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Autore: Shainareth    23/04/2015    1 recensioni
Non ho mai creduto alla storia delle farfalle nello stomaco, anche perché tutto ciò che mi sembrava di avvertire, quando ero con Nathaniel, era una sorta di costrizione, come se fossi perennemente all’interno di una gabbia che mi stava sempre più stretta.
Storia ambientata subito dopo la shot Viceversa.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alexy, Armin, Dolcetta, Kentin, Nathaniel
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo
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ESSERE SE STESSI




«E così il tuo amico è tornato.» Quella di Nathaniel non era una domanda, quanto una semplice constatazione. Eppure fu capace di rendermi inquieta. Alzai lo sguardo su di lui e non fui capace di interpretare l’espressione del suo volto. Sorrideva, tuttavia i suoi occhi non sembravano del tutto allegri. «Sarai contenta, immagino.»
   Ero contenta che Ken, che ora pretendeva di essere chiamato col suo nome per esteso, fosse tornato? Sì, molto. Lo ero anche di ciò che era diventato? Non ne avevo idea. Se pure di fondo mi pareva rimasto lo stesso ragazzino tenero e premuroso che avevo salutato mesi prima, c’erano dei nuovi aspetti, di lui, che mi destabilizzavano.
   «Certo», risposi, evitando di guardare ancora Nathaniel e concentrandomi su un gruppetto di ragazzi di un’altra classe che si stavano avviando verso il cancello della scuola, pronti per tornare a casa, proprio come noi.
   «Non sapevi che sarebbe tornato, vero?» Odiavo la perspicacia del delegato. Soprattutto perché funzionava a intermittenza e mai per quel che riguardava se stesso o sua sorella. «Non mi pare sia stato corretto sparire così con te.»
   Sospirai. «Aveva una buona scusa, a quanto pare», mi arresi a spiegargli, senza però scendere nei dettagli. Non mi andava che gli altri sapessero quanto Kentin aveva deciso di confidarmi, sia pure con un certo imbarazzo. «In ogni caso, è tutto risolto», aggiunsi, prendendo ad avanzare nel cortile per raggiungere l’uscita.
   Nathaniel si affiancò a me, ma non disse più nulla. Con tutta probabilità si era reso conto che non ero dell’umore per parlare ancora della faccenda. D’altra parte, che avrei potuto dire, al riguardo? Che non riuscivo ancora ad accettare la spocchia con cui il mio migliore amico era tornato? Una spocchia che non conoscevo, che mai gli avrei attribuita, che mi aveva spiazzata al punto da ridurmi in singhiozzi. No, non era stata soltanto quella a farmi piangere. C’erano tante altre emozioni che si erano affastellate nel mio animo, lasciandomi disorientata e senza più certezze.
   «Ti va di passare in libreria, prima di tornare a casa?»
   La voce di Nathaniel mi indusse ad alzare di nuovo gli occhi su di lui ed il suo sorriso, dolce quanto lo sguardo che mi stava riservando, mi riscaldò il cuore. Ecco un’altra cosa che, rispetto al passato, era stata del tutto stravolta: al mio fianco, più che Ken, c’era quasi sempre Nathaniel. La gentilezza e le premure che entrambi mi avevano sempre riservate sembravano simili, ma in realtà erano assai differenti. Non era possibile paragonare per davvero i due, soprattutto perché l’amicizia con Ken era sempre stata disinteressata, mentre temevo che quella con l’altro nascondesse qualcosa di diverso. Più intimo? Forse. O forse no.
   Mi ero interrogata più volte riguardo ai miei sentimenti per Nathaniel, eppure in tutti quei mesi non ero mai riuscita a darmi una risposta ben precisa. Se qualcuno mi avesse chiesto se lui mi piaceva, avrei risposto istintivamente di sì. Non sarebbe stata una bugia. Se ne ero innamorata? Boh. Il problema era che con lui non riuscivo ad essere me stessa in tutto e per tutto, mai. Non sapevo spiegarne la ragione, però era un fatto che c’era qualcosa che mi legava e non me la sentivo di attribuire la faccenda alla simpatia romantica che sentivo di provare per lui. Non ho mai creduto alla storia delle farfalle nello stomaco, anche perché tutto ciò che mi sembrava di avvertire, quando ero con Nathaniel, era una sorta di costrizione, come se fossi perennemente all’interno di una gabbia che mi stava sempre più stretta. Non ero a mio agio. L’impressione che avevo, ogni volta che ci parlavo o ci avevo a che fare, era che lo stesso Nathaniel non sembrava esserlo con se stesso: un ragazzo della nostra età che, anziché sentirsi libero di essere ciò che era, era come intrappolato dentro quello che appariva. Ogni sua azione era studiata, nulla mai mi pareva del tutto spontaneo.
