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Autore: Meme06    20/04/2015    1 recensioni
Questa storia è ispirata al segno zodiacale dei gemelli, so che potrebbe essere particolare, ma ho voluto farne una particolare personificazione. Spero risulti interessante.
Dal testo: Qualunque cosa facessi mio fratello era sempre lì. Notai che non parlava mai con nessuno, tranne me, e solo quando eravamo soli. Poggiava la fronte sulla mia, sentivo tanto calore da quel contatto, poi mi parlava [...] Mi sentivo privilegiato, unico, e per la prima volta questa unicità mi era data per un motivo diverso.
Genere: Generale, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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NOI

 

Non ho mai visto nulla del mondo in cui vivo. Né dei miei genitori, e neanche di mio fratello gemello. Non mi ero mai domandato il perché non riuscissi a gridare anche io per i colori che vedevo, per me era una cosa normale quel buio che mi portavo dietro. Ero convinto che tutti vedessero come vedo io. Che fossero tutti costretti a tastare ogni cosa per non rischiare di cadere, a carezzare un viso per poter dire di conoscerlo e riconoscere il timbro di voce per capire, anche senza toccarlo, chi ci sta parlando. Accanto a me c’è sempre stata una persona, quella che tutti dicevano fosse uguale a me senza che potessi confermare le loro parole. Toccavo quel viso per conoscere il mio. Passavo le mani dalle sue guance alle mie. Non eravamo uguali ma ci somigliavamo molto e dentro la mia testa si era formata l’immagine di quella persona, seppur in maniera molto vaga. Rispetto a me aveva sempre avuto i capelli più corti, fin da quando eravamo bambini. Ogni volta che lo abbracciavo, o lui abbracciava me, potevo sentire come il suo fisico si era sviluppato, a differenza del mio, magro, dove sembrava ci fossero più ossa che carne. 
Una cosa che facevo sempre era percorrergli il viso, togliergli quella maschera che lo copriva dal naso al mento e risalire fino a carezzargli le palpebre. Quelle che io non avevo. Gli occhi che non avevo mai meritato. La prima volta che lo scoprii urlai. Non per me, per lui. C’erano delle strane protuberanze sul suo viso che sul mio non c’erano mai state. Avevo avuto paura che fossero state una sorta di malattia o altro. Poi mi venne mostrato che il malato ero io. Capii che quelle grandi cicatrici che avevo non le avevano tutti, che ero l’unico ad essere fatto così. Il respiro mi divenne appena affannoso, ma ovviamente non una lacrima solcò il mio viso. Ero incapace di mostrare la sofferenza che avevo dentro. Potevo solo parlare, chiedere, toccare, ascoltare. Ma queste cose mi davano solo idee di cosa c’era realmente fuori di mente. Sapevo che mio fratello aveva i capelli biondi, e mi dissero che li avevamo dello stesso colore. Ma io non conoscevo i colori, era tutto inutile, non riuscivo ad visualizzare nella mia mente quell’informazione. Volevo vederli e metterli a confronto con i miei. Volevo aprire anche io gli occhi e potermi specchiare in quelli che sarebbero stati identici ai miei. 
Qualunque cosa facessi mio fratello era sempre lì. Notai che non parlava mai con nessuno, tranne me, e solo quando eravamo soli. Poggiava la fronte sulla mia, sentivo tanto calore da quel contatto, poi mi parlava. Mi raccontava la sua giornata,  i suoi pensieri e a volte mi faceva sorridere. Nonostante non lo vedessi era come se sapessi che anche lui stava sorridendo.  Non mi importava sapere il motivo di questa scelta, mi accontentavo di quella sensazione, simile ad orgoglio, che provavo ogni volta. Mi sentivo privilegiato, unico, e per la prima volta questa unicità mi era data per un motivo diverso.
Più avanti mi disse che nella nostra famiglia non ero stato l’unico ad essere stato privato di qualcosa. Mi confidò che lui era nato senza lingua. Quella cosa mi lasciò confuso. Come faceva a parlarmi se non aveva la lingua? Prima che mi rispondesse capii. Ogni volta che mi parlava poggiava la fronte sulla mia e allora sentivo la sua voce. Era incredibilmente vicina, quasi dentro di me. Ma non era solo un’illusione, solo io la potevo sentire, perché la trasmetteva nella mia mente. Mi spiegò che il marchio che avevamo in fronte era il nostro mezzo di comunicazione. Se li mettevamo a contatto potevamo parlare. 
