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Autore: arwriter    23/04/2015    2 recensioni
Quando Christian arriva a Williston come nuovo studente della scuola superiore, la vita di Alice prende una piega diversa, poiché se ne innamora fin dal primo istante. Questo amore è incondizionatamente corrisposto, ma c’è qualcosa in lui che non le è ancora chiaro.
Durante una loro uscita la porta in un prato, e da lì tutto cambia. Alice entra in un sottomondo chiamato Metarsios, a cui Christian appartiene, dove regna solo l'inverno poiché l'estate può tornare solo con il ritrovamento di un gioiello dai poteri straordinari risalente alla dominazione Hidatsa, rubato dagli umani alla popolazione ultraterrena.
Alice dovrà esplorare il mondo cercando di salvarsi dai dominatori che vogliono ucciderla, e nel frattempo rassegnarsi ad un amore impossibile.
Riuscirà ad affrontare le difficoltà o sarà pronta a rinunciare per sempre a Christian?
IN FASE DI REVISIONE
Genere: Fantasy, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Metarsios

 
 
Non riuscii a rendermi conto di quanti metri percorsi sospesa nell’aria, ma ci fu qualcosa di strano nell’atterraggio: all’uscita dal buco di arrivo non caddi a terra, bensì la gravità mi spinse verso dove ero partita. Realizzai così un qualcosa che non mi sarei mai aspettata e che avrebbe sbalordito tutti nel mio mondo: la gravità non attrae i corpi verso il centro della Terra. La gravità si trova in uno strato interno al pianeta profondo circa dieci chilometri (attraverso la quale io ero appena passata); pertanto attrae i corpi sia del mondo umano che di questo ultraterreno. Mi consolò il pensiero di avere i piedi sullo stesso terreno di tutte le altre persone, solo più in profondità. È incredibile venire a conoscenza di un tale fatto; un fatto dimostrato dalla scienza, che avrebbe permesso agli studiosi di capire che del mondo non sapevano assolutamente nulla e avrebbero dovuto ripartire da zero. Tutto mi appariva strano, non sapevo come reagire. Iniziai poi a guardarmi intorno: ci trovavamo in una stanza molto luminosa e al centro c’era la fossa dalla quale provenivo. Negli angoli, invece, c’erano delle specie di computer touchscreen. Davanti a me c’era poi una porta, o almeno così sembrava, sotto la quale il pavimento assomigliava ad una semicirconferenza: capii che era una piattaforma che ruotava su se stessa.
«Dove siamo?».
«Si chiama Metarsios», rispose Christian. Solo allora notai la scritta “Metarsios” sulla porta, adornata anche da un’incisione raffigurante un quetzal, un uccello diffuso in America Centrale, venerato da popolazioni antiche che in quel momento non ricordavo. Non ricordavo nemmeno come potessi sapere quelle informazioni, visto che in quegli istanti la mia mente era praticamente oscurata da altri pensieri.
«Perché sono qui? Hai deciso di stare zitto per l’eternità? Ah giusto, non sei tu che sei appena piombato in un altro mondo, se così si può chiamare», brontolai arrabbiata.
«Ti spiegherò tutto non appena entreremo».
«Vuoi dirmi che non siamo ancora arrivati?! Non ne posso già più!».
«Stai calma, ci devono riconoscere».
«Riconoscere? Chi?».
«I computer. C’è un software che permette di riconoscere chi entra e chi esce da Metarsios, per controllare i traffici».
«Va bene, se proprio devo. Ma vai prima tu», ordinai infine.
Christian si posizionò davanti a un computer, toccò alcuni tasti e la macchina iniziò a far rumore. Una luce blu proveniente dall’apparecchio lo stava intanto perlustrando, per poi far comparire le sue informazioni sullo schermo. C’era scritto proprio tutto: nome, cognome, data e luogo di nascita… C’era persino una sagoma del suo corpo.
«Dai, ora tocca a te». Esitai un attimo, per poi avvicinarmi al computer. «No! Togliti l’anello».
«Non voglio. Perché dovrei?».
«Ehm… fa difficoltà a riconoscere i gioielli: li scambia per armi pericolose, meglio non rischiare».
Lo scanner mi analizzò e io e Christian ci posizionammo sulla piattaforma circolare. Lui premette un pulsante e, come immaginavo io, la piattaforma ruotò su se stessa e ci trasportò oltre la porta.
Ci ritrovammo immediatamente in una grande radura, circondata da alberi di tutti i tipi, che mi coprivano la visuale dell’orizzonte. Il manto erboso era quasi totalmente spoglio e il poco d’erba che rimaneva era di una tonalità giallastra tipica delle stagioni autunnali. Lo stesso succedeva agli alberi: i rami erano quasi spogli, privati delle loro grandi foglie, ormai divenute un manto sul terreno. Anche la temperatura era piuttosto bassa.
