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Autore: 9Pepe4    20/04/2015    4 recensioni
«Non temere» disse Thranduil, allontanando la propria mano dall’elsa della spada. «Non ho intenzione di farti del male».
La bambina lo occhieggiò senza dir nulla. Aveva un visino appuntito, piccole efelidi sulle guance, e due imperscrutabili occhi verdi.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Legolas, Tauriel, Thranduil
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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A Nat, anche se non la leggerai mai (a meno che io non riesca a tradurla in inglese),
perché amo condividere con te feels e headcanons ♥



Serendipità

Un silenzio quasi irreale regnava sulla boscaglia.
Non si udiva alcun suono. Non un cinguettio, non uno zampettare, non un soffio di vento che frusciasse tra le fronde degli alberi. Persino il corso d’acqua che la attraversava sembrava muto.
A rompere il silenzio, a pomeriggio inoltrato, fu un alce che attraversava la foresta ad un trotto leggero. Era un animale bruno e possente, con un maestoso palco di corna.
Il suo cavaliere, ritto in sella, era un Elfo alto, dai lunghi capelli biondo platino e gli occhi azzurro chiaro. Il suo portamento era regale, le sue vesti pregiate, ed una corona di fiori di bosco gli cingeva la fronte.
Thranduil, sovrano del Reame Boscoso, si era allontanato dalle sue sale per riordinare i propri pensieri e poter tornare ad affrontare i problemi del regno a mente lucida. Aveva lasciato detto dove intendeva recarsi, però, in modo da essere facilmente rintracciabile nel caso di un’emergenza.
Si era recato alla ricerca di silenzio e solitudine, ma trovò ben altro.
Iniziò tutto con un presentimento all’altezza dello stomaco.
Thranduil si tese sulla sella e si guardò attorno… Non vide altro che gli alberi che incombevano sul sentiero, i loro rami aggrovigliati gli uni agli altri, le foglie tanto fitte da lasciar trapelare a stento la luce del sole.
Rilassandosi appena, tornò a guardare davanti a sé… E tirò bruscamente le redini, frenando di colpo la propria cavalcatura.
Tre Elfi Silvani – due maschi e una femmina – ciondolavano dal ramo di un albero. I loro abiti erano lacerati, i loro corpi massacrati, e del sangue rappreso insudiciava tanto la stoffa quanto la loro pelle.
Per qualche istante, Thranduil rimase impietrito a fissarli.
Sapeva che erano stati degli Orchi. Riconosceva i tagli inferti dalle loro armi, per non parlare dello scherno dedicato ai cadaveri. Non solo i loro assassini si erano presi il tempo di issarli su quell’albero in modo che penzolassero come vecchie marionette… Sul cranio di lei, laddove le erano state strappate grosse ciocche di capelli ramati, Thranduil poteva scorgere numerose chiazze calve.
Sentì una nausea feroce crescere nel proprio petto, mentre nella sua mente si affastellavano i ricordi di vecchi orrori. Una distesa d’Elfi trucidati, il cadavere di suo padre, una figura snella che cadeva come un fiore tranciato da un aratro.
Serrò i denti ed allontanò quelle immagini, smontando dall’alce con un movimento fluido.
Fece per avanzare verso i corpi, quando gli parve di avvertire qualcosa. Si voltò di scatto, ma non vide nulla, solo piante.
Dopo un istante d’indugio, si avviò prudentemente in quella direzione – alle sue spalle, l’alce sbuffò appena, ma rimase dov’era.
Inoltrandosi con cautela tra gli alberi e gli arbusti, Thranduil posò una mano sull’elsa della spada che portava alla cintura e fece scivolare lentamente la lama fuori dal fodero.
Fu in quel momento che la vide. La sagoma minuta di una bambina.
Lei sedeva sul terreno e gli dava le spalle, cosicché Thranduil non scorgeva altro che la cascata di capelli ramati che le ricadeva sulla schiena come un manto, e la punta delle orecchie che faceva capolino tra le ciocche.
Il re rinfoderò la spada, e lei lo sentì. Si girò, lasciando cadere il frutto mal maturo che stava cercando di aprire, e mosse la mano verso il ramo che teneva accanto a sé, pronta a difendersi.
«Non avere paura» disse Thranduil, allontanando la propria mano dall’elsa della spada. «Non ho intenzione di farti del male».
La bambina lo occhieggiò senza dir nulla. Aveva un visino appuntito, piccole efelidi sulle guance, e due imperscrutabili occhi verdi.