E perché io non potevo vedere…?
Non glielo domandai, mi accontentai di capire quanto lui ci tenesse a parlare con me e a rendermi partecipe della sua vita, per quanto non fosse realmente possibile. Mi raccontava degli alberi, strutture altissime, molto più di noi due - del mare, fatto di quel liquido che usiamo ogni giorno. Solo molto di più, infinito. Per quanto non riuscissi a vedere realmente ciò che mi stava descrivendo ero felice. Capivo che solo lui mi avrebbe potuto dare ciò che volevo, per quanto molto poco fosse il contenuto, il sentimento che ci metteva nel dirmelo riempiva gli spazi vuoti del racconto. Riempiva quelle figure imperfette e assurde che la mia mente formava. A volte mi portava a toccarle quelle cose e allora sorridevo, ridevo, contento di aver capito di più ciò che mi aveva descritto. Lo abbracciavo e gli chiedevo se era quello l’oggetto di cui mi aveva parlato, se mi ricordavo bene a cosa servisse e tante altre cose. 
Poco a poco avevamo preso l’abitudine di restare sotto l’albero di casa nostra. Seduti, mano nella mano, schiena contro schiena, il capo che a volte poggiava sul tronco. Condividevamo le cose che entrambi avevamo. Sentivamo i rumori e i suoni attorno a noi e stringevamo le mani per capire che eravamo lì e che nessuno dei due se ne sarebbe mai andato, perché eravamo complementari e l’uno senza l’altro sarebbe stato perso. I suoi occhi erano il mio pezzo mancante, così come la mia voce era il suo. Quando parlava, nella mia mente, usava la mia, era come se pensassi io quelle cose. Ogni tanto, quando ci scambiavamo i pensieri, lo sentivo passare la mano fra i miei capelli e a volte scostarmi quelle ciocche che coprivano la parte mutilata del mio viso. Una volta, dopo che le aveva scoperte, e dopo qualche secondo di esitazione, ci si era poggiato sopra. Avevo sentito le palpebre e le ciglia solleticarmi la pelle e in quel momento provai un grande bisogno di piangere. Lo fece lui per me, e le lacrime che scesero sul mio viso era come se fossero anche mie. Restammo così per molto tempo, a piangere silenziosamente, lui con gli occhi, entrambi col cuore. Provai per la prima volta il gusto salato delle lacrime e pensai che non ci sarebbe stato sapore migliore per noi. Ricordai che una volta mi aveva detto che anche il mare era salato e la cosa mi aveva fatto pensare che forse un posto per noi c’era. Gli dissi che volevo andare a vivere là. Su quella spiaggia, così da toccare il mare ogni mattina e sentirne il sapore, tanto da bruciarmi la gola. Capii che stava sorridendo e allora lo feci anche io, era un segno che lo avremmo fatto.


Un anno dopo andammo via insieme e ci rifugiammo in una piccola casetta davanti al mare. Non era una fuga, ma noi l’avvertimmo come tale. Non ci eravamo mai sentiti più liberi. Fu come se qualcuno ci avesse spezzato delle catene. Ora eravamo solo noi due, nessuno ci avrebbe più compatito o separato, seppur per poche ore. Gli allenamenti a cui veniva sottoposto mio fratello erano finiti. Aveva mantenuto l’abitudine di fare un po’ di esercizio mattutino, ma nient’altro. Vivevamo i nostri giorni, da persona che condivideva due corpi incompleti. La sua compagnia era tutto per me, ma il desiderio di vederlo non era mai abbastanza soddisfatto e continuava a ripetersi nella mia mente il giorno in cui avrei aperto gli occhi e avrei visto. Avrei conosciuto i colori, il mondo e avrei toccato e abbracciato mio fratello consapevole a tutti gli effetti di averlo lì. Quando voglio una cosa la voglio realizzare subito e il pensiero di non poterci riuscire con questo mi faceva male, tanto male. Ma sapevo che anche per lui era così. 
