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Autore: Aleena    18/04/2015    0 recensioni
Londra, 1844.
Un oscuro rito, una creatura dimenticata nei secoli, un’alleanza.
Dal testo: “Lo zombie si alzò e iniziò a incamminarsi; il suo incedere era claudicante, come se non rammentasse più come utilizzare i piedi e la sua avanzata era accompagnata da una serie di grida soffocate, inframmezzate a sbuffi d’aria, il prodotto di un apparato vocale non più adatto per creare suoni coerenti. Dorian e Shanzhai si limitarono a seguirlo: sembrava la macabra rappresentazione di una scena di passeggio, con i due padroni a portare a spasso il cane. ”
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Storia scritta a sei mani da Aleena, Melian e Aurora_Boreale e partecipante al contest Round Robin “Your destiny in my hands, your chance in the choice that you need” indetto da My Pride sul forum di EFP e tristemente naufragato.
Genere: Horror, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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CAPITOLO III

MUSICA DALL'OLTRETOMBA
 

 
  Il cimitero di Kensal Green1, tanto amato dai londinesi durante il giorno, aveva tutt’altro aspetto a quell'ora della notte. I raggi della luna, che era finalmente apparsa dalla cortina di nubi, erano l'unica fonte di luce, oltre al bagliore di qualche fiaccola di candele, disposte qua e là tra le tombe. La nebbia si diramava tra le lapidi come un’eterna compagna, nascondendo alla vista i viali stretti e ben curati. Il silenzio, rotto solo dal richiamo lugubre di un allocco, la faceva da padrone.
Nessun mortale con un minimo di buon senso si sarebbe addentrato in quel luogo al calar del sole e forse era grazie a tale convinzione che Dorian e Shanzhai si erano inoltrati nel cimitero come se fossero i possessori del posto. I loro passi erano sicuri, segno che la loro vista era ottima in quel chiarore, così lieve da rendere solo più pronunciata l'intensità delle tenebre.
Le due figure si allontanarono dalla zona adibita alla sepoltura dell’aristocrazia e della borghesia più abbiente, caratterizzata da cappelle private e mausolei in stile dorico, arricchite da una sovrabbondanza di statue raffiguranti madonne e cherubini, per raggiungere gli acri riservati al ceto medio. Qui le lapidi si susseguivano le une alle altre, disposte in file ordinate, senza troppi ornamenti ad abbellirle.
«È questa», sentenziò Shanzhai, bloccando il suo incedere per indicare una stele recante una scritta semplicissima:

