infantile che le ricordava giorni più felici.

-“Buongiorno.”- sorrise, sedendosi al fianco di Jack che leggeva il giornale.

-“Elsa! Dovresti farti vedere più spesso da queste parti. Sai che casa nostra è sempre aperta per te.”- la rimproverò con un sorriso bonario il signor North.

-“Sono stata parecchio…impegnata negli ultimi tempi. Vedrò di farmi perdonare, zio Nick.”- rispose, versandosi del caffè.

North rise di gusto: “Era da tanto che non mi chiamavi più così. Ma tu in fondo rimani sempre la piccola Els, non è vero?”-

-“Già, la piccola Els.”- borbottò pensierosa, portandosi la tazza alle labbra. Era davvero quella di una volta? Molto probabilmente, no. Ma glielo avrebbe lasciato credere, ci avrebbe creduto anche lei per il momento, perché alla vecchia Elsa mancava sentirsi così, parte di qualcosa. Parte di una famiglia.

-“Quando Jack mi ha detto che eri nostra ospite, ho chiesto a Mariah di preparare i pancake per colazione. I tuoi preferiti, se non ricordo male.”- le sorrise Ingrid dall’altro lato del tavolo- “Lì c’è lo sciroppo d’acero e lì la cioccolata.”- le indicò due contenitori affusolati.

-“Si, grazie.”- le se illuminarono gli occhi: quanta premura mostravano nei suoi confronti, e lei non era stata capace di perdere due minuti per chiamare e chiedere di loro, di come se la passavano. Erano quello che di più vicino ad una famiglia avesse a disposizione al momento. Doveva ricordarselo più spesso.

Si riempì il piatto e ci versò su il cioccolato. Il primo boccone mandò in estasi le sue papille gustative e il secondo le mandò in circolo una quantità sproporzionata di endorfine, facendola rilassare ancora di più.

-“E Anna?”- chiese Nick. La semplice menzione del nome di sua sorella annullò tutti gli effetti benefici del cioccolato, che si trasformò in fiele sulla sua lingua

-“Dovremmo organizzare una cena una di queste sere e stare tutti assieme.”- continuò Ingrid, girando il cucchiaino nel suo tè.

Elsa scambiò un’occhiata con Jack, che non aveva ancora aperto bocca.

-“G-già”- farfugliò –“sarebbe una bella idea. Ad Anna farebbe sicuramente piacere.”-

Jack notò il suo disagio e intervenne: “Els io devo fare delle commissioni ad Harlem, vuoi che ti riaccompagni a casa?”-

-“Jack! Lasciala finire in pace. Posso farla riaccompagnare da uno degli autisti.”- lo rimproverò il padre.

-“No, no. In realtà avrei anch’io da fare. E uno strappo mi farebbe comodo.”- si scusò politicamente, pulendosi le labbra con un tovagliolo e alzandosi –“È stato bello stare con voi, anche se per poco.”- sorrise.

-“Torna quando vuoi Elsie.”- le ricordò ancora la madre si Jack, andandole incontro e stringendola in un abbraccio. Lei ricambiò, inspirando il profumo della donna, così simile a quello di sua madre.

 Lasciò a malincuore casa North quella mattina. Un pezzo di lei era rimasto lì con loro, nella rassicurante routine quotidiana, fatta di gesti piccoli e ripetitivi. La vecchia Elsa, quella vera.

Jack la riaccompagnò al suo appartamento di Prospect Park: “Mi dispiace per prima. Loro vogliono bene sia a te che ad Anna, e non immaginano nemmeno lontanamente tutta questa brutta situazione.”

-“Non c’è bisogno che tu dica niente, Jack.”- lo rassicurò –“Sono stati magnifici, come sempre. Anzi, sono stati un toccasana per me. Mi hanno fatto sentire meno la mancanza di casa.”

Jack le sorrise triste, prima di sporgersi sul seggiolino e posarle un bacio leggero sulla fronte: “Quella è anche casa tua, Els. Lo è sempre stata.”

-“Lo so.”- disse guardando fuori, evitando di incrociare il suo sguardo –“Grazie di tutto, J.”- aprì lo sportello.