Un giorno, mentre stavo in riva al mare, a godere delle carezze del vento, sentii mio fratello avvicinarsi ed abbracciarmi da dietro. Mi circondò le spalle con le sue braccia e mi strinse a sé. Le nostre fronti non erano a contatto, ma era come se mi stesse parlando in quel preciso momento. Sentivo il suo desiderio di potersi esprimere, quanto il mio di voler vedere. 
- Di che colore è il mare? - domandai d’un tratto. Avvertii la confusione in lui dal movimento delle sue braccia. Come se mi stesse chiedendo che importanza avesse per me saperlo. Neanche io ne ero a conoscenza, ma volevo una risposta e mio fratello mi accontentò.
- Blu. - sentii nella mia mente.
Blu… mi piaceva quella parola. In un qualche modo la sentivo mia. Una parola astratta, che per tutti aveva un significato preciso. Ma per me ne aveva un altro. Giocavo con quella parola, me la ripassavo fra le labbra, la facevo risuonare come un incantesimo. Mi piaceva. L’avevo fatta mia. In quel momento pensai che se avessi avuto gli occhi sarebbero stati blu. Non sapevo come, ma ero sicuro che sarebbero stati bellissimi. 
- E i tuoi occhi…? - chiesi allora.
Lo sentii sorridere. Il naso si era appena steso a contatto con il mio e io lo imitai e sorrisi a mia volta.
- Sono blu, solo un po’ più chiaro.
Lo sapevo, non poteva essere altrimenti. Quella parola era nostra, in tutto e per tutto. Alzai le braccia e lo strinsi forte a me, in un abbraccio forse fin troppo possessivo. Gli passai le mani fra i capelli, gli sfiorai le orecchie, gli carezzai le guance e le palpebre e di nuovo il dolore si abbatté pesantemente sul mio cuore. Lo strinse così tanto da impedirmi quasi di respirare. 
- Non sai quanto vorrei vederti… - sussurrai, mi suonò come una supplica e sentii le palpebre aprirsi sotto i miei palmi. Il suo sguardo era fisso su di me e faceva anche più male. La frase che avevo detto aveva un fondo così egoista… Avrei preso volentieri in prestito i suoi occhi, anche solo per un istante, per poter vedere. Anche solo lui e conoscere quel colore che sapeva di noi. La mia frase cadde pesante assieme al nostro silenzio e nessuno dei due osò dire altro. Non c’era mai stato bisogno di esprimerlo perché già lo sentivamo, eppure dirlo mi aveva fatto bene. Volevo che lo sentisse uscire dalle mie labbra, con la voce che lui prendeva in prestito da me. Come se gli avessi davvero chiesto di prestarmi i suoi occhi. 
Rimanemmo così per tutta la sera, fino a che non ci addormentammo sulla spiaggia, cullati dal rumore delle onde.


Il giorno che accadde fu il più triste e felice della mia vita. Mio fratello mi aveva svegliato silenziosamente e mi aveva detto che mi avrebbe portato in un posto dove sarei stato felice. Era una frase così strana che mi aveva fatto sorgere mille domande, ma nessuna di esse raggiunse le mie labbra. Avevo la sensazione che non avrebbe risposto. Lo sentii prendere la sua cinta con le tasche, dove dentro teneva un po’ di tutto - più o meno per tutte le emergenze. Era da un po’ che non la usava e questo mi faceva intuire che sarebbe stato un lungo viaggio. Anche quella volta non domandai nulla sul luogo dove eravamo diretti. Le sue gesta sapevano di sorpresa e avevo paura di rovinare tutto se avessi aperto bocca. Quindi lo seguii silenziosamente, con l’orecchio teso, che coglieva ogni più piccolo suono. Al nitrire di un cavallo sussultai. Mio fratello mi rassicurò e mi fece salire dietro di lui. Lo strinsi per tutta la durata del viaggio, godendo solo della sua vicinanza e del vento che ci accompagnava.