Thranduil le porse la mano destra. «Vieni» la invitò.
La bambina si girò verso di lui, ma non si alzò in piedi. Non aveva ancora lasciato la presa sul ramo, e con l’altro braccio si strinse le ginocchia al petto.
In silenzio, parve studiarlo da capo a piedi, dalle sopracciglia spesse ai capelli lisci, senza risparmiare la sua lunga veste che, aprendosi all’altezza dei fianchi, lasciava intravedere i pantaloni e gli stivali.
«Qui non è sicuro» aggiunse il re. «Potrebbero esserci altri Orchi nei paraggi».
La bambina assottigliò gli occhi, ma esitava.
Thranduil si domandò da quanto tempo si trovasse nel bosco da sola – a giudicare dallo stato dei cadaveri, dovevano essere morti almeno da un paio di giorni. Era un miracolo che fosse sopravvissuta.
Alla fine, molto lentamente, la bambina lasciò andare il ramo e tese la manina graffiata per metterla in quella più grande e affusolata di Thranduil.
Quest’ultimo ricambiò la stretta e la aiutò ad alzarsi, dopodiché la condusse con sé dove si trovava l’alce.
«Dimmi, bambina» le chiese, in parte per distrarla dalla vista dei corpi, «conosci qualcuno da cui potrei portarti?»
La bambina alzò gli occhi verdi su di lui e scosse la testa.
Thranduil increspò la fronte. «Ne sei sicura? Non hai un famigliare? Una persona che possa prendersi cura di te?»
Di nuovo, la bambina fece segno di no.
«D’accordo» disse lui. «Provvederò io a te, allora».
Più tardi, avrebbe potuto verificare se davvero era sola al mondo – in effetti, però, non vedeva perché avrebbe dovuto mentire.
In quanto ai tre cadaveri, il pensiero di abbandonarli in quello stato era opprimente, ma la bambina aveva la priorità. In fondo, non sarebbe stata la prima volta che lasciava indietro i morti per salvare i vivi – per un istante, gli parve quasi di sentire Legolas che si agitava tra le sue braccia, piangendo di terrore e chiamando la sua mamma.
Quegli Elfi non sarebbero rimasti lì per sempre, si ricordò. Appena giunto alle sale del Reame Boscoso, avrebbe ordinato che venissero recuperati e ricevessero una degna sepoltura.
Abbassò lo sguardo sulla bambina, e notò che lei gli stava stringendo la mano tanto forte da conficcargli le unghie nel palmo. Non fu facile, convincerla a lasciare la presa per poterla issare sul dorso dell’alce, ma alla fine ci riuscì, e montò agilmente dietro di lei.
La bambina sedeva rigida, le mani affondate nel pelo bruno dell’alce. Doveva essere esausta, ma non abbassava la guardia, come se si aspettasse un attacco da un momento all’altro.
Thranduil spronò la propria cavalcatura, che si avviò obbedientemente attraverso la boscaglia.
«Le vittime degli Orchi» esordì il re dopo qualche istante. «Tra loro c’erano i tuoi genitori?»
La bambina non gli rispose. Alzò appena la testa, invece, e Thranduil ebbe l’impressione che si fosse messa a fissare le corna maestose dell’alce.
Sospirò interiormente. «Non li lascerò laggiù» le assicurò. «Riceveranno ogni onore».
A dire il vero, non era nemmeno sicuro che lei lo stesse ascoltando.
Si chiese da quale villaggio provenissero, e perché si fossero spinti nel cuore della foresta. Una semplice passeggiata? O erano diretti al Reame Boscoso?
Non aveva visto bisacce che suggerissero un lungo viaggio, ma dopotutto gli Orchi potevano aver depredato i loro cadaveri.
Finalmente, Thranduil e la bambina giunsero al cancello, e tre guardie vennero loro incontro. Tra loro si trovava Feren, un Elfo Silvano giovane e ancora inesperto, ma disciplinato ed affidabile.
Thranduil smontò dall’alce, quindi si occupò di far scendere anche la bambina. Lei restò al suo fianco, osservando gli altri Elfi con una certa diffidenza.
Il re affidò l’alce a Feren, dopodiché diede ordine che una pattuglia si recasse nel cuore del bosco a recuperare i tre corpi.
Mentre le guardie sciamavano ad eseguire i suoi ordini, lui si girò verso la bambina, e si abbassò in modo di essere alla sua altezza. «Qui sarai al sicuro» le disse.