-“Ci vediamo presto.”- la salutò l’amico.

Osservò la macchina sparire tra le strade trafficate e poi si voltò verso il palazzone grigio che le si stagliava davanti. Sospirò sconfitta.

-“Ricomincia la recita.”-

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Era in coda, da quanto? Venti minuti, mezz’ora? Non lo sapeva di preciso, ma sapeva con assoluta certezza che tra non molto sarebbe esplosa come una supernova. Cosa mi aspettavo? È lunedì mattina, si lamentò tra sé, battendo insistentemente il piede in terra. Il tizio alla cassa, davanti a lei, aveva ordinato venti diversi tipi di bevanda, tra caffè macchiati e tè al ginseng, da mandare ad un ufficio nel palazzo adiacente alla caffetteria. Stava sciorinando, con una cadenza lenta e fastidiosa, i nomi di tutti i suoi colleghi da apporre sui bicchieri.

-“Karis, con la K o con il Ch?”- chiese il commesso dietro al bancone, con un pennarello in un mano e un bicchiere di carta nell’altra.

Non ci vide più dalla rabbia: “Insomma amico, stai scherzando?”- sbottò, calamitando l’attenzione di mezzo negozio- “Quante Karis potranno mai esserci in un ufficio? Che importanza fa se è con a K o con il CH?”-

-“Finalmente qualcuno l’ha detto.”- sentì qualcuno borbottare dal fondo della fila alle sue spalle.

Il commesso scribacchiò veloce sul bicchiere, poi liquidò il cliente con uno sterile ‘Arrivederci’.

Merida scalò di un posto, finalmente capace di ordinare per sé: “Un doppio espresso e un London Fog.”-disse al ragazzo, che ormai la guardava come si guarda un bomba ad orologeria, mentre lei, ignorandolo, digitava un messaggio sul cellulare, da mandare ad Hiccup.

M- Prendi appunti. Oggi foldo, faccio da balia alla testa rossa.

H- Sta male?

M- Notte di bagordi…è tornata a casa con uno sconosciuto.

H-  Uno che non era Mr.IoHoUnContoInBancaaSeiZeri? Voglio tutti i retroscena.

M- OMG! Ti rendi conto che sembri una vecchia zitella in cerca di scoop? E ti chiedi anche perché Astrid ti ignora?

H- Sono curioso…tutto qui.

M- Devo andare. Ti aggiorno dopo Miss Marple XD

Gettò il cellulare in borsa, passò una banconota al cassiere e recuperò la sua ordinazione. Sorseggiò il suo tè, rigorosamente bollente ed amaro, mentre ritornava all’appartamento, ammettendo con sé stessa che la teiera che aveva acquistato qualche mese prima, era praticamente diventata un soprammobile, da quando aveva scoperto la comodità della caffetteria all’angolo.

Quando arrivò alla porta, aveva bevuto quasi tutto il contenuto del bicchiere, senza accorgersene, persa nei propri pensieri. Poggiò l’altro bicchiere ai suoi piedi e rovistò nella borsa alla ricerca delle chiavi, maledicendo quella sottospecie di pozzo nero e la tutta la paccottiglia inutile che si portava dietro. Quando finalmente riuscì ad entrare, trovò tutto come l’aveva lasciato quasi un’ora prima: Anna doveva ancora risvegliarsi dal suo coma indotto. Al suo risveglio l’avrebbe aspettata un terzo grado coi controfiocchi, dal quale poi avrebbe redatto un sunto da inviare ad Hiccup, che a sua volta lo avrebbe inoltrato a Rapunzel e in meno di dieci minuti la bionda si sarebbe fiondata nel loro appartamento, salendo tre rampe di scale a due a due, per accertarsi delle condizioni fisiche e mentali dell’amica in stato comatoso.

Sperò solo che Anna si svegliasse presto, perché a) il caffè che le aveva preso si sarebbe altrimenti freddato, diventando una ciofeca imbevibile e b) i suoi nervi avrebbero cominciato a dare i numeri.

Sbatté con forza la porta.

Anna, eccoti un piccolo aiuto.