Mi disse che ci avevamo messo due ore ad arrivare, ma a me sembrarono molte di meno. Tanto ero perso nei mie pensieri che non avevo neanche percepito più lo scorrere del tempo. Anche se avessimo cavalcato in eterno a me sarebbe stato bene. A volte provo lo stesso sentimento quando dormiamo. Stretti l’uno all’altro nel nostro letto. Dove il tempo non serve, perché ci siamo tutti e due e questo basta. Odio quando arriva il mattino e lui si alza e mi sveglia. 
Mi fece entrare in un posto che sapeva di muschio e che per un attimo mi ricordò la stanza dove giocavamo da piccoli, aveva lo stesso odore. Ma non eravamo soli. Una voce mi aveva fatto intuire la presenza di un altro.
Mio fratello gli parlava scrivendo e quindi le sue risposte per me avevano poco significato, ma avevo capito che sarebbe successo qualcosa e, non capivo perché, a me non era dato di saperlo. 
Mio fratello mi abbracciò, stava sorridendo, lo avvertivo e in quel momento provai paura. Sembrava un abbraccio di addio rispetto ai soliti che ci scambiavamo. Allora mi agitai e lo trattenni, stringendo le dita sulle maniche della sua maglia. Per tranquillizzarmi mi carezzò e mi disse di stare tranquillo, perché sarebbe andato tutto bene e sarei stato felice. Sentivo la felicità dalle sue parole, ma la paura che mi facevano provare era altrettanto grande. Gli chiesi di cosa stesse parlando ma non ricevetti risposta, sentii solo un odore pungente sul naso e poi più nient’altro.


Accanto a me c’era qualcuno, mi stava tenendo la mano, era calda e un po’ tremolante. La riconobbi subito e la strinsi, mentre sorrisi, contento di averlo lì. Sentivo qualcosa di strano ma non vi badai subito. Sentivo qualcuno parlare - la voce di prima - di cose che non comprendevo. O più che altro che non m’importava di capire. Avevo la testa pesante e l’unica cosa che mi importava era che mio fratello fosse lì. 
- Come ti senti? - mi chiese, la fronte premuta sulla mia e  le sue mani a carezzarmi il capo e passare le dita fra i miei capelli. Non era cambiato niente, eppure sentivo che c’era qualcosa di diverso. Ma per il momento non vi badai, lo abbracciai e sentii che tremava un poco. Gli chiesi se avesse freddo e lui mi disse che era solo un po’ affaticato. Affaticato da cosa, mi chiesi. 
Eravamo ancora in quel posto e l’odore di muschio continuava ad invadermi le narici e a riportarmi indietro. Quando eravamo così piccoli da non sapere ancora che eravamo diversi da tutti. Quando nostra madre giocava con noi e ci raccontava le storie che si erano tramandate nel tempo. Tutte favole dove chiunque aveva due occhi per vedere e una bocca per parlare, caratteristiche che lei ometteva sempre. Dei personaggi venivano scritte solo le loro azioni, per non farci porre domande e per farci sorridere innocentemente nell’ignoranza della realtà. Ma a me piacevano lo stesso quelle storie. Le ricordo ancora tutte e ogni tanto le ripeto mentalmente, come se me le raccontassi da solo. Una volta lo avevo fatto presente a mio fratello e lui mi aveva detto che anche lui si ricordava tutto, e che gli sarebbe piaciuto poterle ripetere come faceva nostra madre. Una sera allora, senza nessun preavviso, iniziai a raccontargli una di quelle storie. Stava preparando la cena e senza chiedermi o fare nulla si mise ad ascoltarmi, mentre la minestra sul fuoco cuoceva lentamente e creava un sottofondo al mio racconto. Passammo la sera così e il giorno dopo mi ringraziò. 
Sentii l’uomo avvicinarsi a noi due e mio fratello si staccò da me. Forse gli stava stringendo la mano e lo stava ringraziando… ma non capii per cosa.
- Tutto a posto. - sentii dire da quell’uomo, con la sua voce bassa e profonda, ma che ispirava in un qualche modo calma e sicurezza. - Ora potrebbe.
Non capivo e iniziavo davvero ad innervosirmi. Poi accadde qualcosa, non so spiegare la sensazione, ma in quel momento il nero sparì e lasciò il posto a qualcosa di accecante, incredibilmente contraddittorio visto che era descritto da un cieco. 
