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Autore: sese87    23/04/2015    1 recensioni
One shot correlata a 1998, per cui per capirla è necessario conoscere il contesto in cui è inserita. Chi non conosce quella storia (e non ha voglia di leggerla :P) può comunque prendere questa per quello che è: una sorta di analisi (o meglio opinione personale) sul perché Vegeta e C18, in qualsiasi universo li si metta, non potrebbero mai stare insieme (sempre secondo il mio modesto parare).
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: 18, Vegeta
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie '1998'
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Prima di leggere: questa storia è correlate a 1998, per cui per capirla è necessario conoscere il contesto in cui è inserita. Chi non conosce quella storia (e non ha voglia di leggerla :P) può comunque prendere questa per quello che è: una sorta di analisi (o meglio opinione personale) sul perché Vegeta e C18, in qualsiasi universo li si metta, non potrebbero mai stare insieme (sempre secondo il mio modesto parare).

 
Per chi segue 1998, i fatti si svolgono nel giorno dopo il ballo; C18 è già stata da Bulma e Vegeta torna a casa dopo essere stato al parco. Insomma, i fatti narrati sono legati all’ultimo capitolo pubblicato.
Spero di non essermi spinta troppo in là con i contenuti, che questa one-shot chiarisca in modo logico alcuni avvenimenti dell’altra storia e beh, spero che vi piaccia. Fatemi sapere pure cosa ne pensate, nel bene o nel male. Buona lettura!

 

 

 

La zattera

                                                                                                         


Say after me
It's better to be safe than sorry

(A-Ha, Take on me)

 

