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Autore: Fissie    28/12/2008    11 recensioni
Il sole stava tramontando, adesso, e con lui, probabilmente, il ricordo di quella curiosa parentesi d’irrealtà.
Eppure il sole non c’era mai a Forks.
[ One-shot ispirata al rapporto tra Jacob ed Esme in Breaking Dawn ]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Esme Cullen, Jacob Black
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Breaking Dawn
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Bla…bla…bla…
Eh sì, sono ancora io. Di nuovo con una one-shot, per vostra gioia (?). L’ho scritta qualche giorno fa, ma non mi sconfinferava molto. Poi oggi l’ho ripresa, e, bah, non sono capace di migliorare le cose una volta che le ho fatte, quindi che senso avrebbe avuto tenerla nel mio hard disk in attesa che si riscrivesse da sola? La pubblico così, per com’è venuta (anche perché se la rileggo ancora la cestino XD).
E’ ispirata al rapporto tra Jacob ed Esme appena accennato in BD. Un’istantanea senza pretese di un pomeriggio qualsiasi – o forse no -, prima della morte rinascita di Bella come vampira.
Mi farebbe felice sapere cosa ne pensate! ^___^


Il Sole non c’era mai a Forks

Il cielo era sorprendentemente limpido, quel pomeriggio, nonostante fosse inverno.
La coltre di nubi dei giorni precedenti si era dissolta, lasciando il posto ad una gelida tonalità di azzurro. Ricordava una sconfinata lastra di ghiaccio dalla superficie cristallina. La luce solare, simile allo sfavillio freddo di un diamante, risultava amplificata, come se il cielo avesse le proprietà riflettenti di uno specchio e moltiplicasse i raggi che l’astro irradiava.
Socchiusi gli occhi, prima assottigliati nello sforzo di sopportare quell'insolito fulgore, e inclinai il capo.
La parete dietro la mia schiena era ruvida e l’umidità dell’erba impregnava già i jeans firmati – l’ultimo degli infelici capi d’abbigliamento costretti a espatriare dal guardaroba dei succhiasangue per immolarsi alla causa dell’ospitalità.
Che roba.
Ci stavo prendendo gusto a restituire i brandelli, però. L’espressione della succhiasangue formato tascabile – Alice? – era semplicemente impagabile.
Mi accomodai meglio, cercando di adeguare la mia posizione allo scomodo cantuccio.
Ero seduto contro la parete esterna di casa Cullen, tra i gradini che conducevano alla porta d’ingresso e la grande vetrata che si affacciava sul salotto. Una posizione strategica; potevo respirare aria pulita e, al contempo, sbirciare dentro per accertarmi che Bella stesse bene.
Bene. Che fosse ancora viva, soltanto questo. Almeno per i prossimi quattro giorni.
L’ormai familiare crampo al petto mi fece trattenere il respiro qualche secondo.
Cercavo invano di scacciare quel pensiero, ma ormai vivevo all’insegna dell’idea di perderla. Come un condannato a morte che, alla vigilia della propria esecuzione, non può pensare ad altro che al suo ultimo domani.
Prima che potessi sprofondare nella voragine della mia sofferenza, un’improvvisa ondata di puzza mi fece storcere il naso.
Bleah.
Non potevo neanche abbandonarmi serenamente all’autocommiserazione!
Riaprii gli occhi, dipingendomi in viso un’espressione incazzata che, però, decisi presto di mascherare con un più diplomatico fastidio – certe volte provavo a calarmi nei loro panni e immaginavo qualcuno bussare alla mia porta urlando “ehi tu! la tua casa puzza!”. Chissà se mi sarei limitato a dirgli di respirare altrove.
Quando misi nuovamente a fuoco, mi accorsi che la visuale era cambiata.
Sulla distesa candida del cielo adesso si stagliava la figura longilinea di Esme Cullen, la mamma di tutti i vampiri.
Evviva. Che bello.
Di certo non faticai a reprimere l’entusiasmo.