Davanti a me non c’era più il buio, ma qualcosa di indefinibile e dalle mille sfumature e forme, che finora avevo solo toccato. Presi paura e mi agitai, cadendo dal letto. Credevo di essere impazzito oppure che mi avessero fatto qualcosa alla mente, qualcosa che io non volevo. Avevo paura di quelle forme e di tutto ciò che ora… vedevo. Mi bloccai per un attimo e la prima cosa che riuscii a mettere a fuoco furono delle linee che formavano rettangoli. Solo dopo capii che quello era il pavimento, che aveva anche lui un suo colore. Toccai il materiale e mi ricordai cosa avevo imparato grazie al tatto: era legno. Mi accorsi solo dopo che qualcosa mi stava stringendo. La mia reazione doveva averli spaventati. Vidi dei capelli davanti a me. Doveva essere quello il biondo di cui mi avevano parlato. Li toccai, ma giusto un attimo, perché non erano loro ad interessarmi. Gli alzai il viso e lo portai di fronte a me, come avevo fatto tantissime volte. Eppure ora sembrava tutto così nuovo, come se fossi appena rinato, dopo tanto tempo. Ma il suo viso non aveva più due occhi, come immaginavo, come avevo sempre toccato. Ne aveva uno solo, che mi fissava con una felicità inaudita. Provai repulsione e rabbia per me stesso e per lui quando capii perché ora potevo vedere. Mio fratello aveva avverato il mio desiderio e al tempo stesso lo aveva distrutto. Volevo vedere il suo viso, con tutti e due gli occhi al loro posto, quello che io non avevo. Mi sentii in colpa, tremendamente in colpa. Ripensai a quella frase che avevo detto e capii di essere io e solo io il colpevole di tutto ciò.
- Che cosa hai fatto…? - mormorai, senza più pensare al fatto che potessi vederlo, maledicendomi solo per avergli permesso di pensare e fare una cosa del genere al suo viso, quel viso che secondo me era sempre stato perfetto. Per la prima volta piansi io, piansi tanto e lo strinsi forte a me. Mi sarei strappato l’occhio in quell’istante e glielo avrei restituito insieme a tutte le lacrime e il sangue che sarebbero usciti - che appartenevano solo a lui e non a me. 
- Ti ho portato qui. - mi disse e allora lo guardai, lo guardai davvero, gli baciai la benda candida che copriva la ferita che ora c’era al posto dell’occhio sinistro. Ora eravamo uguali. Non mi ero mai visto allo specchio, ma non m’importava, mi bastava vedere lui e sapere che ora avevamo entrambi una cicatrice sul viso e quel bellissimo blu sul volto. 
L’uomo che aveva reso questo possibile era un mago, che era stato esiliato dalla nostra terra natia tanti anni fa. Mio fratello era riuscito a rintracciarlo e gli aveva chiesto se poteva farlo e cosa voleva in cambio. Non volle nulla. Nessuno dei due ci credeva e rimanemmo per un po’ allibiti e confusi. Ci aveva praticamente cambiato la vita. Gli avrei donato gli anni che mi restavano solo per questi pochi minuti. L’uomo ci rispose che non gli serviva qualcosa in cambio e che se proprio volevamo ripagarlo avremmo potuto offrirgli una cena. Mio fratello accettò e così ci ritrovammo tutti e tre a mangiare alla locanda di quel paese. 

Non posso dire di non sentirmi ancora un po’ in colpa per questo, ma se non altro ora posso guardarlo in faccia,  ringraziarlo ogni giorno che cammino su questa terra per quello che ha fatto per me. Gli chiesi anche se c’era un modo per donargli la voce, gliel’avrei ceduta volentieri. Mi sarei tagliato la lingua da solo se me l’avesse chiesta. Ma lui negò. Mi disse che l’unica persona con cui desiderava parlare ero io e che gli altri si sarebbero accontentati di leggerle le sue parole, perché la sua voce - proprio come il suo cuore - era solo mia.



So bene quanto possa risultare strana una storia di questo stampo, ma l'ho scritta di getto, con il cuore, e ho deciso di pubblicarla. Fatemi sapere che ne pensate :)
A presto!
Meme

  
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