Stavo per chiedere nuovamente dove ci trovassimo, ma Christian mi precedette.
«Siamo in Amahati», disse tranquillo. Raggrinzii la fronte e inarcai le sopracciglia. «Come da voi ci sono i continenti, da noi ci sono delle aree ben precise». Smise di parlare quando notò il mio sguardo assorto nel vuoto, che sembrò simboleggiare un disinteresse. «Vuoi tornare a casa?».
«No. Ma prima voglio sapere perché c’è un’aria così autunnale. C’è qualcosa di strano qui, lo sento», risposi turbata.
«Ormai è inverno da quasi quattro secoli».
«Com’è possibile?».
«Quando gli Hidatsa scoprirono la nostra popolazione, tutto andò in frantumi. Per ora preferisco non dirti il perché».
«Chi sono gli Hidatsa?», chiesi più a me stessa che a lui. Forse ne avevamo parlato a scuola lo stesso giorno, ma avevo già dimenticato tutto.
«Una popolazione di nativi americani che vivevano in North Dakota. Anche ora hanno una piccola riserva sulle rive del Missouri».
«E che cosa c’entrano con la vostra popolazione?».
«Entrarono in contatto con la nostra civiltà circa nel diciottesimo secolo. Abbiamo sempre sottovalutato gli umani, ma tra questo clan c’era un grande scienziato, intelligentissimo. Era di origini statunitensi, ma i suoi genitori si unirono presto agli Hidatsa. Si chiamava Thompson, non ne ricordo il primo nome. Scoprì la crepa nel campo di girasoli, e arrivò su Metarsios. Era un uomo cordiale e umile, ma molto presto diffuse la notizia della scoperta nel suo clan, tutto questo per popolarità, visto che era una persona abbastanza povera. Ci fu una lunga e disastrosa guerra, ma alla fine trionfammo, a costo però di perdere un gioiello preziosissimo dalle capacità non solo prodigiose per la salute e il benessere, ma che persino garantivano una stagione estiva: prima qui faceva sempre caldo, gli alberi germogliavano e i fiori crescevano. La fauna vive meglio se fa caldo, sebbene anche con il freddo questo mondo possieda una biodiversità talmente ampia da non essere paragonabile a quella del vostro. Qui vivono molte specie che da voi si sono estinte. Ti sorprenderai nel vederle».
«Vorresti quindi affermare che noi siamo la causa di tutti i mali della Terra e loro povere persone che devono subire la cattiveria dei sottoscritti?». Che stavo dicendo?
La mia domanda retorica precedente lo provocò, così da fargli alzare il tono di voce. «Sì, questa è la realtà. Siete delle persone menefreghiste, egoiste e anche molto ignoranti», concluse infine. Diventai rossa di rabbia, consapevole che non aveva del tutto torto.
«Come puoi dire una cosa del genere del tuo popolo? Non hai rispetto!», gli urlai contro.
Lui inarcò il sopracciglio e raggrinzì la fronte. C’era qualcosa che non gli tornava, ma io non riuscivo a capire cosa fosse. Ci volle qualche secondo per spezzare il silenzio.
«Alice, mi sa che tu non hai capito niente». La sua affermazione mi confuse, e finalmente iniziai a incastrare i pezzi di quell’immenso puzzle.
«Tu… non vivi sulla Terra».
«Non nella tua parte di Terra», mi confermò lui.
Lo fissai per qualche secondo, poi tutta la rabbia che avevo dentro uscì. «Tu sei un bugiardo. Sei un traditore! Perché mi hai portata qui, eh? Spiegamelo! Cosa vuoi da me, alieno? Lasciami in pace, riportami dalla mia famiglia!», gli gridai contro. Me ne pentii subito, ma ormai era troppo tardi. La sua espressione mi fece rabbrividire; sembrava un cucciolo di cane che era appena stato abbandonato. Mi sentivo un mostro, l’avevo trattato troppo male. «No Christian…».
Non feci in tempo a finire la frase. «Non sprecare altre parole. Ti riporterò su, e non mi rivedrai mai più. Purtroppo per te sono disposto anche a questo». Rabbrividii. Non capii a cosa si riferisse nell’ultima frase, ma mi resi conto che non avrei potuto perderlo. Mi aveva mentito, ma non gli avevo nemmeno dato il tempo di spiegarmi il perché.
«Ti prego. Sono troppo impulsiva, non penso davvero ciò che ho detto. Non voglio assolutamente tornare in superficie».
«Non siamo in mare, te lo ricordo. E comunque non ne sei emotivamente pronta. Sei una bambina».
«No! Non è vero!», gridai ancora. Mi resi conto che quell’atteggiamento non mi rendeva affatto matura. «Ok, hai ragione. A volte sono troppo impulsiva, è che sono scombussolata. Non è da tutti ritrovarsi da un giorno all’altro in un altro mondo. Scusami».
«Vuoi proseguire o torniamo a casa?». Presi un respiro profondo, ma infine decisi di restare lì. Ormai ci ero dento, era un qualcosa di troppo importante per andarmene.
 
