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Autore: The queen of darkness    26/04/2015    0 recensioni
Quando la vita presenta ghirigori stranissimi prima di donare una felicità assoluta.
( questa storia è stata precedentemente cancellata per motivi di formattazione. Vi chiedo di portare pazienza; i capitoli verranno ricopiati e la storia procederà con lo sviluppo ideato precedentmente. scusate per il disagio.)
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il medico osservò, impassibile, il gruppo che aveva davanti: una donna dall'espressione costernata, un gracile ragazzino tremante e un grande, grosso afro-americano di bell'aspetto, il cui volto era però distorto dalla rabbia.
- Adesso lei ci spiega per quale motivo siamo stati per dieci ore in un'ala deserta di questo maledetto ospedale - disse quest'ultimo. Stranamente, la sua voce suonava perfettamente calma.
Prentiss si affrettò a posargli una mano sulla spalla. - Morgan, lascia perdere; ci pensiamo dopo.
- Pensarci dopo?!
Il medico fu sollevato da quell'improvvisa esplosione d'ira, in un certo senso: aspettare una reazione che non arrivava era di certo molto più stressante. Un uomo arrabbiato è un uomo prevedibile; un uomo controllato è un uomo pericoloso.
- Prentiss, sapevano che c'era un'agente dell'FBI sotto ai ferri e non si sono nemmeno presi la briga di controllare dov'eravamo finiti, maledizione!
- Morgan...Morgan, ascoltami: abbiamo sbagliato reparto. Ricordi? L'infermiera all'ingresso ci aveva detto che la sala era al terzo piano, e noi dobbiamo aver sbagliato direzione. Eravamo stanchi, Morgan. E arrabbiati - la donna lo scosse leggermente con voce conciliante, ma l'uomo sembrava non voler sentire ragioni.
Il medico era abituato a quel tipo di reazioni: aspettare di conoscere le sorti di una persona cara logorava i nervi e distorceva il carattere delle persone.
Ad un tratto vide il più giovane fra i tre avvicinarglisi; sembrava sconvolto, spaventato, ma si stava sforzando di non darlo a vedere.
- Mi scusi...le dispiace se ci allontaniamo?
L'uomo annuì e, in silenzio, gli fece strada.

***

Reid ascoltava, ma non era sicuro di sentire. Era come se gli avessero premuto dell'ovatta dentro alle orecchie. Vedeva le labbra del chirurgo muoversi, ma il suono giungeva solo molto tempo dopo, e distante.
- Le lesioni riportate sono gravi - stava dicendo l'uomo, - il proiettile è rimbalzato nel cranio e ha danneggiato il lobo temporale. Ha perforato l'osso ma, fortunatamente, è uscito.
"Fortunatamente?", pensò. Quando un proiettile entra, rimbalza ed esce, di solito, provoca danni così estesi da far sprofondare il paziente in uno stato vegetativo.
- Si è salvata per miracolo, se avesse perso anche solo una goccia di sangue in più non ci sarebbe stato più nulla da fare.
Reid, a fatica, tornò al presente.
- Mi sta dicendo che è viva?
L'espressione del dottore si fece preoccupata. - Adesso, sì. Ma non possiamo prevedere come reagirà ai farmaci, né se potrà mai riprendersi del tutto. C'é la concreta possibilità che rimanga un vegetale.
Ovviamente, il dottor Reid l'aveva immaginato; era stato il suo primo pensiero, addirittura prima ancora di realizzare di dover chiamare un'ambulanza: Eva respirava, certo, ma questo non significava che sarebbe sopravvissuta. Aveva un buco in testa ed era stesa su un lago di sangue: era già abbastanza sorprendente che avesse resistito all'operazione.
Ma Spencer, quella piccola ed irrazionale parte di lui, non voleva arrendersi. Non voleva pensare al fatto che l'unica donna che avesse mai ricambiato il suo affetto rischiasse - a causa sua - di passare il resto della propria esistenza attaccata ad un respiratore.