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Il rumore della porta che sbatteva la richiamò alla realtà, trascinandola via da un sonno senza sogni, popolato solo da ombre scure e visioni distorte. Rotolò nel letto, aggrovigliandosi nelle lenzuola; non ricordava di essere mai arrivata al letto o di essersi tolta le scarpe, ma eccola, distesa lì, più morta che viva.

Aveva un sapore atroce sulla lingua, una banda di mariachi scatenati che le suonavano la cucaracha in testa, e un buco allo stomaco profondo come la faglia di Sant’Andrea. Si stropicciò gli occhi e provò a mettere a fuoco la stanza e soprattutto la sveglia sul comodino.

9:35…la bastarda traditrice non aveva suonato!

-“Merda!”- saltò a sedere, con la conseguenza che la stanza cominciò a vorticarle furiosamente attorno e ricadde scomposta sul materasso, con le gambe ancora avvolte per metà nelle lenzuola.

Sospirò, scostandosi i capelli finitigli davanti agli occhi, analizzando la situazione: era tornata a casa ubriaca, accompagnata da qualcuno, di cui al momento non ricordava né il nome né i connotati, a cui associava senza sapere perché la cioccolata; ricordava anche del rosso che le aveva danzato davanti agli occhi per alcuni minuti, e quella non poteva che essere la prova schiacciante che ad un certo punto, nel suo stato delirante, Merida era saltata fuori dalla sua stanza, e un boato assordante, proprio come quello che l’aveva appena svegliata.

Poi buio. Solo benefico e piacevole buio, seguito da un altrettanto gradito silenzio.

Provò di nuovo a rimettersi in piedi, con più calma stavolta, liberando le gambe dalle lenzuola. I primi passi che mosse, furono accompagnati da un senso di rallentamento inquietantemente fastidioso. Si fermò due volte, tenendosi la testa, prima di arrivare alla porta della sua stanza.

-“Eccola che risorge dal regno dei morti.”- la accolse la voce della coinquilina, non appena mise piede nel piccolo salotto-“Pensavo d’averti persa per sempre. Avevo già fatto piani per la tua stanza: sappi che sarebbe diventata il mio imaginatorium.”-

-“Devi smetterla di farlo.”- biascicò con la bocca impastata, ignorando le sue frecciatine.

-“Cosa?”- le fece eco Merida dalla cucina.

-“Quella porta verrà giù un bel giorno.”- sbottò indicandola, mentre si lasciava cadere sul divano e richiudeva gli occhi, ancora troppo pesanti da tenere aperti.

-“Tieni. Giù, senza fiatare.”- la scozzese le si parò davanti, porgendole un bicchiere d’acqua e una compressa bianca.

-“Vuoi drogarmi?”- le chiese con un sorrisetto, prendendo il bicchiere e ingoiando la pillola con un sorso d’acqua.

-“Come se avessi bisogno di una pillola per farti perdere conoscenza.”- Merida roteò gli occhi e si riavviò in cucina-“Basta darti una serata libera e una bottiglia. Farai tutto da sola.”-

-“Questo è un colpo basso.”- si lamentò stiracchiandosi -“Non stavo così male.”-

-“Mmh-mh.”- la rossa tornò indietro, con il caffè –“Chi è Christopher?”- le chiese a bruciapelo, sedendole accanto.

Anna prese un sorso di caffè e fece una faccia disgustata: “Mio dio, è amaro!”-

-“È  caffè, cosa ti aspettavi?”-

-“Sinceramente, della cioccolata.”-

-“Non sviare il discorso…Christopher, chi è?”-

-“Lui è…ehm.”- valutò le varie risposte che le frullavano in mente, poi scelse la meno improbabile - “Il fattorino carino della pizzeria all’angolo.”-

Il sopracciglio sinistro di Merida schizzò su, fin quasi all’attaccatura dei capelli: “Sul serio? Questa è la risposta migliore che quel tuo cervello spostato riesce a darmi?”-

-“Mi sono appena svegliata, cosa pretendi!”-

-“Non è il sonno che ti annebbia la mente, mia cara. Sono i fumi dell’alcool che ancora ti circolano in corpo.”- puntualizzò, facendole segno di bere il caffè –“Si può sapere quanto hai bevuto ieri sera? Per la pellaccia di Mor’du, non ricordi nemmeno chi ti ha riaccompagnata a casa!”-

-“Chi è Mor’du?”-

-“Anna!”-

Sospirò: “Christopher?”- chiese esitante, guardando Merida dal bordo del bicchiere.