«Ti chiederai come possiamo vivere senza il Sole. La risposta è semplice: la luce che vedi proviene dal centro della Terra. Forse non è potente come quella del Sole, ma basta a garantirci una vita normale», mi raccontò Christian. «Non so più cosa spiegarti, per me è tutto così banale; d’altronde ci vivo da sempre. Al contrario penso che per te sia come nascere di nuovo: non sai totalmente nulla sul mondo, nemmeno ciò che è basilare», proseguì.
Aveva proprio ragione: mi sentivo più o meno come Alice nel paese delle meraviglie, l’unica differenza era che il mondo in cui finì lei non era interno a quello in cui viveva. Al paragone con il romanzo di Carroll confermai l’ipotesi che ero una persona troppo fantasiosa, ma soprattutto incondizionatamente fissata con la lettura.
«Ti voglio portare da una persona», affermò Christian, interrompendo i miei buffi pensieri. «Ma ti avverto, sarà l’unica che incontrerai qui». Non ne capii il motivo, ma decisi di aspettare: troppe risposte mi avrebbero scombussolato.
 
«Qui non ci sono città?», chiesi ingenuamente.
«Sì, ma siamo in campagna ora. E rimarremo nella zona, visto che la persona dalla quale ti porterò vive qui vicino», rispose Christian mentre guidava la sua auto, che aveva lasciato davanti alla porta d’accesso per il mondo superficiale prima di entrarci. «Siamo arrivati, quella è casa sua».
Ci trovavamo in un paesino simile a quelli dell’Inghilterra meridionale. Non che ci fossi mai stata, ma così si soleva dire. La casa dell’anonimo era una villetta a due piani, formata da mattoncini rossi e circondata da un enorme giardino.
«È…Particolare», commentai.
«Non hai ancora visto la padrona».
Prima di potergli rispondere, una giovane donna ci accolse davanti al cancello della villa, per poi condurci verso la porta, attraverso un vialetto di ciottoli e ghiaia. Il rumore delle mie scarpe su di essi mi fece ricordare la presenza di Terra sotto i miei piedi: mi sentii viva.
Persa nei miei pensieri, non diedi nemmeno un’occhiata alla donna che avevo davanti. Quando finalmente alzai lo sguardo, notai che aveva circa vent’anni, dei lunghi capelli neri lisci ed era magra e bassa. I suoi occhi erano a mandorla, neri come la pece. Iniziai ad avere timore di lei ma, come avendolo capito, si voltò verso di me e abbozzò un sorriso: aveva dei denti bianchissimi, perfetti. Le sue labbra erano sottili e chiare come la pelle, pallida e cerea.
«Sono Eveline», disse in un inglese un po’ titubante. Stranamente non mi ero ancora chiesta che lingua si parlasse su Metarsios.
La sua voce era più armoniosa di qualunque suono che avessi mai ascoltato; parlava in modo celestiale, sublime.
«Io sono Alice».
«Oh, Alice», esclamò scambiandosi subito un’occhiata con Christian. «Sei la benvenuta». Camminava come danzando, era come se per lei la gravità non esistesse: era leggera. «Quella è camera tua».
Camera mia? Non sapevo di dover restare lì. Mi insospettii.
«Solo se lo vuoi», si giustificò immediatamente Christian, «se no ti riporto subito a casa». Cosa avrei detto alla mia famiglia in merito alla mia scomparsa?
Compresi immediatamente che quella era un’opportunità da non perdere. Seguii il mio istinto.
«Voglio rimanere», affermai convinta. A quel punto Christian ci lasciò sole e andò via dalla piccola casetta in campagna nella quale mi trovavo.