Si sentì nauseato da se stesso quando pensò cosa avrebbe fatto lui se Eva non si fosse svegliata mai più.
L'avrebbe assistita, certo. Avrebbe chiesto il trasferimento ad un ospedale di Quantico, le sarebbe stato vicino ogni volta che gli fosse stato possibile, avrebbe addirittura pagato le spese mediche - d'altronde, i suoi risparmi giacevano inutilizzati in banca, visto che non spendeva mai molto per sé. Ma solo ad immaginare il confronto con quel viso muto ed immobile gli annodò lo stomaco, e dovette appoggiarsi ad una parete per non svenire.
Non mangiava e non dormiva da quasi un giorno intero, ed era stanco. Esausto. L'attesa l'aveva provato più di quanto immaginasse, e la preoccupazione gli stava rosicchiando il fegato.
Con uno spiccato senso pratico, il dottore lo fece sedere su una sedia e fece per andare a prendergli un bicchiere d'acqua, ma Reid lo trattenne.
- Posso vederla?
L'altro scosse il capo. - Non ora, mi dispiace. Le farò sapere quando sarà possibile.
Detto questo, lo guardò allontanarsi.
Si prese la testa fra le mani. Era impotente: non era riuscito a salvare la donna che amava. In quei giorni, troppo preso dal caso e dalle indagini ostacolate sempre da mille problemi, non si era dato il tempo di guardarla, di accudirla come desiderava fare. Un incontro del genere capitava una volta su un milione: l'amica d'infanzia che viene assunta nella stesso posto di lavoro. Era sicuramente un'opera del destino.
Ma a che scopo? A che scopo farla tornare nella sua vita per poi allontanarla così crudelmente? Se si trattava di una punizione per lui, sarebbe stata doppiamente crudele, visto che coinvolgeva un'innocente.
"Saremo amici per sempre?", gli aveva chiesto. E lui non aveva risposto.
Si portò una mano alla bocca. Morse con tutta la propria forza.
- Reid!
Sentì una presa energica all'altezza delle spalle, ma ebbe qualche difficoltà a mettere a fuoco ciò che gli stava davanti. La spossatezza l'aveva assalito tutta nello stesso istante, facendolo ciondolare come se fosse privo di volontà; aveva bisogno di dormire, maledizione. Non gli importava dove, ma gli avrebbe fatto piacere se quelle mani enormi gli avessero lasciato appoggiarsi da qualche parte e cedere al sonno.
- Reid, dannazione, svegliati!
Morgan lo schiaffeggiò, ma il collega si rianimò appena. Imprecando fra i denti, colpì l'altra guancia con una forza leggermente superiore: gli avrebbe spaccato la mascella se necessario.
Era furioso con se stesso e vedere Reid in quello stato non fece che aggravare il suo stato d'animo.
Visto che il dottore sembrava seriamente intenzionato a crollare, lo trascinò di peso fino al bagno più vicino e, senza darsi troppa pena di essere delicato, aprì il rubinetto e gli ficcò la testa sotto al getto. Questa volta, il viso di Spencer si rianimò all'istante.
- Ma che diav...Morgan?! - il ragazzino emerse tossendo e sputacchiando.
- Buongiorno - ribatté, truce, appoggiandosi al muro con la schiena.
Con una smorfia, il più giovane esaminò la guancia arrossata, ma non disse nulla. Prese dei tovaglioli di carta e cercò di detergersi il viso come meglio poteva.
L'agente, guardandolo, non poté impedirsi di ripensare a poco prima, quando avevano finalmente incontrato un'inserviente, dopo ore che per quel corridoio non passava nessuno. Al solo pensare allo sguardo interrogativo della donna, Morgan sentì nuovamente la furia animarlo in ogni recesso del suo corpo. 
Aveva detto loro che quell'ala dell'ospedale era stata svuotata per dei lavori di ristrutturazione. Aveva detto loro che gli operai sarebbero arrivati nel primo pomeriggio. Aveva detto loro che era impossibile ci fosse una ragazza in sala operatoria, perlomeno non lì.