Lei lo scrutò di rimando, il visetto atteggiato ad un’espressione di estrema serietà.
«Qual è il tuo nome?» le chiese Thranduil.
La bambina distolse gli occhi verdi e non rispose.
«Io sono Thranduil» offrì allora il sovrano, portandosi una mano al petto.
Lei tornò a guardarlo, ed esitò per una frazione di secondo. «Tauriel» sussurrò poi, la voce roca per il disuso, imitando il suo gesto.
“Tauriel” pensò Thranduil. “Figlia della foresta”.
E invero, pareva che gli alberi l’avessero nascosta e protetta come una madre avrebbe fatto col proprio bambino.
Thranduil ebbe un lieve sussulto, ma si ricompose immediatamente. «Molto bene… Tauriel» disse, raddrizzandosi. «Seguimi».

Insieme, fecero il loro ingresso nelle sale del Reame Boscoso.
La manina di Tauriel era tornata ad impossessarsi di quella del sovrano, e lei osservava tutto ad occhi sgranati: i pilastri sinuosi, le scalinate, le piattaforme di legno, il modo in cui quelle strutture sembravano fondersi ed armonizzarsi agli elementi della natura.
Thranduil convocò Galion, e gli affidò il compito di occuparsi della bambina. Innanzitutto, avrebbe dovuto assicurarsi che mangiasse qualcosa e che venisse controllata da un guaritore. Poi bisognava trovarle degli abiti nuovi, e farle preparare delle stanze.
Se il maggiordomo fu stupito da quell’incarico, non lo diede a vedere. Si limitò ad annuire con la sua solita flemma, scoccando a Tauriel un’occhiata interessata. «Se vuoi seguirmi…»
Lei lo scrutò di sottecchi senza muovere un passo, poco convinta.
«Galion si prenderà cura di te» le assicurò Thranduil, togliendo la mano da quella della bambina.
Tauriel lo guardò, e lui annuì.
A quel cenno, la bambina parve convincersi e seguì il maggiordomo, ma mentre si allontanavano si voltò verso Thranduil più di una volta.
Lui rimase fermo dov’era, considerandola pensosamente. Sapeva che Tauriel era in buone mani.
Galion aveva i suoi vizi – tra i quali uno smisurato amore per il vino e la tendenza ad offrirne un bicchierino anche alle guardie in servizio – ma non avrebbe svolto malamente quel genere di compito.
Poi dei passi leggeri si avvicinarono, ed una voce limpida giunse alle orecchie di Thranduil. «Padre».
Il sovrano si voltò. Legolas, in piedi di fronte a lui, rivolse uno sguardo interrogativo in direzione della bambina. «Cos’è successo?»
«Un’imboscata di Orchi» rispose Thranduil, iniziando a dirigersi verso la sala del trono. «Hanno ucciso tre Elfi Silvani».
«Orchi?» ripeté Legolas, seguendolo. «Qui nei nostri boschi?»
Thranduil si limitò a rivolgergli un’occhiata eloquente. «Organizza delle pattuglie» dispose quindi. «Che percorrano tutta la foresta e si assicurino che gli Orchi siano stati cacciati. E fai giungere un dispaccio ai villaggi al di fuori di queste sale per avvertirli del pericolo. Non desidero che una sola goccia di sangue elfico bagni ancora queste terre».
Legolas annuì. «E la bambina?» chiese poi.
«Era la sola superstite».
Il principe parve riflettere un momento su quelle parole. «Cosa pensi di fare con lei?»
«Non ne sono ancora certo» ammise il re. «Per ora, le daremo ospitalità».
Legolas chinò il capo, sorridendo appena. «Sì, padre».

Quella sera stessa, il principe del Reame Boscoso fece la conoscenza di Tauriel. «Benvenuta» la accolse.
Lei non sorrise, non proprio, ma parve in qualche modo rassicurata da quella gentilezza. E, da quel momento in poi, Legolas la prese sotto la propria ala protettiva.
Tauriel parlava a stento, forse ancora sotto shock dopo la brutale uccisione dei suoi genitori, forse intimidita dal rango dei suoi protettori.
Dentro di sé, Thranduil era profondamente turbato da quel silenzio, che gli ricordava sin troppo quello di Legolas dopo la morte di sua madre.
