XXIII
L’ILLUSIONE
“Oh,
Tomei!” si
stupì Camus, entrando nella grande biblioteca del tempio
“Sono il primo che
apprezza nel vedere un giovanotto come te chino sui libri
ma..è molto tardi!”.
“Ammetto
di non
essermi accorto del tempo che passa” rispose il giovane.
“Tua
madre sarà in
pensiero”.
“No,
lo sa che sono
qui. Poi non sono un bambino..”.
“Che
vai cercando
fra questi volumi, ragazzo?”.
“Risposte.
Visto che
voialtri al tempio non parlate mai di certe cose..”.
“Ti
riferisci alla
guerra contro i romani?”.
“Già..”.
“Tomei,
non è
argomento da trattare per chi, come te, ha appena ottenuto
l’armatura d’oro. Dovresti
essere fuori a festeggiare, non qui a farti domande senza
risposta”.
“Ma
io..”.
“Lodo
la tua sete di
conoscenza. E, visto che oggi è un giorno speciale, ti
concederò alcune
risposte. Avanti..cosa vuoi sapere?”.
“Dov’è
mio nipote?” domandò
Kanon, entrando alla tredicesima.
“Non
te lo so dire” ammise
Kiki “Ho avuto la gioia di affidargli l’armatura
stamattina ma poi non l’ho più
visto”.
“Quel
ragazzo è
strano..”.
“Ha
l’animo
tormentato e inquieto del padre..”.
“Con
la differenza
che il padre ne aveva ragione, lui no”.
“Sai
perché ha
lottato per ottenere l’armatura..”.
“E
la cosa mi
preoccupa assai”.
“Non
riuscirai ad
impedirlo. Spero solo che la sua affannosa ricerca non lo porti verso
l’oblio”.
“Lo
impedirò”.
“Non
puoi, Kanon. Sai
bene che, per quanto ti possa sforzare, sei comunque solo un
tutore”.
“E
maestro. Ho
allevato io quel ragazzo e sua sorella Ipazia!”.
“Ma
comunque la
sorte seguirà il suo corso. Devi solo sperare che un giorno
trovi la pace,
senza dover incontrare la morte”.
“Tu
dici che lui
capisca?” domandò il giovane.
“Lui
chi?” rispose
Camus.
“Mio
padre. Credi che
capisca quel che accade?”.
“No.
Non ne è in
grado”.
“E
tu come lo sai?”.
“Tutti
gli Dei
guaritori hanno tentato di trovare una soluzione ed Hypnos stesso, che
governa
i sogni, ha detto che non si può fare niente”.
“Ci
deve essere un
modo!”.
“Tomei..la
mente ed
il corpo di tuo padre hanno subito gravissimi danni in quella guerra.
È solo
grazie all’Ikor che scorre in lui che è ancora in
vita. Ed è solo per colpa di
Ares, che lo impedisce, che ancora non c’è stato
qualcuno che ha posto fine
alla sua esistenza. Fosse per me, l’avrei staccato
già da tempo da quelle macchine,
lasciandolo morire”.
“Meno
male che c’è
nonno Ares..”.
“Se
per te è così..”.
“Lui
è cosciente. Mi
ha sorriso! Prima, quando gli ho mostrato l’armatura, ha
sorriso!”.
“Non
sorride a te,
ragazzo. La sua mente è persa in un’illusione che
ha generato per riuscire a
rimanere in vita. Chissà che cosa vede ed
immagina!”.
“Però
sorride..”.
“Sì,
è vero. Ho servito
per anni tuo padre Arles e, salvo ghigni malefici, non ho visto spesso
un
sorriso su quel volto. Perciò non so quanto sia giusto
tentare di liberarlo dal
mondo che si è creato. Da una parte perché
probabilmente andrebbe incontro alla
morte, e dall’altra perché in quel suo mondo
immaginario credo si trovi meglio”.
“Ma
è immaginario! Non
vive! E resterà lì in eterno!”.
“Ci
sono cose a cui
non vi è rimedio..”.
“Io..io
voglio che
sia fiero di me! Voglio che viva e sorrida in questo mondo. Non sa
nemmeno che
esisto..”.