La cosa che lo faceva più imbestialire di tutta la storia era che era stata colpa sua; era stato lui a decidere la direzione da prendere. Ripensandoci in quel momento, si chiese per quale arbitrario motivo avesse deciso di mettersi in testa al corteo, dal momento che non aveva nemmeno idea di cosa stesse facendo. Ma certo che è questo il corridoio giusto, Prentiss, fidati di me: e così erano passate dieci ore.
Che idiota! Era assolutamente ridicolo, e avvilente: bloccati in una zona vuota, in apprensione per una donna che, probabilmente, non si sarebbe nemmeno mai più svegliata.
Patetico. Tutta l'oppressione che aveva provato pensato ad Eva, in quel momento si condensò all'altezza del petto, mischiandosi all'umiliazione del suo orgoglio ferito.
- È viva, Morgan - disse Reid, stancamente. Si strizzò un ciuffo di capelli.
- È viva, ma forse non ancora per molto. Il danno è grave ed esteso, è stato un miracolo farla respirare di nuovo; il medico ha detto che c'è la possibilità che rimanga in coma per sempre.
Morgan sospirò. - I medici dicono un sacco di stronzate.
Spencer non commentò. Appallottolò le salviette e le gettò nel cestino.
- Ho bisogno di dormire. Io...non riesco più a pensare lucidamente. Prima, in corridoio, ho chiaramente sentito il mio corpo cedere, Morgan; ero arrivato al limite, e non reagire mi stava facendo sentire meglio. Mi stavo accasciando e non mi importava affatto.
L'agente si passò una mano sul cranio rasato.
- Ti senti in colpa, e ti capisco. C'è qualcosa che devi dirle, ma non hai mai avuto il coraggio di farlo. Pensi di aver perso la tua occasione per sempre, adesso; hai persino pensato di starle vicino in qualunque caso, vero?
L'altro abbassò gli occhi.
- Ascoltami, Reid: non c'è niente che possiamo fare. Capito?
- Grazie per avermelo ricordato, Morgan - replicò l'altro, storcendo la bocca.
L'amico scosse la testa. - Devi cercare di riposare, hai bisogno di pensare ad altro.
Reid sapeva che era la cosa più saggia. La mancanza di sonno lo stava torturando da ore, ma finché la preoccupazione aveva prevalso, non si era accorto di quanto sentisse la mancanza di un letto caldo.
Senza dire altro, il dottore uscì dal bagno e cercò l'angolo più appartato che c'era nella sala d'attesa; in quella dov'erano prima, non c'era davvero nessuno e quasi rimpianse di non averne approfittato. Ora c'erano un paio di uomini, una signora di mezza età e un bambino di sì e no quattro anni.
Si rannicchiò sulla sedia arancione, spostò la cartella e si sforzò di chiudere gli occhi.
Questa volta, le immagini di Eva non tornarono a torturarlo e, con un sospiro di colpevole sollievo, si abbandonò ad un lungo sonno senza sogni.

***

L'ufficio di Erin Strauss era intrappolato in una perenne penombra. Hotch si chiese se la donna lo facesse apposta per intimorire l'interlocutore, o se si trattasse di un effetto collaterale creato dalla presenza dei mobili scuri.
Davanti a lui, la burocrate teneva entrambe le mani giunte posate sulla scrivania, e lo fissava; dopo le continue telefonate negli ultimi due giorni, Hotch sentì di detestarla dal profondo del proprio cuore.
- Considerazioni, agente Hotchner? - chiese infine, dal momento che l'uomo non diceva una parola.
La tattica che lei aveva cercato di usare era appena fallita. Hotch conosceva bene questo tipo di trucchi, e non era intenzionato a cedere, o anche solo a darle la soddisfazione di reggere la buffonata: voleva esasperarlo con un lungo silenzio e avrebbe preferito che fosse lui ad iniziare il discorso, ma il profiler non si era lasciato turbare.