   In tutta sincerità, non ho mai avuto la pretesa di saper interpretare il carattere degli altri, ma posso riconoscermi almeno l’invidiabile capacità di saper capire se una data persona viaggia sui miei stessi binari o meno. È un processo inconscio, qualcosa che tuttora non saprei descrivere né piegare alla mia volontà. C’è e basta. E, pensando a Nathaniel, più volte mi era parso di sentire questo campanello d’allarme.
   Se lui era legato al suo ruolo, tale e quale mi sentivo io, benché non sapessi esattamente quale fosse la parte che ero costretta a recitare. Magari quella della ragazzina invaghita di un giovanotto responsabile e a modo come solo il delegato degli studenti poteva esserlo. Onestamente? Preferivo tornare me stessa. Per carità, con Nathaniel stavo bene, nonostante tutto. Ciò non toglieva, però, che ogni volta che ci salutavamo e ognuno riprendeva la propria strada, mi sembrava di tornare a respirare. Potevo di nuovo essere quella che ero sempre stata, quella che riuscivo ad essere unicamente con quelle persone che, per prime, erano se stesse quando si trovavano in mia compagnia.
   «Scusa, oggi non posso», mi venne spontaneo rispondere. Non ero dell’umore adatto per andarmene a spasso con quello che sì, potevo forse considerare un amico, ma con il quale sapevo che avrei dovuto fingere ancora una volta di essere qualcun altro. O meglio, con il quale sapevo che avrei dovuto trattenermi. Non si trattava di ipocrisia, solo di non essere a mio agio. Poteva, perciò, considerarsi amore, quello che sentivo per lui? Probabilmente no.
   «Ho promesso a mia madre che sarei tornata subito a casa», spiegai. Era una menzogna e un po’ mi sentii in colpa nei suoi confronti, ma quel pomeriggio non sarei stata di grande compagnia, e per quanto amassi i libri, non avevo voglia di reprimere ancora i miei sentimenti – com’ero stata invece costretta a fare durante le ore scolastiche. La verità era che avevo voglia di correre e urlare e, al tempo stesso, di starmene in silenzio a far niente. Ero nel pallone più totale e non sapevo spiegarmene la ragione.
   No, anche questa era una bugia.
   «Oh, capisco», commentò Nathaniel, lievemente dispiaciuto. «Potremmo andarci un altro giorno, allora», propose, tornando a sorridere. Si era accorto del mio malumore? Di solito lo faceva, non era stupido.
   Il sorriso che gli rivolsi, sia pure timido e un po’ impacciato, fu sincero. Come lo fu la mia risposta. «Certo, ne sarei felice.»
   Salutai Nathaniel e ripresi la via di casa con il solito senso di sollievo, al quale però si era aggiunta una vaga insoddisfazione che mi portava ad irrigidire i muscoli del corpo. Appena il pomeriggio prima avevo percorso quella stessa strada insieme al mio migliore amico di un tempo, eppure non sapevo più se potessi realmente considerarlo ancora tale. Kentin era cambiato, non soltanto nel fisico. Con lui ero sempre riuscita ad essere ciò che mi risultava impossibile con Nathaniel: me stessa. Ora che però Kentin era tornato, mi ero resa conto che la sua presenza, prepotente anche più di quanto lo era stata la sua assenza, mi scombussolava. In classe, quel giorno, ci eravamo rivolti solo poche parole, nonostante tutte le buone premesse del pomeriggio addietro. Mi chiesi se sarebbe davvero tornato tutto come un tempo. Mi chiesi se quella mia insoddisfazione fosse legata a quella tensione, a quell’imbarazzo che si era frapposto fra noi, quasi come se non fossimo mai stati tanto amici, in passato, come se non ci fosse mai stato spazio per le confidenze.
   Cos’era cambiato, esattamente?
   Tutto. Niente.