La dimora di Eveline non era enorme, ma nemmeno troppo piccola. Al primo piano c’era la cucina, il soggiorno, la sala da pranzo e un piccolo bagno; al piano di sopra ce n’era un altro, insieme a due camere e ad uno studio. La mia era la più grande, con un letto a baldacchino rosa che profumava di vaniglia e una finestra enorme che dava sull’immenso giardino.
Eveline era strana, magica. Non era affatto il prototipo delle ragazze che conoscevo; sapeva cucinare bene, aveva un piccolo orto dal quale raccoglieva i frutti e si dedicava spesso alle pulizie della casa. In cucina aveva inoltre un pentolone appoggiato sui fornelli, il che mi ricordò vagamente le streghe delle classiche favole che si raccontano ai bambini. Intravidi anche un grande pianoforte bianco nello studio al piano di sopra, e ne sentii il suono quando iniziò a maneggiarlo con cura, muovendo dal primo all’ultimo dito della mano tra scale e arpeggi, sempre con la massima leggerezza.  Era bella nella sua stranezza.
Nei primi momenti di quella giornata mi lasciò girovagare da sola nel giardino di casa sua senza rivolgermi la parola, dopo prese confidenza con me e iniziammo grandi discorsi. Capii che parlare con lei di tutti i miei dubbi sarebbe stato più facile che farlo con Christian: la conoscevo da poco, ma c’era più complicità.
«Ora che ho finito alcune faccende domestiche, possiamo chiacchierare un po’», propose Eveline.
«Sì, direi di sì», le risposi sfoggiando il miglior sorriso che potessi.
«Che te ne pare di questo posto? È strano che Christian ti abbia rivelato di Metarsios».
«Ha un nome buffo». La mia affermazione non c’entrava totalmente.
«Deriva dal greco, significa “colui che vola in alto”».
«E perché? Terra invece significa qualcosa?».
«Non so risponderti all’ultima domanda. Il nostro mondo invece si chiama Metarsios perché gli uccelli sono sacri. Ce ne sono ovunque, di tutte le specie. Volano, si posano sugli alberi delle querce qui vicino, migrano in gruppo verso tutte le parti del mondo. Sono degli animali speciali, non credi?». Uscimmo poi sul balcone. La poca luce fioca era quasi interamente coperta da strati di nuvole, e qualche uccello svolazzava. «È una metamorfosi. Alla morte ci trasformiamo in uccelli».
«Che cosa?! Ma come è possibile?».
«È ciò che vuole la natura».
Rimasi per qualche minuto a scrutare l’orizzonte, immersa in un mare di pensieri. Mi sentivo angosciata, scombussolata, frastornata. Eveline interruppe quell’imbarazzante silenzio.
«Lo sai perché Christian ti ha portata qui?».
«Non so, forse sono per lui una grande amica e non mi vuole nascondere nulla».
«È innamorato di te». Raggrinzii la fronte, sbalordita.
«E tu come lo sai? Non è possibile, ci conosciamo da pochi giorni».
«Io so molte cose, Alice», disse scandendo bene il mio nome, «e non è esattamente come dici».
«Vuoi dire che, prima di conoscermi, lui sapeva della mia esistenza?».
«In un certo modo sì. Ma ora non ti posso parlare di questo argomento, è contro ciò che abbiamo di più sacro al mondo. Verranno poi i momenti adatti per farlo, per ora è giusto che tu viva nella funesta e dolente incertezza. Mi dispiace, tesoro».
«Non preoccuparti», risposi come disgustata.
«È l’ora del thè!», urlò di gioia lei. «Vuoi unirti a questa stupefacente usanza?». Eveline esagerava sempre su tutto. Persino un discorso confidenziale con lei prendeva la piega di un tipico sermone del papa.
 