- I colpevoli si sono tolti la vita, ma nelle nostre mani abbiamo uno degli esecutori materiali, e quel poco che gli resta da vivere lo passerà in prigione. Il caso è stato risolto.
- Avete quasi perso un'agente - replicò lei, tagliente.
Ecco, dunque, dove voleva arrivare. Era prevedibile, si disse, nulla di insolito. Ovviamente lui conveniva che il caso era stato un successo solo per modo di dire, ma era anche consapevole che la sua squadra aveva lavorato al meglio: in silenzio, fece pesare una tacita accusa (che mai avrebbe potuto esprimere, se teneva al suo lavoro) contro la Strauss e il suo improvviso bisogno di controllo.
- Eva Arcangeli è in ospedale, e ci sono buone probabilità che sopravviva - era un'esagerazione, ma sperò di cadere sul morbido - quindi, Miss Strauss, la squadra non ha perso nessun componente.
Le labbra sottili della donna, tirate sui denti, si corrucciarono.
- Resta il fatto che l'agente Arcangeli non sarà un grado di prestare servizio per molto tempo, e avrà davanti a sé una lunga convalescenza. Sempre che riesca a superare l'intervento.
Hotch diede segni di impazienza, si mosse sulla sedia come se stesse per alzarsi.
- La signorina Arcangeli non è un'agente, Miss Strauss; stava ancora seguendo dei corsi preparatori per essere autorizzata ad usare un'arma in caso di necessità, e non aveva nessuna intenzione di frequentare l'accademia. Come si è premurata di avvisarmi prima della sua assunzione, Miss Strauss, si tratta di una consulente.
La donna lo guardò a lungo. - Lei sa cosa voglio dire, agente Hotchner.
L'altro la fissò di rimando. La propria esperienza di profiler gli forniva indicazioni precise sul gioco che la sua superiore stava giocando: voleva intimidirlo, metterlo a disagio, far pesare la propria autorità, costringerlo ad umiliarsi e a rimettersi alla sua decisione.
Sicuramente il fatto che una donna inserita nella sua squadra, come agente o meno, avesse finito per rischiare la vita sul campo, senza peraltro esserne autorizzata, non giocava a suo favore. E l'insubordinazione della giovane era un fatto grave che, stando alla malignità della Strauss, poteva ricadere persino sul suo superiore: quando un capo non era in grado di tenere controllo i suoi sottoposti, poteva ancora essere considerato efficiente?
All'improvviso, Hotch si sentì stanco. Aveva dormito pochissimo, il caso gli aveva tolto ogni energia, e la questione che riguardava Eva aveva pericolosamente assorbito la sua attenzione. Non lasciò trasparire nulla per forza dell'abitudine, ma se avesse potuto avrebbe sospirato.
- Vuole la verità, Miss Strauss? Questa storia ha provato me, e tutti i miei agenti. Questo, però, non ha impedito alla squadra di rimanere efficiente durante tutta la durata della trasferta. L'improvvisa decisione di Eva Arcangeli è stata dettata da motivi a noi ancora sconosciuti, ma se vuole che io ammetta la mia parte di responsabilità, allora me lo dica esplicitamente.
Era stato più duro di quello che desiderava, ma le sue parole ebbero l'effetto sperato. La Strauss si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi per un istante.
- Entrambi sappiamo chi sia lei, eh? - raro episodio di umanità; Aaron decise di non reagire.
La donna proseguì: - Figliastra di un serial killer, sopravvissuta per miracolo, quoziente intellettivo fuori dalla norma...un genio dannato, per così dire. Anche se devo ammettere che assumere una persona non qualificata mi abbia sorpresa, devo riconoscere che ha fatto una buona scelta, agente Hotchner; dettata dalla necessità, certo, ma intelligente.
"Necessità" non era il termine corretto; la Strauss, un mese prima, aveva stabilito che la squadra aveva bisogno di un nuovo elemento, e gli aveva permesso di selezionare, fra vari fascicoli, dei candidati.