La donna – bè, l’essere – sfoggiava uno dei suoi disarmanti sorrisi e mi guardava come un’animalista può guardare un randagio.
Come un’assatanata, cioè. Pronta a riversare sulla povera creatura tutte le cure di cui non ha bisogno.
«Ti disturbo?», mi chiese, con una lieve nota titubante nella voce innaturalmente melodiosa.
, pensai. Stavo cercando di dormire, quindi gira i tacchi e porta la tua puzza immonda lontano dal mio naso.
Poi lei allargò il sorriso, e sulle sue guance si formarono quelle detestabili fossette.
Mi fregavano sempre.
«No», risposi. «Fai pure.»
Ecco, appunto.
Sospirai, pronto ad incassare le conseguenze del mio estremo sacrificio, mentre lei sfoderava un’espressione contenta. Come spesso accadeva negli ultimi tempi, mi chiesi che diamine le importasse di me. Forse percepiva il mio disagio e ne godeva sadicamente. Per forza.
Scese a piccoli balzi eleganti i gradini e, con un movimento aggraziato, si sedette al mio fianco.
«Ti ho portato degli indumenti», disse, allungandomi una cesta con degli abiti accuratamente ripiegati. Notai una camicetta a fiori impreziosita da ricami e merletti bianchi sugli orli e aggrottai le sopracciglia. «Alcuni sono per Leah», si affrettò a chiarire.
No, credevo aveste strane fantasie sui licantropi, pensai, ma non lo dissi.
Lei continuava a guardarmi con quello strano non so che negli occhi, un cipiglio che faticavo a definire con una denominazione conosciuta.
Il suo volersi prendere cura di me ad ogni costo mi provocava un moto di sottile fastidio. Urtava qualcosa nei recessi della mia mente e l’eco dell’impatto tornava a tormentarmi nei momenti di silenzio, che per fortuna erano pochi.
«Altro?», chiesi, con il tono più distaccato che conoscessi; quello che le rivolgevo sempre e che, purtroppo, non sortiva mai l’effetto desiderato. La mia ingratitudine sembrava non scalfire minimamente la sua vocazione alla beneficenza.
Inclinò la testa di lato, con un sorriso gentile appena abbozzato sulle labbra ed io sentii distintamente il bam che testimoniava un altro colpo andato a segno. Cento a zero per lei.
«Dentro c’è un cuscino», disse, porgendomi un fagotto di lana. «L’ho avvolto nella coperta per non toccarlo. E’ nuovo.»
La guardai allibito.
Aveva comprato un cuscino per me?
Oh, quella spesa non li avrebbe certo costretti a un mese di privazioni, ma…
Presi il fagotto e lo srotolai, appigliandomi all’idea che fosse un altro scherzo di Rosalie. Speravo di trovare un cuscino a scacchi irlandesi, con la tipica forma piatta e ovale di quelli fatti ad hoc per le cucce per cani.
Ma dovetti arrendermi.
Tra le mani avevo un cuscino di tutto rispetto – di piume d’oca, probabilmente, e non volevo sapere di che tessuto fosse la federa.
«Umph… non ce n’era bisogno…», borbottai, temendo che suonasse troppo come un “grazie, è più di quanto fosse necessario”.
La sua voce, però, si fece improvvisamente più seria e il suo viso meno ridente. «Per colpa nostra non puoi più tornare a casa. Questo è il minimo», disse, e nei suoi occhi lessi un dispiacere sincero che mi costrinse a sollevare bandiera bianca.
«Non è colpa vostra», chissà perché, mi stavo premurando di rassicurarla. «L’ho fatto per Bells… e non c’è niente… che non farei…», la mia voce si ridusse a un sussurro.
Sì, dai, confidiamoci con la quasi-madre del succhiasangue che mi ha soffiato la ragazza, ne ho proprio bisogno. Sorprendentemente, sembrò comprendere il mio imbarazzo e cambiò argomento – quindi non godeva del mio disagio, dovetti constatare, rinunciando all’ultima spiegazione accettabile del suo comportamento.
«Hai fame? C’è una bistecca, e del puré… Seth ha spolverato il resto.»