 
Qui riposa Edward Smith
 1821 - 1837

«Era il fratello maggiore di quel piccolo ficcanaso bastardo, come l’hai gentilmente apostrofato», proseguì la donna, la voce che non poteva trattenere una nota di profonda soddisfazione.
Dorian, non appena sentì quelle parole, gioì biecamente; all’esterno non manifestò nessuna di quell’ilarità, fatta eccezione per il suo labbro superiore che si arricciò in un piccolo ghigno, mentre gli orli della sua camicia di lino ondeggiavano nel vento e una ciocca di capelli gli sferzava la guancia pallida. I refoli d’aria non erano così impetuosi da rovinare l’elaborata annodatura della cravatta2, che si mantenne perfetta nella sua inamidatura.
Quella, pensò, era una notizia troppo bella per essere vera. Dopo secoli tra i mortali era perfettamente conscio di quanto essi fossero legati ai propri familiari estinti: un uomo avrebbe fatto qualunque sacrificio pur di far rivivere una persona amata.
«Ottimo lavoro, mia cara. Come sempre ti sei dimostrata degna della tua nomea.»
A tale palese lode, la Succube si esibì in un inchino faceto, poi rise, gettando il viso all’indietro, il collo di cigno messo in piena mostra; la sua ilarità riecheggiò tra le fronde degli alberi coprendo ogni altro suono. In quell’attimo, ergendosi lì nel ricco abito color borgogna, i capelli biondi rilucenti dallo spicchio lunare, apparve per quello che era: di una bellezza crudele.
Pian piano la risata si spense, mentre nell’aria ne persisteva un vago eco. Portandosi un ricciolo sfuggito dall’elaborata acconciatura dietro all’orecchio con fare distratto, si volse verso il suo complice. «Tu pensa a creare il cerchio, io intonerò l’evocazione.»
«A me il dovere, a te il piacere?»
«Mi sembra ovvio. Dopotutto qui, tra noi, sono io la massima esperta nel piacere», fece lei con voce languida, accompagnando quell’affermazione con un sorriso tanto innocente che avrebbe sciolto il cuore dell’uomo più stoico.
Dorian, però, essendo immune al potere del suo fascino, si limitò a uno sbuffo condiscendete. «Non perdiamo altro tempo: dobbiamo risolvere il problema prima che arrivi l’alba.» Senza esitazione si tolse un guanto e lo infilò nella tasca dei pantaloni; la mano esposta era talmente pallida da rivaleggiare con il candore dell’indumento appena levato, con dita affusolate e unghie curate, prive della minima imperfezione. Si portò l’indice alla bocca, ignorando lo sguardo della Succube che lo fissava con ampi occhi luminosi, nei quali si annidava un misto di soggezione e fascinazione. Il canino perforò la pelle con precisione chirurgica e piccole gocce cremisi cominciarono a cadere sull’erba umida di rugiada. Dorian, tenendo il braccio proteso in avanti, iniziò a girare attorno alla lapide; al contempo Shanzhai cominciò a cantare: dapprima le note erano basse, appena udibili, poi, mano a mano che il Magister offriva la propria essenza per il cerimoniale, la sua voce si elevò in potenza, diventando sempre più graffiante. Al suo canto sembrava che si unissero gli echi di altre mille voci, che venivano dal nucleo della terra stessa. L’aria crepitò d’energia, ma la Succube non ci fece caso, troppo concentrata nel portare a termine il suo compito; si muoveva svelta in cerchio al fianco di Dorian, l’ampia gonna ondeggiante con i suoi passi. Se qualsiasi essere umano avesse ascoltato quella litania avrebbe perso sia l’udito che il senno: non erano suoni confacenti alla delicata costituzione dei mortali.
Finalmente, dopo secondi che parvero ore, la terra si smosse come se fosse stata scossa da un tremito. Una mano ingrigita si protese dalle zolle d’erba, seguita presto dalla sua gemella, come se volesse ghermire qualcosa. Con sibili e gemiti gutturali lo zombie iniziò a fuoriuscire dalla sua prigione naturale, mentre la terra cadeva come un torrente tutt’attorno.
Un tempo Edward doveva essere stato un bel ragazzo, pensò Shanzhai, mentre osservava la lenta uscita del cadavere, ma di quel fascino giovanile era rimasto ben poco: la pelle appariva cinerea, macchiata di marrone, le orbite oculari vuote rendevano il viso ovale grottesco a vedersi.