Eva Arcangeli gli era rimasta impressa per vari motivi: aveva fornito una consulenza esterna sul suo caso, ma non l'aveva mai incontrata. Eppure, nonostante non l'avesse mai vista di persona, aveva avuto il sentore che fosse una personalità interessante, e per questo su di lei era ricaduta la sua scelta. Quei due giorni avevano confermato alcune delle sue sensazioni, compreso l'episodio dell'insubordinazione, che gli aveva però fatto capire quanto un carattere caparbio e risoluto come il suo fosse, a tutti gli effetti, un'arma a doppio taglio.
Dal momento che la ragazza non aveva nessun parente in vita e si stava ancora riprendendo dallo shock delle sevizie subite, l'aveva sorpreso il fatto che avesse accettato subito l'incarico. Forse troppo in fretta, visto quello che era successo, ma era stata preziosa: era stato anche merito suo se avevano risolto il caso.
Eva, inoltre, gli aveva fornito la possibilità di evitare che la Strauss sguinzagliasse nella sua squadra marionette manipolate da lei. Non poteva sapere se avesse cercato di istruire la ragazza sui comportamenti da seguire, ma lei non gli aveva dato l'impressione di una persona facilmente malleabile.
- I suoi agenti sono a conoscenza del suo...passato?
L'uomo scosse la testa. - No, signora. È stata lei stessa a chiedermi di tacere.
Le sopracciglia della donna si sollevarono impercettibilmente. - Beh, non è poi così incomprensibile, dopotutto.
Hotchner non capiva il senso di quel colloquio. L'aveva convocato per esprimere delle considerazioni personali, voleva licenziarlo oppure imporgli un nuovo agente nella squadra?
- Non ritiene tuttavia opportuno che gli agenti sappiano con chi hanno a che fare?
La domanda non era stata posta con un tono insinuante, ma Hotch decise di misurare attentamente le parole.
- Purtroppo non c'è stato il tempo di familiarizzare più a fondo con i componenti della squadra, visto che è stato necessario partire immediatamente, ma se la signorina Arcangeli pensa che le sue vicende personali debbano rimanere segrete, io non ho nessuna voce in capitolo.
- Capisco... 
Eva Arcangeli non era un'agente dell'FBI, e mai lo sarebbe stata; allora perché il suo fascicolo era stato posato sulla sua scrivania? Per lavorare nella squadra era necessario far parte dell'ente governativo, avere una speciale autorizzazione oppure essere dichiarati idonei ad andare sul campo.
La ragazza non aveva nessuno fra questi requisiti. Si trattava di una "consulente", l'avevano presentata in quel modo, e lui era stato ben felice di sceglierla fra gli altri anche per questo particolare. E se si fosse trattato, invece, di una mossa che la sua superiore si aspettava lui compiesse?
- Agente Hotchner - stava dicendo la Strauss in quell'istante, - mi aspetto di ricevere i rapporti sul caso al più presto. Non mi è ancora stato possibile parlare di persona con l'autorità di Bergen, ma spero di poter contattare lo sceriffo nei prossimi giorni...non mi è molto chiara la faccenda riguardo Laure Dawson.
- Si trattava di un test, vero? - domandò, all'improvviso, Hotch.
Gli mancava un dettaglio fondamentale di quella vicenda, non riusciva a darsi pace. Perché Eva? Perché avevano fatto in modo che si unisse a loro proprio per quel caso?
La donna dovette sbattere le palpebre un paio di volte prima di accettare l'idea di essere stata interrotta.
- Come, prego?
- Lei ha fatto in modo che Eva Arcangeli ci seguisse perché sapeva che avrebbe disobbedito agli ordini e messo a rischio la squadra - disse, la voce dura, seguendo il proprio ragionamento. - Avrei dovuto immaginarlo...obbligata a prostituirsi dal patrigno, e coinvolta in un caso che trattava di prostitute morte.
- Non capisco di cosa stia parlando...
- Lei sperava che la squadra si sgretolasse una volta per tutte - suonò come un'accusa, invece che come una semplice considerazione.