La coinquilina annuì: “Ti ho trovata sulla porta, tra le braccia di questo Christopher, mezza intontita e la faccia di una che si era divertita abbastanza.”- ridacchiò a quelle ultime parole- “Cos’è, hai già dimenticato il tuo principe azzurro senza macchia e senza paura, in sella al suo cavallino rampante?”- la pungolò con un dito.

-“Aspetta che?”- balzò sull’attenti-“Cosa intendi per tra le braccia di questo Christopher? Noi stavamo…”-lasciò in sospeso la frase, ingoiando a vuoto.

-“Non sulla porta di casa, per lo meno. Ma non so prima dove tu sia stata e cos’abbia fatto.”- scrollò le spalle-“Ti sei divertita?”-

-“Non è successo niente, ne sono assolutamente certa: sono stata da Olaf, e c’era la semifinale di campionato e credo d’aver bevuto da sola, almeno all’inizio. Poi…poi”- si colpì la fronte -“Ma certo, Christopher! Tranquilla, è il cugino di Olaf. Ora ricordo tutto: mi ha solo riportata a casa, non è successo nient’altro.”- sorseggiò ancora il caffè- “Che ti dicevo, dovevo solo svegliarmi meglio.”- incrociò i piedi sul tavolino davanti a sé, poi li riabbassò velocemente, colpita da un pensiero- “Hans non dovrà mai venire a sapere di questa cosa, non vorrei che si facesse un’idea sbagliata. Intesi?”- farfugliò.

-“Croce sul cuore.”- la prese in giro l’amica.

Merida prese il telecomando, abbandonato sul tavolino, e si sistemò meglio sul divano, accendendo la tv: “Peccato che non sia successo niente.”- blaterò, facendo sobbalzare Anna.

-“Che vuoi dire?”-

-“Sai, Christopher non è niente male.”- ridacchiò.

-“Ah si? Non me ne sono accorta.”- tergiversò, guardando casualmente lo schermo della tv dove passavano una replica dei Muppets.

-“A me non sembrava: lo guardavi come si guarda qualcosa da mangiare. Avrei scommesso che l’avresti morso.”-

-“Non essere ridicola. Christopher è l’idiota del caffè, non potrebbe mai piacermi in quel senso.”-

-“L’idiota del caffè?”- chiese Merida, sempre più curiosa.

-“Storia lunga e noiosa.”- tagliò corto Anna, strappando il telecomando dalle mani dell’amica. Fece zapping per alcuni secondi, poi scelse il notiziario: il giornalista della pagina sportiva si stava lanciando in un caloroso resoconto della schiacciante vittoria dei Broncos alla semifinale della sera precedente.

-“Dico sul serio. Sei sicura che Hans sia sempre la tua prima scelta?”- Merida si riappropriò del telecomando, facendole quasi versare il caffè addosso.

-“Assolutamente si. E poi non lascerei mai Hans per uno appena conosciuto.”- puntualizzò.

-“Hans l’hai conosciuto una sera di tre mesi fa, te ne sei innamorata al primo sguardo e state praticamente assieme…grande coerenza da parte tua.”-

-“Ma Hans è…”-

-“Ti prego non dire l’uomo della tua vita.”- la stoppò sul nascere-“Se dovessi ascoltare ancora una volta i tuoi discorsi deliranti sul vero amore, potrei morire sul serio.”-

-“Ma è così! La nostra è una di quelle storie d’amore che capita una volta in dieci generazioni: siamo fatti l’uno per l’altra.”-

-“Hai fame?”- le chiese all’improvviso, alzandosi dal divano e dirigendosi nella piccola cucina.

-“Cos’è questo cambio di registro?”- chiese sospettosa Anna.