“Di
questo non devi
parlare con me, ma con Aiolos e tua madre, che erano presenti negli
ultimi
attimi di coscienza del tuo genitore”.
Ipazia
suonava la
lira ed Atena sorrideva. A fianco della Dea, un giovane dai lunghi
capelli mori
ascoltava la canzone, anche se con non troppo entusiasmo. Egli era
Zeus, figlio
di Atena ed Ares. I genitori avevano deciso di dargli quel nome, in
ricordo del
padre divino deceduto. La musica non rientrava fra i suoi interessi e
trovava
noioso quel concertino. Sperava di non essere il solo ma attorno a lui
vedeva
solo cavalieri felici, o mezzi addormentati. Molti di loro avevano
ricevuto in
dono da Era, come premio per la loro fedeltà in battaglia,
la giovinezza, anche
se non tutti l’avevano accettata. Deathmask e Shura, un tempo
cavalieri d’oro ed
ora maestri, stavano giocando a carte. Sul volto, portavano pesanti
cicatrici
in ricordo dello scontro contro Saturno, che li aveva visti vincitori.
Aphrodite era momentaneamente sull’Olimpo, assieme a
Persefone, sfruttando i
sei mesi estivi che aveva a disposizione. Milo, grazie a Mirina, aveva
imparato
a cavalcare e passava molto tempo fra le amazzoni. Mur, che come
Lemuriano non
aveva bisogno del dono della giovinezza di Era, stava insegnando ad una
giovane
della sua specie i segreti delle armature, sgravando così
Kiki di quel compito.
Shaka si era ritirato in un lontano tempio in India, deciso a
raggiungere in
Nirvana senza aiuto divino. Aldebaran era ospite fisso delle
divinità
Olimpiche, perché bravissimo a cucinare oltre che a
mangiare. Dohko era tornato
ai cinque picchi. Ioria aveva volontariamente lasciato il tempio,
seguito da Marin.
Camus ed Aiolos, rifiutando il dono di Era, erano saggi insegnanti.
Kanon, con
sangue divino, aveva addestrato il nipote Tolomeo, che tutti chiamavano
Tomei, ed
Ipazia. Aveva fatto loro da padre, anche se non si era mai ritenuto
tale.
Aiolos
ricordava con
una certa tristezza quel giorno. Ma quel ragazzo era insistente e
doveva
rispondere alle sue domande. Camus, sicuro che fosse la cosa giusta,
aveva
condotto Tomei al cospetto dell’antico Sagittario e
Discordia.
“Ditemi
quel che è
successo” incalzò il giovane.
“Perché?”
domandò Discordia
“Cosa cambia?”.
“Sono
un uomo,
ormai. É tempo che sappia..”.
I
capelli rossi di
Tolomeo stavano mutando leggermente, segno che stava iniziando ad
irritarsi.
“E
va bene..”
sospirò Aiolos “..è vero, io
c’ero quando tuo padre ha perso coscienza per
sempre. Era appena stato trafitto dalla lancia di Marte, che ne aveva
trapassato il petto. Non se ne rendeva conto, probabilmente,
perché cercava in
ogni modo di combattere ancora. Il cuore però gli si
fermò, per via del potere
del Dio romano. Io feci di tutto per rianimarlo ma giunsi tardi. La sua
mente,
come Dio delle illusioni, era stata in grado di creare un mondo
alternativo,
per proteggere la vita di Arles”.
“Quindi
lui è
praticamente morto nel bel mezzo della guerra contro i romani. Non sa
della mia
esistenza..”.
“Non
ne sono sicura”
rispose Discordia “Io ero accanto a lui e gli rivelai di
essere incinta, prima
che chiudesse gli occhi. Mi ha sorriso, credo che lo sappia”.
“Ma
poi..cosa è
successo?”.
“Mio
fratello Ioria
svelò i suoi piani ed Ares lo attaccò”
riprese Aiolos “Phobos, ferito
gravemente, quel giorno si salvò per un pelo. Fu solo grazie
ad Atena che il
Leone ebbe salva la vita. E fu solo grazie a Discordia se tuo nonno
Marte non
finì impalato all’ingresso del tempio”.
“Ma
i greci hanno
vinto..”.