Quando lo zombie fu fuori del tutto, ella smise di cantare. «Potremmo lasciarlo così», disse malignamente. Già si prefigurava la reazione del ragazzo cui davano la caccia nel momento in cui avrebbe riconosciuto il fratello; ci sarebbero state di sicuro urla terrorizzate e niente era più meraviglioso dell’odore della paura. Forse solo il culmine di un amplesso.
«Sai che non possiamo», gli fece presente Dorian, avvicinandosi al cadavere, che se ne stava seduto con il busto accasciato contro la lapide. Emetteva ancora bassi gorgoglii, la testa che ciondolava ad un ritmo esasperante. Era solo un corpo rimesso assieme con il potere della magia, privo di una qualsiasi volontà. «Ma ti prometto che, se portiamo a termine questo compito, potrai resuscitare tutte le salme che vorrai e terrorizzare l’intera Londra.»
Oh, questa sì che è un’idea allettante, pensò Shanzhai, le labbra che si distendevano in un sorriso ferino. Si immaginava avanzare tra le strade della città a capo di un esercito di cadaveri: avrebbe marciato alta e fiera, seminando panico e distruzione. Nella sua scia avrebbe lasciato le vie piene di corpi di uomini, di donne e bambini; non ci sarebbe stata nessuna distinzione tra la nobildonna e la prostituta, tra il fornaio e il marinaio, tra il garzone e il figlio di un ricco borghese. Dopotutto, nonostante le credenze di quegli sciocchi superstiziosi, tutti erano uguali davanti alla morte.
«Prima però pensiamo al fuggiasco. Non vedo l’ora di vederlo contorcersi e soffocare sotto le mani del suo stesso fratello.» Dorian si passò la lingua sui denti, quasi a ricercare sulla propria pelle il sapore della vittoria. Edward Smith sarebbe stata l’arma per conquistare tutto ciò che bramava: la fine dell’uomo che aveva osato rovinare la sua evocazione più magnificente e, tramite essa, il controllo della Belva che gli avrebbe garantito un potere inimmaginabile, talmente grande che avrebbe finalmente potuto esporsi senza timore alla luce abbacinante del sole.
Lo zombie, in quanto un essere in bilico tra il mondo mortale e quello immortale, non era soggiogato a nessuna legge. Lo avrebbe usato per aggirare il marchio di protezione che la Creatura aveva impresso sul giovane.
L’aura mefitica che aveva precedentemente avvertito per la città si fece d’improvviso più ricca e pesante, portando con sé un presagio di sciagura; Dorian scoccò una rapida occhiata a Shanzhai e non ci furono bisogno di parole per capirsi: il tempo a loro disposizione era agli sgoccioli. Con un movimento fluido ed elegante, dato da millenni di pratica, disegnò con il polpastrello uno stilizzato pentacolo sulla fronte del cadavere; il segno rosso ebbe un baluginio prima di sparire senza lasciare traccia. «Evigila et age!3» comandò il Magister.
La reazione al sortilegio avvenne nel tempo di due battiti di ciglia: le orbite inquietanti lasciarono il posto a due iridi nocciola, i capelli, precedentemente un groviglio indomabile, ricaddero come fili di seta castana a incorniciare un viso che aveva ritrovato un colore rosato. Un aspetto tanto sano probabilmente Edward non l’aveva posseduto nemmeno in vita. Ovviamente Dorian sapeva che era solo un’illusione: gli occhi si potevano confondere, ma non l’olfatto; attorno al corpo evocato, infatti, aleggiava un odore di putrefazione che nessuna magia sarebbe stata in grado di sopperire.
Nonostante i recenti miglioramenti, il volto dello zombie era rimasta privo di espressione; non era altro che uno strumento, un fantoccio nelle mani del suo proprietario, pronto a compiacerne ogni ordine e desiderio.
«Presta attenzione al tuo Magister.» La voce di Dorian era perentoria, il tono di uno che si aspettava di essere ubbidito. «Ora ucciderai in mio nome per la mia causa e io ti darò la libertà più grande data all’uomo: io ti dico che è giusto uccidere tuo fratello4. Va’ a cercarlo. Stanalo come un gatto inseguirebbe un topo e, una volta trovato, finiscilo!»
Lo zombie si alzò e iniziò a incamminarsi; il suo incedere era claudicante, come se non rammentasse più come utilizzare i piedi e la sua avanzata era accompagnata da una serie di grida soffocate, inframmezzate a sbuffi d’aria, il prodotto di un apparato vocale non più adatto per creare suoni coerenti. Dorian e Shanzhai si limitarono a seguirlo: sembrava la macabra rappresentazione di una scena di passeggio, con i due padroni a portare a spasso il cane.