-“Devo trovare un modo per tapparti la bocca.”- aprì il frigo e ne cacciò le uova e il latte -“Allora? Qualche preferenza?”-

-“Mmm no. Basta che sia roba commestibile. Ho una fame che mangerei anche te.”-

-“E che pancake siano, allora!”- esclamò Merida, soddisfatta d’aver messo a tacere sul nascere qualsiasi sproloquio/soliloquio sulla compatibilità di coppia tra Anna e il suo principe delle favole.

-“Credo dovremmo fare della spesa se non vogliamo mangiare cereali e Coca Cola per pranzo. Te la senti di scendere?”-

-“Certo. Dammi da mangiare per riempire questo buco nero che ho nello stomaco, un’altra aspirina e mezz’ora per prepararmi e sarò operativa.”- le rispose tra uno sbadiglio e l’altro.

-“Le aspirine sono nell’armadietto in bagno, i pancake saranno pronti tra un po’ e…Anna?”-

-“Mmh?”-

-“I denti. Lavali.”-

-“Mer!”- fece scandalizzata.

-“Hai un alito che sveglierebbe i morti.”-

Anna le lanciò una delle sue ciabattine rosa fosforescente, che volò dritta dal salotto alla cucina, colpendo in pieno il cartone del latte, rovesciandone fuori tutto il contenuto.

-“Anna! Ma dico, sei impazzita?”- sbraitò la scozzese rossa in viso, con goccioline di latte che le cadevano dai riccioli rossi.

-“Ops…quando sono sbronza la mia mira ne risente.”- disse trattenendo a stento le risate.

-“Ah, ora saresti sbronza?! Beh, grazie alla tua mira puoi dire addio ai pancake. Ci toccherà andare alla tavola calda.”-

*-*-*-*-*-*-*

-“Che ti avevo detto: fare la spesa a stomaco pieno, aiuta a non comprare cose inutili e nocive per la salute.”- sorrise contenta Merida spingendo il carrello pieno di frutta e verdura giù per la corsia del supermercato.

Avevano da poco lasciato la tavola calda sotto casa, dove avevano consumato una colazione degna di quel nome: uova e bacon, pancake e caffelatte.

-“Per me abbiamo esagerato con la natura... ci sono troppi pochi coloranti e zuccheri.”- si lamentò Anna mentre osservava con l’acquolina in bocca gli scaffali pieni di biscotti e dolciumi che le correvano ai lati.

Un verso deliziato le sfuggì di bocca quando passò davanti ad uno scaffale pieno di buste colorate e si fermò estasiata.

-“Mer! Mer, ti prego! Una di queste, una sola, poi chiuderò il becco e non mi  lamenterò più per il resto della settimana.”- le mostrò una confezione di marshmallows ricoperti di cioccolato.

-“Poniti questa domanda: sono necessari?”-

-“Assolutamente si!”- sbottò.

-“A cosa ti servono, sentiamo.”-

-“Te l’ho mai detto che soffro di cali di zuccheri?”-

-“Tu? Di cali di zuccheri?”- Merida scoppiò a ridere –“Tu hai una raffineria di zucchero in corpo, non uno stomaco, altro che cali.”- la scozzese riprese a camminare, spingendo il carrello verso le casse.

-“Allora? Posso prenderne una?”- continuò Anna, correndole dietro con la confezione stretta saldamente tra le dita, come se da essa dipendesse la sua vita.

Merida guardò prima la faccia sorridente e supplicante di Anna, poi il pacchetto incriminato. Annuì rassegnata, indicandole di metterlo nel carrello con il resto della spesa.

-“Sai, da quando abito con te, non ti ho mai vista mangiare nulla di sano. Praticamente ti nutri di biscotti, pasticcini, noodles in scatola, degli hamburger di Olaf, occasionalmente di uova e bacon della tavola calda e non sia mai che manchi cioccolato in quantità industriale nella tua dieta!”-

Anna mise su il broncio, farfugliando tra sé che era grande e poteva mangiare ciò che più le aggradava.

-“Almeno stasera mangerai qualcosa di buono. Ho deciso di preparare lo stovies (*).”- disse mettendosi in coda per pagare.

-“Devo preoccuparmi?”- saltellò sul posto Anna, affiancandola.