   Non avrei saputo da che parte cominciare a tirare le somme di quanto era accaduto negli ultimi mesi, né avevo voglia di farlo. Io stessa dovevo essere cambiata parecchio, agli occhi di Kentin, apparendo più timida e posata quando si trattava di rivolgermi a Nathaniel, ma più sboccata e sicura nel modo in cui rispondevo a Castiel o ad Ambra. Entrambi gli atteggiamenti mi appartenevano, e per quanto contraddittori potessero sembrare, in realtà non lo erano affatto: semplicemente, mi adattavo alla situazione e alla persona con cui mi trovavo a che fare. In più di un’occasione, infatti, avevo persino dimostrato di saper essere cordiale e disponibile persino verso Castiel, e se lui non aveva capito né apprezzato… beh, affari suoi. L’unica volta in cui aveva dimostrato la propria gratitudine nei miei confronti, poi, mi aveva fatto quasi impressione per il modo… gentile? Beh, per il modo in cui mi aveva guardata e mi aveva sorriso. Sinceramente, lo preferivo di gran lunga quando mi fissava con il suo solito sguardo accigliato e quel muso imbronciato e a tratti strafottente: era più da lui. Soprattutto, non mi faceva venire i brividi.
   Ero talmente presa dai miei pensieri che quando, attraversando il parco, lo scorsi da lontano, il cuore mi balzò in petto così forte che istintivamente mi fermai di botto. No, non parlo di Castiel. Non distante dal cancello d’ingresso che dava sulla strada di casa mia, c’erano due bambini intenti a palleggiare; con loro, un ragazzo più grande, dai capelli castani, che avrebbe dovuto apparire fuori posto, ma che invece sembrava perfettamente integrato in quel gruppetto di marmocchi. Kentin sapeva che abitavo da quelle parti, così come sapeva che amavo attraversare il parco ogni volta che andavo e tornavo da scuola. Era lì di proposito? Oppure era solo un caso? A vederlo da lontano, più alto e robusto di quanto ricordassi, sembrava tutt’altra persona. Solo la sua risata, che giungeva fino a me fresca e pulita come lo era sempre stata, rivelava senza alcun dubbio la sua identità.
   Preso com’era dal gioco, avrei potuto benissimo passare oltre senza esser notata. La tentazione ci fu: dopotutto, se non ero dell’umore per trascorrere del tempo con Nathaniel, che pure mi piaceva, perché mai avrei dovuto esserlo per fermarmi a parlare con Kentin, che per di più era la principale causa del mio turbamento?
   Mossi qualche passo verso l’uscita, ma poi arrestai di nuovo il mio cammino. A cosa sarebbe servito fuggire? Prima o poi avrei dovuto averci a che fare di nuovo. Inoltre, da quando avevo paura di lui? Di Ken. Del ragazzo più buono e gentile che io avessi mai conosciuto. Che fosse cambiato era indubbio, ma era altrettanto certo che non avrebbe mai potuto diventare tutt’altra persona, e questo me lo aveva già dimostrato.
   Decisi di affrontare di petto quella nuova realtà. Non aveva senso rimandare oltre. L’alternativa, in fondo, qual era? Quella di tornarmene a casa senza neanche aver provato a risolvere la mia situazione, chiudendomi in camera a frignare come avevo già fatto il giorno prima? No, grazie. Benché Kentin non ne fosse consapevole, avevo persino dato buca a Nathaniel per colpa sua, quindi ora doveva almeno spiegarmi che ci faceva lì.
   Armata di una sicurezza dettata soprattutto da sentimenti non troppo positivi, mi avvicinai e, quando fui a portata di orecchi senza che dovessi urlare, lo chiamai. Lo vidi alzare il capo e voltarsi di scatto nella mia direzione, rimanendo a fissarmi per qualche istante prima di dar voce ai due ragazzini, dicendo loro di continuare pure senza di lui.
   «Ehi, ciao», fu la prima cosa che mi disse quando fu a pochi passi da me. Fui costretta ad alzare il capo più di quanto ricordassi, visto che adesso era cresciuto molto più di me in altezza. Inoltre, il sorriso che mi rivolse, timido e impacciato, e quel suo sguardo affettuoso e gentile, proprio come un tempo, dissolsero in un istante ogni mio ingiustificato risentimento nei suoi confronti.
   «Ciao», balbettai, sentendomi una perfetta imbecille. Dovevo davvero provare soggezione verso Ken? No, Kentin. Dovevo ricordarmi di chiamarlo con il suo nome per esteso, adesso. «Non volevo distoglierti dal gioco», buttai lì, non sapendo che altro dire. Era come se un blocco mentale mi impedisse di ragionare con facilità.
   Lui ridacchiò sommessamente. «Stavo solo ammazzando il tempo mentre aspettavo.» Aveva appuntamento con qualcuno? Oppure stava davvero aspettando me? «Oggi non ho avuto modo per parlarti quando avrei voluto, perciò ti ho teso un agguato vicino casa», scherzò, mettendo una mano in una delle tasche del pantalone militare che indossava.