Will corse come se avesse avuto il Diavolo alle calcagna; la sua celere falcata rimbombava tra le strade anguste e maleodoranti. Troppo scioccato per ragionare, lasciò il proprio istinto condurlo verso casa. In quel momento era come un animale braccato che lottava per mettere in salvo la propria vita. Si sentiva addosso un senso di mortale pericolo; lo percepiva quasi come un essere vivo, viscido e strisciante sottopelle. Rabbrividì. Era una sensazione orribile che non aveva mai provato prima.
La nebbia sembrava farsi sempre più fitta, l’aria attorno inasprirsi di umidità. Preso dalla sua concitazione, troppo tardi si accorse di un uomo che camminava con passo ondeggiante sul ciglio della strada; lo urtò di striscio, incespicò e per poco non ruzzolò a terra, ma per fortuna i suoi riflessi erano tali da permettergli di mantenersi in equilibrio, sebbene con movimenti piuttosto sgraziati.
L’altro, invece, perse il proprio baricentro e cadde, lasciandosi scappare una serie di maledizioni e bestemmie tali che Will fu tentato di farsi il segno della croce. In altre circostanze si sarebbe scusato, ma anche ad un metro di distanza poteva avvertire l’odore di alcol e il ragazzo sapeva che non c’era niente di peggio di un ubriaco di cattivo umore. Aveva già abbastanza problemi senza crearsene di nuovi.
Inspirò velocemente due grosse boccate d’aria, cercando di ignorare la zaffata di piscio che gli aggredì le narici, poi riprese a correre. Così concentrato su sé stesso, non udì il rantolo dell’uomo che si era lasciato alle spalle, né vide la sua espressione farsi scioccata prima di accasciarsi al suolo come una bambola di pezza, gli occhi grandi a fissare il nulla, mentre una nebbia bluastra aleggiava tutt’attorno.
La mente di Will era focalizzata solo su un’unica cosa: arrivare a casa. Sollevato nel constatare che non mancasse ancora molto, svoltò l’ultimo vicolo che lo avrebbe condotto al palazzo dove risiedeva. Gli sfuggì un sorriso alla vista della finestra della propria camera da letto. Le stanze che era riuscito ad affittare si trovavano al terzo piano di un palazzo che aveva visto tempi migliori, privo di basamento e di rifiniture, ma Will sapeva che non poteva lamentarsi troppo. Il proprietario, che possedeva il negozio di frutta e verdura posto al piano terra, era un uomo rubicondo d’aspetto ma buono d’animo, che non mancava mai di fargli omaggio di qualche ortaggio in cambio di piccole manutenzioni del proprio locale. Viveva con la famiglia e i quattro figli al secondo piano e la convivenza era pacifica. A volte Will, chiuso tra le mura delle sue stanze, si permetteva di ripensare alla sua dimora d’infanzia e a suo padre che, con il suo lavoro di contabile, era riuscito a elevare la propria condizione. Ricordava ancora la casa a quattro piani dove aveva vissuto quei primi anni spensierati; con gli occhi della mente ripercorreva gli scalini dell’ingresso, si raffigurava le finestre decorate, il piccolo fazzoletto di terra che abbracciava la casa sul retro, delimitata da un muro in mattoni non intonacato. In quel piccolo giardino aveva giocato con Edward, tra i panni stesi al sole e il sottofondo del chiacchiericcio delle due cameriere mentre sbattevano i tappeti.
Poi la buona sorte, volubile come una nobildonna, aveva girato loro le spalle e era arrivata la malattia; e la morte che, traditrice, aveva portato con sé sia il padre che il fratello.
Con impeto Will salì le scale che conducevano al suo piano e, dopo aver aperto la porta con una foga tale da rischiare di scardinarla, si precipitò dentro. Fu solo allora, in quell’ambiente tanto familiare, fatto di pareti spoglie e di mobili essenziali, che riuscì a tirare un sospiro di sollievo. Il cuore gli rimbombava nel petto, il corpo era imperlata di sudore; sapeva che, se si fosse guardato allo specchio, l’oggetto avrebbe riflesso un paio di occhi grandi e spiritati.
Con passi strascicati si portò a letto e lì vi si abbandonò, esausto.
È stata un’allucinazione, solo un’allucinazione, tentò di convincersi. Hai lavorato troppo. Adesso ti fai una bella dormita e al risveglio tutto sarà migliore.
Will cercò di rilassarsi e non pensare alla scena a cui aveva assistito; si rigirò più volte tra le coltri nella speranza di trovare una posizione confortevole, mentre la sua mente gli propinava un caleidoscopio  di immagini di figure spettrali, di donne belle e crudeli e di creature mostruose sputate dal ventre della terra. Forse, rimuginò tra sé, il suo collega John Carrent non era così esagerato nei suoi moniti superstiziosi.
Quando si rese conto che, nonostante la stanchezza, non riusciva a prendere sonno, si alzò a sedere sul materasso. Allungando solo il braccio, raggiunse la scatola armonica posta sul cassettone accanto al letto, unica reminiscenza tangibile di una infanzia più abbiente e spensierata. Il carillon era stato un regalo del padre per lui ed Edward e ora, osservando la scatoletta di legno intarsiata, Will si rese conto di quanto fossero diverse le sue mani, ingrigite e indurite dal lavoro, da quelle di quel bambino di quattro anni al momento della ricezione di quel dono inaspettato.
Con l’animo ricolmo di nostalgia, Will iniziò a girare la manovella: la musica si propagò tra le mura, le note non più limpide a causa dell’usura del tempo che ne avevano inceppato gli ingranaggi. Non ci fece caso, cominciando a mormorare le parole che aveva sentito tante volte dalla madre.