Di certo non si faceva pregare, l’ingordo.
Io invece declinai l’offerta, con grande risentimento del mio stomaco.
«Ma devi mangiare», ribattè la chioccia vampira, con una nota di severità nella voce, che sembrava… preoccupata?
Ebbi come l’impressione di un remoto deja-vù, il suono ovattato di uno schianto proveniente da un cassetto chiuso.
«Certo, certo», le accordai, ma la mia risposta – un automatismo fin da quando ero piccolo – ebbe solo l’effetto di amplificare il fastidio. Le sue premure rievocavano fantasmi invisibili nella mia testa, ma erano sfuggenti e impalpabili, non potevo afferrarli.
«Dico davvero. Non mangi da parecchio.»
Commisi un grave errore quando spostai lo sguardo dall’erba per incrociare il suo, color dell’oro fuso. Erano due pozze inaspettatamente calde ma fu quel sentimento indefinibile che vi lessi a sorprendermi.
Apprensione? Premura? Affetto?
Sapevo che non era dovuto a me. Probabilmente quello era solo un riflesso incondizionato della sua indole da crocerossina. Probabilmente in vita aveva lavorato in un ricovero per cani abbandonati ed io risvegliavo in lei chissà quali istinti.
Eppure, nonostante lo sapessi, qualcosa si incrinò.
«Va bene, smetto di asfissiarti», disse, facendo spallucce. «Ma se hai bisogno di qualcosa, non farti scrupoli. Devi solo chiedere. Puoi beneficiare di tutti i comfort di una casa. Letto, bagno, riparo, cibo… tutto ciò che desideri.»
Mi arresi, concedendole un mezzo sorriso accomodante. «Sì m…», l’eco remoto e distante di una voce infantile completò la frase nella mia mente: mamma.
Lo schianto fu più forte dei precedenti, la serratura si ruppe e il cassetto prima sigillato si spalancò, riversando il suo contenuto.
Centinaia di ricordi, fotografie dimenticate in un anfratto polveroso della mia mente, rimasero sospesi nel vuoto.
Devi mangiare, diceva la donna alta e bruna, sventolando l’indice a mo' di monito.
Certo certo, e il bambino sgusciava in giardino per andare a giocare.
La stessa donna lo guardava apprensiva, controllandogli la temperatura con tocchi gentili; poi gli rimboccava le coperte e gli dava un bacio.
Il bambino correva urlando “mamma!” verso la donna che lo attendeva china a braccia spalancate.
Gli sistemava il colletto del giubbotto all’infuori e faceva salire la cerniera fino all’estremità del bavero, sperando che fosse abbastanza coperto.
Inclinava la testa di lato e capiva più di quanto il figlio avesse voluto dirle.
Poi diceva “torno presto” e la porta emetteva un clang doloroso quando si chiudeva alle sue spalle e lui non sapeva ancora che non l’avrebbe vista mai più.

Serrai la mascella, aspettando che la fitta al petto scemasse.
La mia mente, intanto, completava il puzzle coi rinvenuti tasselli, e il cipiglio di Esme diventava materno, il fastidio, spogliato dell’insofferenza, si scopriva mancanza, i fantasmi nella mia mente assumevano i nomi di sensazioni antiche.
Un soffio di vento sollevò alcune foglie secche, facendole roteare in una spirale prima di depositarle poco distante dai miei piedi.
In che merda di situazione mi ero cacciato.
Cosa stava aspettando? Perché ancora non se ne andava? C’era una donna incinta nel suo salotto e lei si intratteneva col cane.
Appena formulai il pensiero, come se – per assurdo – fossi in simbiosi con la mostruosa protuberanza nel ventre di Bella, il mostriciattolo scalciò. Sentimmo Bella trattenere un urlo e la cricca di vampiri sopraggiungere accanto al divano per aiutarla a distendersi, nonostante i suoi tentativi irritanti di minimizzare il dolore.
Mi passai una mano sulla faccia, socchiudendo gli occhi, mentre rilasciavo un profondo sospiro.