Nonostante tutti gli anni in cui si fosse imposto un severo autocontrollo, Aaron non poté impedire alla rabbia di ribollirgli dentro. Erin Strauss valutò in pochi secondi cosa fosse più saggio fare: appoggiò con cautela la schiena alla sedia e strinse gli occhi a fessura con circospezione.
- Agente Hotchner, si sieda.
Hotch non si era accorto di essersi alzato in piedi, ma non aveva nessuna intenzione di obbedire. Nonostante gli sembrasse un quadro ridicolo, più ci pensava meno poteva ignorare il proprio istinto.
Erin Strauss aveva fatto in modo che lui scegliesse un soggetto instabile fra tutti gli altri candidati perché facesse fallire la squadra, o mettesse a repentaglio il loro lavoro. Così facendo, la Strauss probabilmente sperava di sgretolare una volta per tutte l'unità...ma perché ci teneva così tanto che la cellula più rinomata della sezione analisi comportamentale venisse annientata? Cosa la spingeva ad ostacolare in ogni modo il loro operato?
- Agente Hotchner, lei se ne rende conto meglio di me. Questo suo comportamento è inammissibile...stia pur certo che le conseguenze non mancheranno!
Nonostante l'autorità che ancora cercava di mantenere, la donna sembrava in difficoltà. Non sembrava preoccupata da quanto Hotch stesse facendo ma più che altro sussultava ogni volta che apriva bocca. Lui, nonostante non fosse affatto calmo, non era intenzionato a fare una scenata ma, in quanto profiler, doveva arrivare in fondo alla questione.
La sua conoscenza dell'animo umano, questa volta, dovette essere accompagnata dalla sua esperienza di burocrate.
- Lei non stava mirando alla squadra - disse, lentamente. - Lei voleva rovinare me.
La Strauss sbatté il palmo sulla scrivania. - Non dica sciocchezze! Si può sapere cosa le è preso?
- Se io fossi stato retrocesso a causa della mia negligenza sul campo, la squadra sarebbe stata di sua diretta competenza...avrebbe potuto nominare un nuovo supervisore, disporre di ogni singolo agente, e si sarebbe ricoperta di gloria per aver ridato efficienza all'unità...
Lo sguardo colpevole di Erin Strauss fu costretto ad abbassarsi. - Non ho idea di cosa voglia dimostrare.
Hotchner sfilò con estrema calma la pistola dalla fondina e la posò sulla scrivania.
- Lei ha sempre temuto che io cercassi di scavalcarla, Miss Strauss, e l'unico modo per neutralizzarmi era prendere il mio posto. Ma per retrocedermi avrebbe avuto bisogno di un valido motivo.
- Agente Hotchner, si rende conto della gravità... - cominciò lei, ma l'altro la interruppe.
Si tolse il distintivo dalla tasca interna e lo mise accanto alla pistola.
- Non posso permettere che i miei agenti risentano delle sue ambizioni personali, Miss Strauss.
La donna lo fissò dritto negli occhi. Il lieve tremore che attraversava la sua mano destra fu inutilmente celato: era appena stata scoperta. Era sempre stata una donna che puntava in alto, e aveva dovuto faticare non poco per raggiungere la sua posizione; ma ciò che l'agente davanti a lei stava per fare avrebbe gettato fango sulla sua coscienza per tutto il resto della sua vita.
Quando si trattava di minare grazie alla propria influenza l'azione della squadra, era pronta a scendere a patti con la propria morale, ma in quel momento, in un confronto diretto, era pressoché impossibile. Aaron Hotchner era un capo efficiente, aveva esperienza, sapeva trattare con le autorità locali e aveva un curriculum di tutto rispetto che avrebbe potuto aprirgli qualsiasi porta. Come avrebbe potuto spiegare lei, Erin Strauss, i motivi delle sue dimissioni ai suoi superiori senza compromettere la propria posizione?
Decise di giocare l'ultima carta con la forza della disperazione.