-“Fidati, mi chiederai di rifarlo.”-

-“Se è buono la metà della cena del Ringraziamento, allora di sicuro.”-

Merida controllò velocemente che ci fossero tutti gli ingredienti necessari e sospirò scocciata- “Ho dimenticato le carote. Ti dispiacerebbe andarle a prendere?”-

-“Poniti questa domanda:”- le fece il verso-“sono necessarie?”-

-“Si.”- le rispose con la faccia più seria che riuscì a tirare fuori.

Anna si avviò sconfitta giù per i corridoi del supermercato, canticchiando a bassa voce, fino al reparto degli ortaggi che, per quanto non le piacessero, erano una gioia per gli occhi: il rosso dei pomodori, il giallo delle pannocchie, il verde dei cavoli e l’arancio delle carote.

Si avvicinò a passo svelto allo stand e valutò quali prendere, osservandole con occhio critico, con una mano sotto il mento e il dito indice che le batteva sulle labbra al ritmo della musica che suonava bassa nell’aria.

A casa non era mai lei a fare la spesa. Di solito se ne occupava la governante o al massimo la mamma. Né lei né Elsa avevano mai messo piede in un supermercato, prima di New York. Si vergognava di confessarlo alla coinquilina, perché avrebbe potuto tacciarla di essere ancora più inutile di quanto già non fosse.

Sostò lì per alcuni minuti indecisa: non voleva scegliere quelle sbagliate, altrimenti Merida l’avrebbe rimandata indietro a prenderne altre. La scelta di Anna, borbottò tra sé. Quando cominciò a battere anche il piede destro in terra, e prima che cominciasse ad ancheggiare come un’invasata al ritmo della musica, qualcuno si schiarì la voce alle sue spalle, facendola sobbalzare. Si portò le mani al cuore, voltandosi di scatto.

-“Oh mio dio!”- esclamò- “Sei solo tu.”- poi si ricompose.

-“Ciao anche a te.”- la salutò Kristoff cercando di aggirarla.

Anna arretrò, presa alla sprovvista, andando a sbattere contro lo stand: “C-che fai?”

-“Carote.”-

-“Che?”-

 -“Dietro di te.”-

-“Oh…c-certo.”- Anna gli fece spazio e lui afferrò le prime che gli capitarono a tiro. Poi le rivolse un cenno del capo e fece per andarsene.

-“Aspetta!”- lo richiamò, guadagnandosi uno sguardo interrogativo e lievemente scocciato –“I-io…ti dispiacerebbe sceglierne anche per me? Si, insomma le…”- fece un colpo di tosse per nascondere l’imbarazzo della voce-“ ehm, carote.”-

-“Dici sul serio?”-

-“Ti sembro una che scherza?”-

-“Tu sei pazza.”- si voltò di nuovo per andarsene.

-“Anche, ma ascolta: devo sceglierle per la mia coinquilina, che è già alla cassa, e se prendo quelle sbagliate potrebbe anche decidere di sbattermi fuori sul pianerottolo e, per quanto sia confortevole, non mi sembra proprio il luogo ideale per vivere. Inoltre ti disturberei a tutte le ore del giorno per ogni minima cosa, quindi se non vuoi che…”-

-“Cosa stai blaterando?”-

-“Le-carote-sono-di-vitale-importanza!”- sillabò.

Kristoff la osservò bene, senza parole: la rossa sembrava venuta fuori da uno di quei cartoni animati per le bambine, tutta pimpante e chiassosa, e il maglione natalizio con una renna sul davanti che le spuntava dal cappotto, non faceva altro che confermare la sua teoria sulla dubbia sanità mentale della ragazza che aveva di fronte.

Sospirò demoralizzato, acconsentendo in silenzio alla sua richiesta; prese un mazzo di carote e gliele passò: “Contenta?”-

-“Sicuro vadano bene?”-

-“Fidati.”-

-“Cos’è, sei un esperto di carote?”- indagò petulante.

-“Le vuoi o no?”- sbottò scocciato, agitandole gli ortaggi arancioni davanti al viso.

Anna le afferrò e gli rivolse un’occhiataccia: “Non c’è bisogno di essere scortesi.”

Il ragazzo le voltò di nuovo le spalle e si avviò giù per un altro reparto. Anna lo seguì a ruota e lo affiancò, scrutandolo da capo a piedi con un sorrisino sulle labbra.