Okay, quindi stava davvero aspettando me. La cosa in qualche modo mi lusingò, lasciandomi ulteriormente turbata. Quello vago sentimento di piacere e di confusione lasciò presto il posto ad un ben più definito stupore non appena Kentin si apprestò a prendere dalla tasca quello che, a primo acchito, mi sembrava essere un cellulare nuovo di zecca.
   «Finalmente mio padre si è deciso a comprarmene un altro», mi spiegò, mentre la sua mano recuperava l’apparecchio. Purtroppo, a causa della foga con cui lo tirò fuori, il telefonino gli scivolò dalle dita. Trattenendo a stento un’esclamazione, Kentin cercò di acchiapparlo prima che potesse finire in terra, ma ottenne solo di farlo rimbalzare a mezz’aria. Tutto ciò che potemmo fare fu osservare impotenti il suo cellulare nuovo che cadeva al suolo con un tonfo preoccupante.
   Tralasciando le imprecazioni che seguirono, ci chinammo entrambi sulle ginocchia per cercare di verificare i danni: il telefonino era integro, grazie al cielo. Passata la paura, la prima cosa che mi venne spontaneo fare fu ridere. Kentin alzò uno sguardo seccato nella mia direzione ed io fui costretta a soffocare il resto del divertimento, mordendomi il labbro inferiore. «Scusa», tartagliai. «È solo che…» Mi sembra di essere tornata davvero ai vecchi tempi. Fu questo che avrei voluto aggiungere, ma non lo feci. Kentin sembrava fiero di ciò che era diventato, eppure sotto certi aspetti rimaneva goffo proprio come il vecchio Ken.
   «Volevo darti il mio nuovo numero», mi disse lui, ritrovando il buonumore. «Così almeno non sarò costretto a farti gli appostamenti vicino casa quando devo dirti qualcosa», si prese in giro da solo, mentre si rimetteva dritto sulle gambe e mi porgeva una mano per aiutarmi a fare lo stesso.
   Accettai il suo invito e sorrisi, rendendomi a malapena conto che quel turbamento provato fino a pochi attimi prima era diventato ora soltanto un fastidioso sottofondo al resto dei miei pensieri e delle nuove emozioni che una sola risata era stata in grado di far nascere nel mio cuore. «Aspetta, ti do il mio», mi offrii subito, ben sapendo che non poteva averlo ancora, dopo che il vecchio cellulare gli era stato rubato dai compagni della scuola militare.
   «Oh, non occorre», mi fermò lui. E quando gli rivolsi uno sguardo interrogativo, si strinse nelle spalle con aria imbarazzata. «Me lo ricordo a memoria.»
   Neanch’io ricordavo il mio numero a memoria, tant’è che avevo già infilato una mano nella borsa per recuperare il telefonino. «Oh…» balbettai, confusa. Approfittando del silenzio che seguì, Kentin mi fece uno squillo dal suo nuovo contatto, invitandomi a salvarlo. Lo feci, sbagliando tre volte a digitare il suo nome. Inveii e lui rise. «Piuttosto», iniziai, usando senza farci caso il solito tono di voce con il quale ero abituata a rivolgermi a lui quando ero lievemente indispettita per qualcosa, «perché non mi hai aspettata davanti la scuola?»
   «Ho visto che ti eri attardata a parlare con Iris e non volevo disturbarti», rispose lui. «Poi ho visto anche che Nathaniel si stava avvicinando a te e ho capito che non ti saresti liberata subito, e così…» Fece un gesto vago con la mano e lasciò cadere la frase a metà. «A proposito, che voleva? Le solite menate scolastiche?»
   «Ehm… no», bofonchiai, sentendomi di colpo in imbarazzo. «In realtà mi aveva chiesto di andare con lui in libreria», gli rivelai, avvertendo un nuovo, lieve rimescolamento emotivo all’altezza dello stomaco.
   «Ah», commentò Kentin, perdendo il sorriso. Strinse le labbra come se si stesse trattenendo dall’aggiungere qualcosa, ma poi domandò: «Anche a lui piacciono i libri?»