***
 
«Che lingua si parla qui?», le chiesi sorseggiando il thè. Era buonissimo, sapeva di spezie dolci orientali mischiate a fiori di lavanda.
«Lingua Hidatsa, con un paio di minoranze in base all’area in cui ci si trova».
«Quante aree ci sono?».
«Sei», rispose tirando fuori una cartina dal cassetto della cucina. «Apasaki, Midaha, Hade, Amahati, Kidesi, Hunte». Wow, sembra giapponese, pensai.
«Sono tutti nomi Hidatsa?».
«Sì, tutti i nomi delle aree hanno un significato in lingua Hidatsa. Guarda, noi siamo in Amahati, nel nord est. Ancora più a nord c’è l’Apasaki, e più ad ovest l’Hunte. Confinano entrambe con la nostra area. Alla fine di questa grande penisola, c’è la piccola area di Kidesi: è quasi totalmente circondata dal mare, ed è un paradiso naturale», mi spiegò Eveline.
«E qui ci sono la Midaha e l’Hade», constatai.
«Si. La Midaha è a nord ovest e, come puoi vedere, è una grande isola. L’Hade, invece, si trova a sud ovest. Sono tutte terre meravigliose, ma in Hade le persone sono diverse, materiali. Hanno portato loro la scienza qui, ed è un grande bene per tutta la specie. Ma hanno dimenticato l’importanza dei veri valori, sono diventati dei grandi opportunisti», concluse Eveline.
«Il clima è uguale ovunque o ce ne sono di diversi in base ai luoghi?».
«Il clima è praticamente uguale in ogni luogo. Ci possono essere differenze di temperatura, ma sono minime», rispose. «Hai finito con le domande, cara?», mi chiese poi con gentilezza.
«Per oggi sì, sono un po’ stanca».
«Christian sta per tornare. Vuole venire a trovarti, è in pensiero per te».
«Perché?».
«Vuole starti vicino. Pensa che troppe scoperte insieme potrebbero causarti danni».
 
Christian arrivò dopo cena, quando la luce dell’interno della Terra si era ormai spenta: anch’essa aveva bisogno di una pausa ogni quattordici ore. Che strano non vedere la Luna che brillava alta nel cielo di Williston.
«Come va con Eveline? Ti trovi bene qui?», mi chiese mentre guardavamo il cielo dal balcone della stanza della padrona.
«Bene. Tu dove vivi?».
«Qui vicino, con la mia famiglia», rispose. «Domani vuoi tornare a casa?».
«Sì, non posso stare via per così tanto tempo».
«Allora questo è un addio».
«Io voglio tornare qui! Con o senza di te!».
«Ti ho detto più volte che devi calmarti, sei troppo suscettibile. Ti vengo a prendere domani alle undici di sera circa, così i tuoi genitori non lo scopriranno».
«Non voglio fare su e giù per il resto della vita».
«E che cosa vuoi fare?».
«Oggi Eveline mi ha chiesto perché mi hai portata qui. Non le ho saputo rispondere, sai? Me lo vuoi dire tu, per favore?».
«Perché voglio essere sincero con te, volevo che mi conoscessi a fondo prima di affrettarci troppo in una relazione che potrebbe rivelarsi sbagliata».
«E ora che cosa pensi?».
«Dovrei rivolgerla a te questa domanda. Ciononostante, voglio dirti che quello che ti ha detto oggi Eveline su di me è vero. Sono innamorato di te, lo sai. O forse innamorato no, però provo qualcosa di forte per te. Caspita, devo essere proprio stupido».
«Ti ringrazio per l’offesa».
«Tu non sai niente».
«Questo perché tu non me lo dici!», gridai con tutta la voce che avevo.
«Non posso farlo. Per favore, cerca di capirmi: ogni cosa a suo tempo. Ora devi solo dirmi se vuoi provarci».
«Provare a fare che cosa?».
«A metterti in gioco. A lottare, a combattere contro le tante avversità. Sei pronta? Dimmi cosa ne pensi, perché se no impazzirò».
«Voglio lottare».
Christian mi sorrise, mi mise le mani sul volto trascinandolo verso di sé e mi baciò. Fu un bacio intenso, vero, diverso dagli altri che avevo dato. Per la prima volta capii che ero disposta ad affrontare tutto, a mettermi in gioco per qualcuno. Per la prima volta compresi ciò che volevo davvero.
 
 
 
SPAZIO AUTRICE//
E' arrivato il momento di scrivere un commento su questa storia che va avanti da ormai un mese. Volevo ringraziare le persone che la seguono e che la recensiscono, ma anche tutti i lettori silenziosi. Credo davvero in questo romanzo, spero di poterlo pubblicare un giorno. Per far questo ho bisogno di commenti: ditemi dove sbaglio, cosa posso migliorare. Vi ringrazio in anticipo. A presto!
  
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