-“Vedo che ti sei ripresa alla grande dalla super sbronza di ieri.”-

-“Mmh, si. Merito del caffè e delle aspirine.”-

Fecero silenzio. Era una situazione imbarazzante.

-“Non hai qualcun altro a cui dare i tormenti, lentiggini?”- le chiese, innervosito dalla sua presenza assillante.

Anna storse il naso al soprannome, ma lasciò correre: “Non ti sto seguendo. Stiamo solo facendo la stessa strada.”- puntualizzò, rovistandosi nelle tasche del cappotto.

Tirò fuori degli incarti di caramelle, le chiavi dell’appartamento, un biglietto usato della metro e degli scontrini di Starbucks, prima di trovare quello che stava cercando.

-“Tieni.”- gli porse un cartoncino giallo.

-“Cos’è?”- le chiese senza prenderlo, guardando il pezzo di carta come fosse un serpente velenoso.

-“U-un buono per la lavanderia. Si insomma, per ringraziarti per ieri sera e per le carote. Ti devo ancora un caffè, ma questo mi sembra un buon inizio.”- gli sorrise, facendogli cenno di prendere il buono.

Lui arrossì impercettibilmente, almeno così le sembrò, e distolse lo sguardo: “N-non ce n’era bisogno. Ho fatto solo un favore ad Olaf…”-

-“Insisto. Ti ho creato solo guai dal primo momento: ricordi l’incidente della metro?”- gli disse correndogli dietro per mantenere il suo passo.

-“Come dimenticarlo.”- ridacchiò lui, indicando la macchia di caffè schiarita che ancora imbrattava la fronte del suo cappotto.

-“Prendilo, su.”- continuò, sorridendogli riconoscente.

Lui lo afferrò e per un momento le loro dita si sfiorarono, ma nessuno dei due sembrò accorgersene.

-“Grazie.”- le disse guardandola per la prima volta dritto negli occhi.

-“Figurati.”- gli rispose scrollando le spalle, sostenendo il suo sguardo. Ecco perché quella mattina aveva associato il cioccolato alla sua figura: i suoi occhi erano praticamente del colore della cioccolata calda che amava tanto.

-“Anna! Ma quanto c’hai messo?”- la riscosse una voce, facendola sussultare.

Merida aveva un diavolo per capello: l’aveva aspettata per ben dieci minuti davanti alle casse e aveva ceduto il posto a venti persone diverse. Odiava aspettare.

-“Stavo per mandare una squadra di soccorso a cercarti!”- esclamò, prendendo le carote dalle mani dell’amica-“Ci voleva tanto per delle stupide carote?”-

Anna e Kristoff si scambiarono uno sguardo: “Cosa ti avevo detto?”- disse lei scuotendo il capo.

La scozzese sembrò accorgersi solo in quel momento del ragazzo e lo squadrò da capo a piedi: “Heilà, Christopher!”- lo salutò come fosse il più vecchio dei suoi migliori amici, con un sorriso raggiante sulle labbra mentre punzecchiava il fianco di Anna con un gomito.

-“Heilà mmm…pazza con l’arco.”- ricambiò titubante.

-“Già! Scusa per ieri sera, non volevo essere così violenta, ma Anna era in quelle condizioni e tu sei...”- lo indicò gesticolando ampiamente-“Insomma, chi non avrebbe frainteso? Mettiti nei miei panni Christopher, badare alla testa rossa qui, non è facile.”- si lamentò.

-“Si chiama Kristoff, Mer. E poi non ho mica bisogno della tata, sono capace di cavarmela da sola.”-

Kristoff omise il fatto che si era appena fatta aiutare a scegliere delle verdure, per non peggiorare la sua situazione.

-“Ah, siamo già passati al nome di battesimo?”- la stuzzicò, glissando sulle sue proteste.

-“Che?”-

-“Lascia perdere.”- ridacchiò la scozzese, rimettendosi in fila- “È stato un piacere, Kristoff.”-gli disse porgendogli la mano-“E per la cronaca, io sono Merida.”