Per fortuna, suo figlio non aveva simili riserve. Aveva mostrato a Tauriel le sale principali e, sebbene non potesse farle sempre compagnia a causa dei propri doveri, quando si allenava la portava con sé al centro di addestramento.
La bambina rimaneva in disparte, osservando con interesse il principe che scagliava frecce contro un bersaglio, faceva roteare pugnali o duellava con un avversario.
Legolas aveva notato che, quando gli altri Elfi la commiseravano, Tauriel riservava loro sguardi furiosi. Da parte sua, lui le si rivolgeva con franchezza, così come faceva Thranduil, e Tauriel gliene sembrava sinceramente grata.
Il re aveva condotto delle ricerche, e pareva proprio che la bambina non avesse nessuno al mondo. Così, lui la prese definitivamente sotto la propria tutela.
“Legolas si è affezionato a lei” si disse per motivare quella scelta… Ma la realtà era che lui stesso non avrebbe voluto separarsene.
Il giorno in cui avevano dato sepoltura ai tre Elfi Silvani morti nella foresta, splendeva il sole. Li avevano tumulati in una radura, all’ombra di un salice.
Alla conclusione del rito funebre, Tauriel si era fermata accanto alle tombe. La sua espressione era indecifrabile, ma una piccola ruga le solcava la fronte.
Alla fine, Galion le si era avvicinato per allontanarla. Tutto ciò che aveva ottenuto, però, era stato un bel morso sulla mano destra – fortunatamente per Tauriel, il maggiordomo non era tipo da serbare rancore.
Legolas si era accigliato ed era intervenuto a sua volta, ma Tauriel si era sottratta al suo tocco ed aveva rifiutato di guardarlo.
Così, da ultimo, si era fatto avanti Thranduil. Era giunto accanto alla bambina, che gli arrivava poco più in alto della cintola, e l’aveva presa in braccio.
Si aspettava che lei cercasse di spingerlo via, ma Tauriel si era aggrappata a lui ed aveva premuto il viso nell’incavo del suo collo.
Preso in contropiede, Thranduil aveva incontrato lo sguardo di Legolas, e gli aveva fatto cenno di precederli. Non appena suo figlio ed il maggiordomo si erano allontanati, Tauriel si era finalmente permessa di piangere.
Era stato un pianto stentato e silenzioso; lacrime calde ed abbondanti avevano bagnato il collo di Thranduil, mentre i tremiti scuotevano il corpicino della bambina.
Era una fortuna, aveva pensato il sovrano rinsaldando la presa su di lei, che Tauriel fosse così giovane. Di fronte a simili perdite, gli Elfi adulti rimanevano sovente intrappolati nella rete del proprio dolore, e se ne facevano consumare.
Quando le lacrime si fermarono, Tauriel restò a lungo immobile e stremata tra le braccia di Thranduil, mentre lui le carezzava la schiena in gesti lenti e concentrici.
«Ti serve altro tempo?» si limitò a domandarle.
Tauriel alzò il viso per guardarlo, le ciglia bagnate e l’aria infelice. Ciononostante, scosse il capo, prima di appoggiare la testa sulla spalla di Thranduil.
Lui annuì, e le tolse una foglia argentea dai fini capelli rossi. Il fatto che Tauriel lo avesse accettato come unico spettatore del suo sfogo smosse qualcosa dentro di lui.
Non fece mai parola di quanto era accaduto, ma sospettava che Legolas lo avesse intuito.
Da parte sua, il principe non ebbe a male il fatto che Tauriel avesse mostrato più fiducia verso suo padre che nei suoi confronti, e continuò a godere della silenziosa compagnia della bambina.
Un giorno, durante uno dei propri allenamenti, osservò con la coda dell’occhio Tauriel che lo guardava rapita, e si fermò.
Si voltò e le andò di fronte, per poi porgerle il proprio arco. «Vorresti provare tu?»
Tauriel sbatté le palpebre e guardò l’arma con un certo desiderio, ma tacque a lungo, come ponderando tutti gli aspetti della domanda. Alla fine, annuì.
Il principe, allora, le mise l’arco tra le mani, sistemandole le braccia e facendola voltare verso il bersaglio.
«Ora prendi la mira» le disse, le labbra vicine all’orecchio a punta della bambina, «e poi lascia andare la corda».
Tauriel eseguì. Non fece centro, ma nemmeno mancò clamorosamente il bersaglio, e Legolas esultò. «Ottimo!»
La bambina si girò a guardarlo, assottigliando appena gli occhi.