Era così maledettamente difficile. Trattenermi dal fare qualcosa – ma cosa?
Essere a pochi metri dalla donna che amavo e guardarla morire.
Sapere che l’avrei persa, ma questa volta per sempre.
Inghiottire la consapevolezza che non c’era più niente da fare, adesso, insieme alla pungente domanda che mi raschiava la gola: avevo fatto tutto il possibile, quando ero ancora in tempo per farlo?
Sentii il tocco gelido della mano di Esme sul mio braccio e voltai appena il capo, quanto bastava per guardarla con la coda degli occhi.
Nonostante il freddo, che s’irradiava nel mio braccio dal punto in cui aveva posato la mano, non ebbi la forza di scostarmi.
«Dirò qualcosa di già detto, forse», esordì, con una vocina timida che poco s’intonava alla sua natura. «E, ti prego, dimmelo se le mie parole ti infastidiscono. Non voglio essere invadente.»
Tacqui e, in mancanza di mie reazioni negative, continuò: «Non è colpa tua. Non è un tuo errore, ma una sua scelta. Hai fatto tutto ciò che era tuo potere fare, non devi accusarti di nulla, Jacob.»
Eppure lei era riversa su un divano contando le ore che le restavano da vivere, ed io sapevo con lancinante certezza che avrei potuto darle una vita migliore. Io avrei potuto darle una vita.
«Certe decisioni… non sono spiegabili razionalmente. Tu saresti stato una scelta più sana, lo sa anche lei. E allora perché?»
Già. Perché?
Perché aveva scelto lui e non me?
Ero il suo Jacob, ma non ero abbastanza. Perchè?
«Ci sono forze nell’essere umano che non agiscono facendo ciò che è più giusto, o ciò che è migliore. Tu hai fatto più di quanto avrebbe potuto chiederti. Le hai dato l’opportunità di scegliere, e lei lo ha fatto. Le hai dato l’opportunità di non avere rimpianti, di non guardarsi indietro un giorno per scoprire cosa aveva perduto e non aveva afferrato quando era ancora in tempo. Per questo, adesso non ha paura delle conseguenze.»
Quando terminò di parlare, con un ultimo scampanellio della sua voce melodiosa, restammo in silenzio, ad ascoltare il fruscio sommesso delle fronde degli alberi.
Mi sentivo rinfrancato dalle sue parole, in un modo che non credevo possibile.
Per una frazione di secondo, riagganciandomi ai pensieri di poco prima, mi chiesi cosa avrebbe detto mia madre, se fosse stata ancora viva. E provai ad immaginarmela, seduta accanto a me, la pelle abbronzata e i lunghi capelli neri che ricadevano in onde leggere sulle sue spalle. Ma i contorni della sua personalità, del suo carattere, erano troppo labili e sfumati, inafferrabili. Tutte le possibili parole che sfilavano nella mia mente finivano per coincidere con quelle che Esme aveva appena pronunciato.
Avvertivo la sua presenza accanto a me e il contrasto delle nostre temperature corporee, ma non era più così spiacevole, in fin dei conti.
«Grazie», mi lasciai sfuggire.
Sentii la pressione della sua mano sul mio braccio aumentare impercettibilmente per sollevarsi.
«Sei un bravo ragazzo, Jacob», disse, scoccandomi un gelido bacio di pietra sulla tempia; appena un fugace contatto, così breve che non esclusi di averlo soltanto immaginato.
Un attimo dopo era già all’ingresso, con una mano docilmente posata sulla maniglia.
Il sole stava tramontando, adesso, e con lui, probabilmente, il ricordo di quella curiosa parentesi d’irrealtà.
Il sole non c’era mai a Forks.
L’orizzonte avrebbe inghiottito anche l’evanescente illusione di quel pomeriggio?
Ci guardammo ancora una volta prima che Esme rientrasse in casa.
«Torno più tardi con il cibo», disse, ancora sorridendo.
Poi il sole scomparve dietro l’orizzonte e la porta si chiuse con un clang.


   
 
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