“Sai
bene che quella
guerra è stata generata dalla gelosia. Ma noi greci ci siamo
trovati in
vantaggio nella battaglia finale perché precedentemente
avevamo sconfitto
alcuni romani. Loro avevano perso Giove e Giunone, noi avevamo ancora
Era, che
è stata decisiva. Speravamo nell’intervento del
Fato, o di Destino, ma a
nessuno di loro due importa delle sorti della loro gente. Quasi tutti i
romani
vennero sterminati o fatti prigionieri. A Marte è toccata
una sorte diversa perché
gemello di tua madre, che ha chiesto per lui la grazia. I pochi romani
rimasti
sono stati cacciati dall’Olimpo ed ora vi dimorano alcuni
greci. Ovviamente noi
ellenici siamo stati in pace fra noi per poco ed Atena ha dovuto
sigillare di
nuovo Poseidone ed Hades, con i sigilli generati da tuo padre. Atena,
come sai,
è a capo degli Dei greci e, con Ares come consorte, governa
quelli che sono
rimasti. Questo, mio caro, fa di te un principe e dovresti esserne
fiero”.
“Lo
sono. Però..”.
“Efesto,
Apollo ed
Ermes si sono subito presi cura di tuo padre, senza riuscire a
risvegliarlo. Se
fossi intervenuto qualche istante prima, forse..”.
“Non
dire questo,
Aiolos!” lo interruppe Discordia “Hai fatto il
possibile”.
Tolomeo
annuì. Fuori
era notte fonda e per il tempio udiva la musica della sorella Ipazia.
Ignorando
i divieti di Atena, raggiunse di nascosto il luogo in cui era custodito
il
padre. Un tempo l’antico sacerdote era seguito da molte
persone e non era mai
solo. Con il passare degli anni, però, le cose erano
cambiate. Quella notte,
nel buio, Arles era abbandonato. Efesto l’aveva avvolto in
una sorta di
baccello di vetro. In piedi, perché secondo i medici
dell’Olimpo era la cosa
migliore, era collegato a complicati macchinari. Galleggiava
nell’Ikor. In quel
momento aveva gli occhi chiusi, ma a volte capitava che li aprisse.
Vitrei e
vuoti, scrutavano l’illusione creata dalla sua mente,
ignorando la realtà. Sul cuore
ancora si poteva vedere il segno lasciato dalla lancia di Marte.
“Ciao,
papà” salutò
Tolomeo “Sono io, Tomei. Sì, lo so, sono passato
prima. Spero tu sia fiero di
me, ora che indosso la tua armatura”.
Il
ragazzo ne fu
assolutamente certo: il padre sorrideva! Però tutti dicevano
che sorridesse per
altro, non per quel che accadeva nella realtà.
“Quest’armatura
l’ho
avuta grazie a te, papà. È la mia
volontà a guidarmi ed il mio coraggio lo
metterò al tuo servizio. A costo di girare per il mondo
intero, troverò un modo
per farti uscire da lì. E, ti prometto, sorriderai anche
nella realtà. Sono venuto
a salutarti. Parto e spero di tornare vincitore”.
Con
un inchino, il
giovane si congedò ed uscì da quella caverna a
pochi passi dal santuario.
Kanon, a guardia del luogo dove era custodito il fratello, vide il
nipote. Fece
per fermarlo, vedendo allontanare dal tempio, ma alle spalle del
giovane
percepì un cosmo tremendamente familiare.
“Ovunque
tu vada, Tomei..”
mormorò lo zio “..tuo padre Arles ti
proteggerà. Spero solo che un giorno, sia
tu che il mio amato fratello, possiate trovare la pace
nell’animo. Buona fortuna”.
Tolomeo
parve
sentirlo, perché si voltò proprio verso lo zio. I
capelli rossi mossi dal vento
ne coprirono in parte lo guardo, lievemente malinconico come quello del
padre.
“Scusami,
zio” parlò
al vento il ragazzo “..ma rischio di impazzire restando qui.
Tornerò, l’ho
promesso a mia sorella. Non stare in pena per me”.
Kanon
non udì quelle
parole. Osservò il corpo del fratello e sospirò:
Arles sorrideva.
Ok,
eccoci alla fine. Insultatemi pure per questo capitolo. A presto,
con nuove follie!