   «Sì, ma è piuttosto fissato con un genere solo», risposi. Mi sentivo a disagio al pensiero di nascondergli che ci fosse dell’altro, dietro all’invito di Nathaniel. Kentin aveva sempre avuto un debole per me e non si era mai fatto problemi a dirmelo; ma era ancora così, dopo tutto quel tempo passati lontani? «Gli ho detto di no, comunque», mi affrettai a fargli sapere, come se dovessi dargli delle spiegazioni. Il che era assurdo, considerato il fatto che fra me e lui non c’era mai stato niente. In più, senza che potessi farci nulla, alla mente mi tornò con prepotenza la visione del bacio che aveva dato ad Ambra. Mi si contorsero le budella ed avvertii nitidamente il sangue affluire al volto con prepotenza. Se il giorno addietro la cosa mi aveva soltanto lasciata sconvolta, adesso iniziava a farmi ribollire di rabbia. Non ne avevo il diritto. Provando per lo più un senso di forte amicizia nei suoi confronti, avevo sempre sorvolato sulle palesi intenzioni amorose di Kentin; dunque ora avevo ben poco da recriminare riguardo a ciò che faceva con le altre. E poi a me piaceva Nathaniel, giusto? Giusto. Dovevo tenerlo a mente.
   Ma faceva male, dannazione.
   «Io… devo tornare a casa», buttai lì, sentendo di non reggere più il suo sguardo. Feci per muovermi e salutarlo, quando qualcuno mi chiamò. Mi voltai appena in tempo per vedere Alexy correre nella nostra direzione, seguito da un ben più svogliato Armin, che camminava col naso incollato ad una consolle portatile.
   Quando ci fu vicino, Alexy ci rivolse un gran sorriso. «Appena conosciuti, già vi date appuntamento?» scherzò, facendomi irrigidire all’istante.
   «Guarda che ci conosciamo dalle medie», lo corresse Kentin, atono. Non negò tuttavia la faccenda dell’appuntamento, né io mi presi la briga di farlo al posto suo.
   «Davvero?» si stupì l’altro, mentre Armin ci raggiungeva e, sollevando lo sguardo dal suo videogioco, ci squadrava con espressione indecifrabile. «Avevo sentito solo che Kentin aveva frequentato le prime settimane al nostro liceo, ma che poi era dovuto andar via…»
   «Beh, sono tornato», rivelò l’ovvio il mio migliore amico. Potevo ancora chiamarlo così? Sperai di sì, con tutte le mie forze. «E non ho più intenzione di andar via.»
   «Tanto meglio», commentò Alexy, rivolgendogli un sorriso piuttosto enigmatico sulle labbra che mi portò ad aggrottare lievemente un sopracciglio.
   Armin lo pungolò con un gomito. «Ehi, fratello, credo che non vogliano essere disturbati», suggerì con un tono di voce affatto discreto.
   «Ma ti pare?» replicai, incrociando le braccia al petto con aria risentita. «Piuttosto, che ci fate da queste parti?»
   «Volevo passare dal negozio di abbigliamento qui vicino», prese a rispondermi Alexy, visibilmente divertito dalla mia reazione. «Armin ha proprio bisogno di un nuovo paio di pantaloni.»
   «Non ne ho poi così bisogno», assicurò quello, sottolineando con uno sbuffo tutto lo scarso entusiasmo provato per quella che pareva essere una vera e propria imposizione fraterna.
   «E voi, invece?» chiese Alexy, ignorandolo di proposito.
   Feci spallucce. «Abito dall’altro lato della strada», spiegai, facendo cenno verso il palazzo che si poteva intravedere da lì, oltre le chiome degli alberi del parco.
   «Chissà che vista, da casa tua!» esclamò l’altro, seguendo con lo sguardo la direzione indicatagli.
   «E quindi tu l’hai accompagnata?» s’informò Armin, rivolgendosi a Kentin con una confidenza che non mi sarei mai aspettata. Nessuno si era mai interessato a lui così direttamente, tant’è che persino il mio amico lì per lì rimase quasi spiazzato.
   «No…» rispose dopo un attimo di esitazione. «A dire il vero ci siamo incontrati solo poco fa», aggiunse poi, facendosi più sicuro.
   Un pallone rotolò fino ai miei piedi ed uno dei due bambini che prima stavano giocando con Kentin lo reclamò a gran voce. Senza aspettare un solo istante, calciai indietro la palla e Armin fischiò ammirato. «Però… Bel tiro», si complimentò. «Com’è che poi durante l’ora di ginnastica dimostri di essere un disastro completo?»
   «Grazie, eh», borbottai, scoccandogli un’occhiataccia.
   Kentin mi lanciò uno sguardo divertito. «Sa solo tirare la palla, ma la mira non è eccezionale», rivelò al posto mio, facendomi arrossire per la stizza.
   «Oh!» protestai. «Posso dimostrarti che le cose sono molto cambiate, da quando te ne sei andato!» gli garantii, mentendo spudoratamente.