La resa dei conti era infine ad attenderlo seduta davanti al portone di casa. Andarsene non lo sfiorava affatto e, senza tentennare, camminò fino a lei a passo sicuro. Non aveva paura di affrontarla, né temeva le sue lacrime, seppure in genere le situazioni patetiche gli piacessero davvero molto poco. D'altronde, piacevano ancor meno anche a lei. Per questo, fu con un certa curiosità che si avvicinò alla ragazza.
Diciotto si alzò in piedi, inconsapevolmente tenera nella cura con cui aveva scelto i vestiti che, sapeva, le calzavano meglio; decisamente irritata per l’incuria con cui era stata trattata. Non c’era tuttavia bisogno di spiegarle il significato della disperazione. Ed era così successo che la loro somiglianza fosse giunta infine a toccare anche le fibre più vive e violente dei loro animi, diventati irrecuperabili. Insalvabili. Insieme, sarebbero affogati: tutta quella rabbia era troppa per entrambi, incapaci di bilanciarsi sulla zattera delle loro vite. Lo sapevano.
«Bel taglio.» Le disse, passandole una mano sulla nuca. Lei accolse quel gesto senza scomporsi, se non nello sguardo.
«Mi fai salire?»
Dalla nuca spinosa, la mano scese sul suo fianco spingendola oltre il portone appena aperto. Un breve contatto destinato a spegnersi nel buio dell’umido atrio. In silenzio, distanti, salirono la scalinata di marmo, fino all’appartamento che spesso aveva ascoltato le ribellioni dell’uno e dell’altra a quel patto tacito che nessuno dei due chiamava “relazione”. Nulla era dunque stato davvero infranto se non il rispetto che entrambi avevano creduto reciproco.
Appena in casa, la ragazza sfilò il giubbino lasciandolo con familiarità sulla poltrona. Nella fluida accuratezza dei suoi gesti sommessi, svelava, consapevole, il risentimento che di lì a poco sarebbe fluito in un discorso essenziale.
«Sei un egoista, Vegeta.»
«Opportunista.» La corresse. «Avresti fatto lo stesso, se ti fosse servito.» Aggiunse.
«A te, invece, non è servito!» Lo prese in giro, il riferimento ai suoi lividi era chiaro. «Meriteresti una sculacciata.»
Non le rivolse nemmeno un sorriso forzato o un ghigno di sfida, raggiunse il divano e lì si sedette.
«Cosa vuoi, Diciotto?» Accese la televisione e senza interesse si rivolse allo schermo, terzo incomodo di una conversazione scomoda.
Erano già terribilmente lontani, come lo si può essere solo alla fine di una relazione non ancora annunciata ma chiarita da tempo. Eppure, di parole da dirgli lei ne aveva eccome; ma nessuna di questa sarebbe stata d’amore. Piuttosto, d’angoscia per l’incertezza di una promessa venuta meno e mai davvero suggellata.
Soffocava. Decise di aprire la finestra, seguita dall’ingombrante indifferenza dell’altro a cui doveva trovare aria. Servì solo a perdere le proprie parole nel clacson di una macchina di passaggio.
Vegeta non le sentì e non le chiese di ripetere; sarebbero state comunque inutili a cambiare il suo punto di vista.
Diciotto, con la schiena alla strada, le braccia puntate alla ringhiera odorosa di ruggine, lo osservava e attese invano. La brezza le soffiò sulla testa nuda e in quella carezza trovò l’illusione di sentirsi i capelli scompigliarsi sul volto, come chi ha perso un arto. Non le piacque e da quel soffio ebbe la spinta per sedersi sul divano anche lei. Fianco a fianco, non li aiutò ad avvicinarsi.
«Mancano i presupposti.» Commentò, saputo, Vegeta, che sfilò gli occhi dallo schermo per puntarli sul quadro cittadino alla finestra. Lasciò il divano e le posizioni si invertirono, con lei seduta al suo posto. «Poi non siamo mai andati fino in fondo. Mi pare questo suggerisca molte cose.»
Molto era lasciato ai pensieri, in quella conversazione tratteggiata in cui entrambi erano sotto il giogo della vergogna. Lasciar fluire ciò che ciascuno dei due sentiva era impossibile, né le loro lingue erano state allenate a raccontare amore, che dopotutto non avevano mai fatto! Blocco insormontabile questo, su cui scontravano le loro toccate spinte nel disamore che serbavano per se stessi e che non poteva essere scambiato nemmeno per passione. Non c’era mai stato un languido trasporto tra loro, quanto il bisogno disperato di imporsi l’una sull’altro, l’uno per l’altra, a leccar ferite piuttosto che pelle. Non sarebbero mai riusciti a curarsi. Non a vicenda, almeno. Alla deriva avrebbero dovuto spingersi, per salvarsi e, senza remore, aggrapparsi ma alle braccia di altri.
«Arrivare fin lì mi dà fastidio.» Rispose Diciotto, con una collera rivolta a qualcuno che non era in quella stanza. E non c’erano parole più semplici di quelle per descrivere una situazione familiare inadeguata.
«Non posso farci niente.» Replicò Vegeta a sua volta. Aveva provato ad aiutarla, ma per fare l’amore bisognava prima conoscerlo, l’amore, e lui non ne sapeva abbastanza da poter tergere la coscienza di qualcun altro. Si perdeva, in quegli attimi, tanto quanto lei ed entrambi finivano per ripudiarsi a vicenda, inappagati, affamati, dopo aver sudato di voglia e testosterone. Se per l’una era vergogna nel letto, l’altro vi trovava la propria pochezza.
Allora la rabbia li prendeva, per ragioni diverse ma nello stesso momento, e diventano una cosa sola e allo stesso tempo distanti, inappropriati. Arrivava quindi il momento di abbandonare il letto, sulla zattera però restavano: quel mare era immenso, e loro i porti lontani ma, soprattutto, inesistenti.
Tuttavia, insieme non avrebbero proprio saputo come nuotare avanti, se non per silenziose supposizioni.
«Dovremmo andarcene.» Disse Diciotto che serbava scarse speranze in quella proposta. Aveva preteso una salvezza che Vegeta non voleva darle, non poteva assicurarle; era abbastanza intuitiva da capirlo.
Al contrario, lui aveva avuto il coraggio di venderla a Cell, un affronto che però perdeva importanza se aggiunto agli altri: il buio non spaventa se ci si nasce e lei non aveva mai visto che quello. Pensò a suo padre. «Diciassette vorrebbe ucciderlo.» Aggiunse e, finalmente, qualcosa in lei si sbloccò e la rabbia defluì via, scorrendo nella prospettiva di un’allettante libertà. Tuttavia, la realtà tornò a ricordarle che i mezzi mancavano e la rabbia la raggiunse di nuovo. Ma in quale universo sarebbero stati forti abbastanza da ribellarsi?
«Accetta la proposta.» Disse Vegeta, cambiando discorso. Finalmente si staccò dalla ringhiera, e lei si staccò dal divano e insieme si ritrovarono in mezzo alla stanza, a guardarsi negli occhi. Agli azzurri di lei mancava di certo qualcosa; quelli di lui non avevano dolcezza. Sfumature di nero e di azzurro che già per loro splendevano nello sguardo di altri.
«Poi dove andremo?»
«Mi riferivo all’altra.»
«E tu?»
«Io non ho scelta. Ci sono già dentro.» Cacciò banconote e spiccioli dalla tasca dei jeans e tentò di lanciarli sul tavolino da tè, distante da lui pochi passi. Gli spiccioli caddero pesanti a terra rotolandosi per la stanza, le banconote, in mazzo, arrivarono disfatte a destinazione. Come sempre, la conversazione aveva preso altri scomposti flutti, per evitare l’impatto con le loro vere emozioni, che rimasero implose e inesplorate, ancora, per reciproca inettitudine. La forza, di cui avevano bisogno, mancava ad entrambi.
«Se Freezer lo scoprisse cosa direbbe?»
«Che comunque non sarebbe abbastanza.» Ci scherzò su tiepidamente, ma era vero che l’usuraio avrebbe chiesto sempre di più e di modi per pagarlo non ne aveva. E pensò che mentre suo padre era morto, lei avrebbe voluto il suo morto.
I due giovani rimasero vicini, le parole non dette ricaddero al loro fianco. La disperazione avanzò nella loro solitudine. Ecco, insieme, erano incapaci di farsi compagnia. Una consapevolezza che raggiunse a fulmine entrambi. Si sentirono soli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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