 
E della luna un giorno scese
Circondato da mille luci
La mano al Sovrano prese
E gli parlò con mille diverse voci…

Era stonato proprio come la genitrice, ma non era importante visto che nessuno era lì per sentirlo. Quella melodia riuscì a calmarlo e si addormentò così, seduto contro la testata del letto, il viso ciondoloni, la bocca socchiusa e, tra le mani, il suo bene più prezioso.
 
 
 


 
 
 
 1 Il primo dei grandi cimiteri vittoriani a scopo commerciale, aperto nel  1833 in 54 acri di terreno nel nord di Londra (ora sono 72), del quale solo 39 acri erano consacrati, i rimanenti erano riservati ai non credenti o non anglicani. Il cimitero fu costruito su piani di Sir John Dean Paul che volle uno stile greco classico, mentre altri avrebbero preferito lo stile neo-gotico, tanto in voga in quegli anni. 

Il fazzoletto da collo o cravatta diventa un accessorio indispensabile dell'abbigliamento maschile. All'epoca si trattava di una lunga striscia sottile di lino o seta che si girava più volte attorno al collo e si annodava sul davanti. C'erano diversi tipi di nodi con cui poteva essere annodata una cravatta, alcuni considerati più formali, altri più adatti alle occasioni informali. Alcuni semplici, altri complicatissimi.

3 Dal latino: Svegliati e agisci!

4 "Ora ucciderai in mio nome per la mia causa e io ti darò la libertà più grande data all’uomo: io ti dico che è giusto uccidere tuo fratello" è una citazione tratta da "La regina dei dannati". Era uno degli obblighi del contest.

 
  
 
Bene, ed ecco qui anche il terzo capitolo di questa storia, che sta diventando sempre più folle e imprevedibile! 
Devo dirlo: non ho mai scritto nel genere horror ed ero terrorizzata di non essere in grado di scrivere nemmeno mezza riga. Ammetto che, da totale inesperta, questo capitolo è stato ostico - non pensavo che scrivere di riti e zombie fosse tanto difficile! - ma spero non abbia deluso le aspettative. 
Ringrazio molto il contest di My Pride che mi ha permesso non solo di cimentarmi in qualcosa di nuovo, ma soprattutto mi ha dato la possibilità di conoscere le altre autrici che partecipano con me a questo meraviglioso progetto: Aleena
e Melian
Vi auguro buona lettura!


Le immagini per i banner sono state prese in prestito dalla galleria Deviantart di Zephyrhant: fateci un salto, perché la disegnatrice è davvero brava!
  
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