   Lui rise. Non ero mai stata brava a raccontare bugie, dopotutto, e lui lo sapeva meglio di chiunque altro. «Ti va di fare due palleggi, allora?»
   «Ci sto!» accettai, più per orgoglio che per voglia vera e propria. E comunque, avevo bisogno di sfogare tutto quel groviglio di sentimenti che non sapevo assolutamente come sbrogliare.
   «Non dovevi tornare a casa?»
   «Non importa», risposi spavalda, del tutto incurante di apparire incoerente.
   «Venite anche voi?» domandò allora Kentin, estendendo perciò l’invito anche ai gemelli, che subito accettarono. Persino Armin, troppo interessato a vedere quanto fosse a banana il mio piede per lasciarsi vincere dalla pigrizia.
   Fu così che, appena un minuto dopo, ci trovammo tutti e quattro a ridere e scherzare come bambini insieme a due ragazzini delle elementari. Più giocavamo, più ogni pensiero negativo si dissolveva magicamente, come se non fosse mai esistito. Ed eccomi lì, ad essere me stessa proprio come anelavo: potevo farlo, finalmente. Potevo mettere da parte ogni costrizione, ogni remora, e gridare, far sentire l’intima voce del mio io più profondo.
   Da quanto non accadeva?
   Da quando Kentin era partito.
   Adesso però era di nuovo lì con me ed io, senza neanche avvedermene, ero tornata a sorridere per davvero.
   Quando i due ragazzini furono costretti a salutarci per tornare a casa e si portarono via il pallone, noi quattro ci buttammo letteralmente a sedere sulla prima panchina libera che trovammo. Stanchi, sudati, ma tremendamente soddisfatti. Io soprattutto, perché il mio piede a banana, come l’aveva definito Armin, aveva decretato la vittoria della squadra che avevo formato insieme a Kentin e ad uno dei due bambini.
   «Domani chi lo porta, il pallone?» volle sapere Alexy, ridendo.
   «Pietà!» invocò suo fratello, sollevando gli occhi al cielo. «Stasera faticherò a stare in piedi, perciò non oso immaginare come starò domani…»
   «Sembri un nonnetto», lo presi in giro, benché fossi più sfinita di lui. E meno male che, per tornare a casa, avrei dovuto solo attraversare la strada, a differenza loro… «Se avete sete, vi porto qualcosa da bere», mi offrii allora, rimettendomi goffamente in piedi. Subito fui sommersa di ordini e partii spedita verso il primo chiosco a portata di mano.
   Quando tornai da loro, con le bibite e tanti ringraziamenti, mi dissero che mentre ero via dalla mia borsa era emerso un suono spettrale. «Cos’hai, lì dentro, un uccellaccio del malaugurio?»
   «Armin, la tua fantasia è disarmante», gli assicurai, affidando ad Alexy la mia lattina di tè e mettendomi a frugare alla ricerca del cellulare. Stavo ancora ridacchiando per le battute degli altri quando, leggendo il destinatario del messaggio che mi era arrivato, il sorriso mi si congelò sulle labbra: Nathaniel.
   Mi ero dimenticata di lui. Come sempre, quando si trattava di Kentin. Avrei dovuto farmi un bell’esame di coscienza, suppongo. In quel momento, però, un senso di colpa grosso quanto una trave mi si insinuò nel petto, piantandosi all’altezza del cuore: gli avevo dato buca perché non ero dell’umore per fare un giro con lui, eppure avevo passato l’ultima mezzora a scatenarmi appresso ad un pallone e a ridere e scherzare assieme ad altri tre nostri compagni di classe – e due perfetti sconosciuti. E lui? Si era premurato di mandarmi un messaggio per chiedermi come stessi, a testimonianza del fatto che si era accorto del mio stato d’animo tutt’altro che sereno. Era stato un tesoro. Ed io, invece, ero stata pessima.
   Scivolai a sedere di nuovo sulla panchina con uno sbuffo insonoro e iniziai a digitare la mia risposta, scusandomi di nuovo con lui ed assicurandogli che andava decisamente meglio. In fondo, perché farlo preoccupare ancora? La colpa era solo mia.
   «Tutto bene?» mi domandò Alexy, porgendomi indietro la lattina quando misi giù il cellulare, posandolo provvisoriamente sulle ginocchia nel qual caso si fosse messo a squillare di nuovo.
   «Sì.» In risposta a quella sillaba ricevetti tre sguardi scettici, segno che nessuno di loro si era bevuta la mia palese bugia. Sospirai. «Era Nathaniel», mi arresi a confessare, arrossendo appena per paura che potessero fraintendere. «Gli era parso che fossi di malumore, e voleva sapere se andava meglio.»