«Sei stata brava» insistette lui, per poi rettificare: «Considerato che era il tuo primo tiro, intendo».
«Voglio riprovare» disse Tauriel, con voce chiara. «Posso riprovare?»
Legolas le porse un’altra freccia, sorridendo a fior di labbra.
Quel pomeriggio, Tauriel parlò come non aveva mai fatto da quando Thranduil l’aveva presa con sé. Continuava a chiedere istruzioni e delucidazioni, a fare domande sui vari stili di combattimento…
Era dotata, pensò Legolas, piacevolmente sorpreso sia dall’improvvisa loquacità della bambina che dal suo talento.
Come scoprì ben presto, Tauriel non era interessata soltanto al tiro con l’arco. Voleva sapere come usare un pugnale, come maneggiare una spada.
Legolas ebbe serie difficoltà a convincerla a fermarsi, e la persuase solo assicurandole che avrebbe potuto riprendere ad allenarsi il giorno seguente.
Qualche sera più tardi, disse a suo padre che forse aveva un’idea di cosa potesse serbare il futuro di Tauriel.
«Ovvero?» domandò Thranduil, inarcando le sopracciglia con aria inquisitoria.
«Una carriera nel corpo di guardia».

Il giorno seguente, il re convocò Tauriel, e le disse che era giunto il momento di occuparsi della sua istruzione.
La bambina indossava una tunica verde ed un paio di pantaloni marroni, e due trecce ramate congiunte dietro la testa le tenevano i capelli lontani dal viso.
«Araheldir è stato uno dei precettori di Legolas» aggiunse Thranduil, «sono certo che ti troverai bene con lui».
Nient’affatto entusiasta, la bambina fissò i ricami dorati che s’inseguivano sulle ampie maniche del re.
Quando però Thranduil accennò al fatto che sarebbe anche stata addestrata all’uso delle armi, lei sollevò di colpo la testa ed i suoi occhi verdi brillarono.
A scanso di equivoci, il re chiarì subito che non sarebbe stato Legolas a farle da istruttore, poiché aveva i suoi doveri da svolgere. A quella notizia, la sicurezza di Tauriel parve vacillare, ma solo per un istante. Subito dopo, la bambina annuì energicamente.
«Sarà Magoldir ad insegnarti» proseguì allora il re, soddisfatto. «Sebbene sia un esperto soprattutto nell’uso della spada, confido che t’istruirà al meglio anche nelle altre forme di combattimento».
Tauriel arricciò le labbra con fare pensoso.
Thranduil supponeva che lei conoscesse Magoldir, almeno di vista. Era un Elfo Silvano agile, dai capelli castano chiaro, che talvolta si allenava insieme a Legolas.
Thranduil la osservò. «Sei sicura di questa scelta?»
A quella domanda, Tauriel lo fissò come se non avesse mai considerato che potessero esserci delle alternative.
«Mi sono arrampicata su un albero» proruppe.
Subito, Thranduil non capì, e la guardò accigliandosi lievemente. Gli stava raccontando la propria giornata?
Poi ricordò i graffi sulle mani di Tauriel il giorno in cui l’aveva trovata, graffi certamente causati dalla corteccia di un albero, e la comprensione gli attraversò il volto.
«Mamma mi aveva detto di scappare».
Quell’accenno a quanto era accaduto, seppur minimo, lo meravigliò. Tauriel non aveva mai proferito parola sui propri genitori – la sola cosa che aveva confidato al re erano i nomi dei tre Elfi Silvani morti nella foresta.
Ora lei abbassò il viso, ed un ciuffo sfuggito alle trecce le ricadde sulla guancia punteggiata di lentiggini.
Non molto lontano dalla stanza in cui si trovarono, si levò il vocio di alcuni domestici.
Poi Tauriel sollevò il capo e raddrizzò le spalle esili. «Io voglio imparare a combattere, mio signore Thranduil» disse, incontrando con decisione gli occhi azzurri del re. «Non voglio più nascondermi sugli alberi».
Thranduil ricambiò il suo sguardo. «Molto bene».
Il giorno in cui Tauriel era entrata nella sua vita, lui era alla ricerca di un momento di solitudine e tranquillità… Invece, aveva trovato molto di più.








Note:
È la prima volta che scrivo sugli elfi e sono t e r r o r i z z a t a.
Spero di non aver combinato disastri.
Ai lettori l’ardua sentenza :)
  
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