Kristoff la afferrò e Merida la scosse energicamente:“Si, si, anche per me.”- si affrettò a dire, anche se conoscere l’altra rossa gli era sembrato più un incontro del quarto tipo. Da dove venivano fuori quelle due invasate?

-“Beh”- si intromise Anna- “Ci vediamo in giro, o sul pianerottolo o…dovunque sia.”- farfugliò, ripetendo il gesto della coinquilina.

Il ragazzo strinse anche la sua mano e una scossa di elettricità statica li fece saltare sul posto.

-“S-si…c-ci vediamo in giro.”- bofonchiò lui allontanandosi.

Anna si strinse la mano al petto e lo guardò allontanarsi con le spalle incurvate.

-“Tipo singolare.”- le disse Merida ridacchiando sorniona.

-“Smettila, ho capito a che gioco stai giocando.”- la ammonì- “Se proprio ti interessa tanto perché non te lo prendi tu?”-

-“Non è il mio tipo.”- tagliò corto.

Prima che Anna potesse controbattere che il suo tipo ideale poteva essere solo un orso, il cellulare le cinguettò in tasca.

Passo a prenderti alle 9 in punto. Andiamo a cena in un posto speciale.

-“Anna? Anna!”- Merida le agitò una mano davanti al viso –“Stai bene? Fissi quello schermo con uno sguardo che potrebbe bucarlo.”- la trascinò per un braccio alla cassa: era finalmente arrivato il loro turno –“Chi ti ha scritto?”

-“Hans.”- soffiò fuori, con occhi sognanti.

-“Ah, ecco spiegato quello sguardo.”- sbuffò –“Cosa dice? Che anche stasera ha da fare?”-

-“Tutt’altro.”- Anna le piazzò il cellulare sotto gli occhi –“Credo che il tuo stovies dovrà aspettare.”-

 

 

(*)Stovies: piatto tipico scozzese a base di carne e verdure. Tipo un Gulash, per capirci.

 

NdA: Saaaaaaalve! Come ve la passate da queste parti? Spero con tutto il cuore che stiate tutti bene ;) Era da un po’ che questa storia non veniva aggiornate, eh! Credevate che fossi morta, vero?! Non vi libererete mai di me...muahuhauahuah! Ne è passata di acqua sotto i ponti in tutti questi mesi, sono successi fatti, ho fatto cose e la vita è andata avanti. Eppure il fatto di dover aggiornare questa ff ha continuato a martellarmi in testa per tutto il tempo XD Sarò sincera: sono stata tentata di abbandonare tutto e tirare i remi in barca. Non avevo proprio voglia di continuarla, né questa né le mie altre ff, un po’ per mancanza di ispirazione, un po’ per pigrizia e un po’ per i tiri mancini della vita reale, che sembrava essere di mezzo ogni volta che mi accingevo ad aprire word. Ma grazie ad Adriana (aka Amberly_1, accendete una candela per questa santa ragazza che mi ha praticamente tenuto compagnia tutti i giorni, mi ha letteralmente raccolto con la paletta e mi ha rimesso in carreggiata con le sue dolcissime parole e i suoi preziosi consigli! Senza di lei questo capitolo non esisterebbe!) e alle recensioni che non sono mai mancate in questi mesi, nonostante la mia lontananza da efp, la voglia mi è un po’ ritornata, se non per il bene della storia, almeno per la vostra felicità (spero! XD).

Anyway, now I’m back snowflakes ^.^

Spero di poter aggiornare presto anche Slice of Life in Arendelle e la raccolta di one shot Kristanna *.*

Come sempre, ci si legge in giro! ;)

Ah, per poco non me ne dimenticavo: in questi mesi mi sono un po’ cimentata con Gimp, che per chi non lo sapesse è un programma di grafica, e dopo vari tentativi e molti fallimenti, sono riuscita a creare delle cover/copertine per questa ff. Fanno schifo, lo so! XD Vorrei che voi ne sceglieste una e quella che piacerà di più sarà la copertina permanente di Dirty Little Secrets :) Se poi queste non vi piacciono e qualcuno di voi a tempo perso volesse cimentarsi come me e ne volesse creare una propria, io sono aperta a tutto XD

Ecco, ora ho davvero finito!

 

   
 
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