   «E va meglio?»
   Sorrisi. «Molto», ammisi, non nascondendo la gratitudine che provavo verso tutti loro, benché fossi cosciente del fatto che non si erano certo adoperati a risollevarmi intenzionalmente il morale.
   «Ma perché eri giù?» m’incalzò ancora Alexy, curioso come una scimmia.
   Fu stranamente Armin ad accorrere in mio aiuto, sia pure a modo suo. «Non fare domande idiote», cominciò difatti. «Lo sai che le femmine sono strane. Magari è in quei giorni.»
   «Mi ricorderò della tua delicatezza, durante il prossimo compito in classe», fu l’acido commento che ricevette in risposta.
   «Oh, no, ti prego!» si lagnò lui, saltando giù dalla panchina per inginocchiarsi ai miei piedi. «Ho bisogno dei tuoi suggerimenti! Sei una tale secchiona!»
   Gli assestai uno scherzoso manrovescio sul braccio. «Tu hai bisogno di studiare, altroché!»
   «E prima ancora ha bisogno di un nuovo paio di pantaloni», chiarì Alexy, alzandosi e stiracchiandosi come un gatto. «Forza, andiamo: il negozio è proprio qui vicino.»
   «Ma sono tutto sudato!» protestò Armin, implorando pietà con lo sguardo.
   «Poche chiacchiere, sbrigati!»
   Mugolando proteste a non finire, fu costretto a cedere. Perciò, dopo un ultimo scambio di battute e dei saluti piuttosto originali, entrambi i gemelli si accomiatarono da noi, dandoci appuntamento l’indomani mattina a scuola.
   Rimasi seduta sulla panchina insieme a Kentin, guardando i due allontanarsi e rendendomi di colpo conto che non sapevo esattamente cosa dire. Fu lui a parlare per primo, rimettendosi in piedi. «Vado anch’io», esordì, guardandomi dall’alto e facendomi sentire minuscola. Realizzai, stupita, che adesso la sua presenza mi sembrava imponente quanto quella di Nathaniel; solo, in modo decisamente differente. Con Kentin non avvertivo alcuna costrizione, alcuna gabbia, alcuna catena che mi impedisse di dire e fare ciò che realmente volevo.
   «Scusa», pronunciai d’istinto, mentre mi alzavo anch’io. Vidi le sopracciglia di lui inarcarsi per lo stupore e faticai a trattenere un sorriso. «Niente, è solo che ho bisogno di tempo», spiegai, in tutta sincerità. «Ma sono felice che tu sia tornato. Davvero.»
   Le sue labbra si inarcarono verso l’alto e i suoi occhi verdi si fecero più splendenti. «Anch’io sono felice di averlo fatto», affermò con orgoglio. «Soprattutto, volevo rivederti.»
   Fu allora che feci una cosa che, nonostante tutti gli anni passati a scuola insieme, non mi ero mai azzardata a fare prima di allora: lo abbracciai, commossa. Pur sorpreso dalla mia audacia, Kentin non tardò a ricambiare il gesto e di colpo non mi parve più strano che le sue braccia, che ora mi stringevano con affetto e tenerezza, si fossero irrobustite tanto. E sebbene il suo odore, che pure conoscevo a memoria, adesso mi inebriava nel profondo, la serenità che riusciva a trasmettere al mio animo rimaneva immutata.
   Quel maledetto uccellaccio del malaugurio, che annunciava i messaggi in arrivo sul mio cellulare, risuonò di nuovo nell’aria ed entrambi lo interpretammo come un segnale per sciogliere il nostro abbraccio.
   «Sarà di nuovo Nathaniel», ipotizzò Kentin, abbozzando un sorriso un po’ tirato.
   «Forse», mormorai. Ciò nonostante, non avevo alcuna fretta di vedere chi mi stesse cercando. Ribadii con me stessa di essere davvero pessima. Nathaniel non meritava di essere trascurato in quel modo, non dopo la sua preoccupazione nei miei riguardi.
   «Non rispondi?»
   «Lo farò dopo, ora non mi va.» E tu sei più importante, pensai senza neanche stupirmene troppo. E sebbene all’epoca non avevo ancora idea del perché Kentin dovesse avere la priorità su chiunque altro, quella nuova consapevolezza mi fece improvvisamente sentire più leggera, quasi come se fossi in pace con il mondo.
   «Ci vediamo domani a scuola, allora», disse lui, protendendosi verso lo zaino che aveva abbandonato sulla panchina. Seguii i suoi movimenti con lo sguardo e non appena tornò a rivolgersi a me, mi salutò con uno di quei sorrisi che tante volte, in passato, erano stati in grado di far breccia nel mio cuore.
   Continuai a tenere gli occhi puntati nella sua direzione anche quando ormai si era allontanato abbastanza da risultare quasi invisibile alla mia vista. Poi, quando davvero non riuscii più a scorgerlo, tornai a prestare attenzione al cellulare che avevo lasciato sulla panchina insieme alla borsa. Li recuperai e, issandomi la tracolla in spalla ed avviandomi verso l’uscita del parco, aprii il nuovo messaggio. Era di nuovo Nathaniel che, con uno smile sorridente, dimostrava la sua solidarietà ai miei capricciosi stati d’animo.
   Sospirando, alzai gli occhi alle alte chiome verdi degli alberi che si intrecciavano sopra la mia testa. Una cosa era certa: sentimenti romantici a parte, avevo davvero degli amici meravigliosi. Pensando a questo, sperai con tutte le mie forze che Kentin, Armin e Alexy lo fossero al punto da non far parola con Nathaniel dell’incontro che avevamo avuto al parco: se lo avessero fatto, magari lasciandosi sfuggire un commento divertito in classe, l’indomani mattina, come avrei potuto giustificarmi con lui?!
   Imprecai in preda al panico, mentre attraversavo la strada e raggiungevo il portone di casa. Di Kentin mi fidavo, soprattutto perché a lui avevo detto di aver dato buca a Nathaniel; ma come avrei dovuto metterla con i gemelli? Di sicuro non erano due tipi tranquilli, ed era altrettanto indubbio che non avrei potuto permettermi ad avvisarli di tacere al riguardo: sarebbe stato tremendamente sospetto. Che situazione del cavolo.
   L’unica cosa da fare, ragionai fra me, agguantando ancora una volta il cellulare non appena fui in camera mia, era quella di chiamare Nathaniel per ringraziarlo per le sue premure e raccontargli così, distrattamente, che tornando a casa mi ero imbattuta in quei tre. Era una soluzione semplice e indolore. Eppure, chissà perché, mentre glielo stavo riferendo, fui quasi colta dalla sensazione di essere una moglie fedifraga che tentava di giustificare una propria mancanza al marito ignaro delle sue scappatelle. E dire che io e Nathaniel neanche stavamo insieme e che quindi non ero affatto tenuta a dargli questa o quella spiegazione. In fondo, che male c’era se preferivo passare del tempo insieme ai miei amici piuttosto che con il ragazzo che mi piaceva?
   Soprattutto, possibile che non mi accorgessi che, in tutto quella faccenda, c’era qualcosa che andava alla rovescia?
   Diamine, quanto ero stupida…












L'amore è una faccenda apparentemente complicata. In realtà, sono dell'avviso che non vi sia nulla di più semplice, al mondo, di due persone che si vogliono bene e si impegnano affinché il loro rapporto (di qualunque tipo esso sia) possa funzionare. Certo le cose si complicano nel momento in cui non si riesce a capire bene quello che si ha dentro, ma... ci vuole solo tanta pazienza.
Ammetto che la mia Dolcetta non ci fa proprio una bella figura, qui. Povero Nathaniel. Ma, in soldoni, è più o meno quello che è iniziato ad accadere quando è tornato Kentin all'interno del gioco. Più andavo avanti, più mi rendevo conto che il bel delegato aveva sempre meno spazio nei pensieri della mia piccola decerebrata. E poi è vero: ogni volta che mi trovo ad avere a che fare con Nathaniel, ho la sensazione di dover fingere, perché troppo preoccupata dal pensiero di indovinare la risposta esatta. Con Kentin, invece, vado spedita e, puntualmente, le acchiappo tutte. In più, quei tre idioti (Kentin, Armin e Alexy) mi fanno troppo ridere. :'D
Va beh, la pianto qui.
Colgo l'occasione per scusarmi se mi sono dedicata a questo papiro piuttosto che al nuovo capitolo della long (che pure ho iniziato), ma avevo in testa questa cosa e dovevo cavarla via prima che mi andasse ad ingarbugliare troppo i pensieri. Spero di riuscire a mettermi di nuovo al lavoro domani.
Un abbraccio ed un enorme grazie a tutti i lettori!
Shainareth
EDIT: Mi sono resa conto che in questa shot c'è una mole vergognosa di sviste ed errori di battitura. Giuro che domani provvederò a sistemare tutto. Perdonate lo schifo. ;_;





  
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