- Agente Hotchner - esclamò, ancora trafelata per quanto accaduto ma decisa a nascondere i propri veri pensieri, - lei verrà sospeso per tre settimane a causa della sua condotta inammissibile. La sua posizione come supervisore dell'unità verrà discussa al suo ritorno.
Impassibile, l'agente tolse anche la seconda pistola che portava alla caviglia e, come se non l'avesse sentita, lasciò l'arma accanto al resto. Le fece un cenno educato con la testa e, dopo essersi lisciato la cravatta, uscì dall'ufficio.

***

Eva era in piedi sotto al getto caldo della doccia.
Era una sensazione piacevole, ma notò che l'acqua le scendeva solo dal petto in giù; per qualche strano motivo, la testa non doveva essere toccata. E nemmeno il collo, o il viso.
Si insaponò lentamente, poi guardò la schiuma turbinare nello scarico fra i suoi piedi nudi.
- Sei proprio cresciuta - disse una voce maschile, dietro di lei.
Senza scomporsi, Eva uscì dalla cabina e si avvolse un ampio telo attorno al corpo.
- Sono passati anni dall'ultima volta che mi hai visto, dopotutto.
Lui se ne stava appoggiato alla parete del bagno, con estrema nonchalance. Era esattamente come lo ricordava: capelli brizzolati, sorriso lupesco, mascella scolpita e fisico asciutto. Il ghigno si allargò quando le fissò le gambe e, risalendo con lo sguardo, arrivò fino al volto.
- Ti sono mancato?
Eva lo conosceva troppo bene per essere ancora preda di questi giochetti e, inoltre, sentiva di non avere tempo da perdere. Le sembrava che tutto il periodo antecedente a quell'istante fosse solo una nube grigia. Ma c'era una cosa che doveva assolutamente ricordare o, in particolare, una persona: doveva impedirsi di lasciarla scivolare nell'oblio.
- Credevo fossi morto.
Lui fece spallucce. - Lo pensavo anch'io. Ma, a quanto pare, tutto è possibile.
Lei scosse il capo, spazientita, e le sembrò di avvertire una fitta.
- Cosa sei venuto qui a fare, papà?
L'uomo incrociò le braccia sul petto, e rise di gusto. Nel suo passato non riusciva a ricordare nessun dialogo del genere fra loro: non c'era mai stata confidenza e lei non si sarebbe mai sognata di chiamarlo "papà" (anche perché, a conti fatti, un mostro simile era tutto tranne che quello).
- Oh, bambina, è da così tanto tempo che non ci vediamo e mi tratti con così tanta freddezza? - disse, senza smettere di sorridere.
Eva fece un smorfia.
- Mi sei mancata, lo sai?
- Tu, invece, non mi sei mancato per niente - sistemò l'asciugamano sulla scollatura per impedirgli di vedere più di quanto volesse mostrare. - Allora? Cosa vuoi?
L'uomo non cambiò atteggiamento ma, come aveva imparato ad osservare quando ancora vivevano insieme, una tensione sottile scattò sotto alla sua pelle e gli fece vibrare ogni muscolo; se l'avesse provocato ancora, la molla sarebbe scattata. E allora sarebbe subentrata la violenza, l'aggressione fisica, il turpiloquio, lo schifo.
- Sai, tesoro - disse, con voce pacata, il suo patrigno - a quanto sembra, non riesci proprio a dimenticarti di me. Non ho deciso io di venire da te, mia cara. Ma non preoccuparti, restare non mi dispiace affatto.
Eva aveva l'impressione che il suo tempo stesse per scadere. Doveva farsi tornare alla mente quella persona, altrimenti non sarebbe potuta rimanere tranquilla; c'era una cosa che doveva farle sapere. Poteva sentire un sentimento forte che la legava a quella figura nebulosa persa nella vaghezza dei suoi ricordi, e fece di tutto per aggrapparsi a quel filo conduttore per rintracciare l'oggetto delle sue ricerche, ma le sue mani erano scivolose e continuava ad essere spinta lontano.
- Non ho molto tempo - Eva era risoluta, e parlò con voce sicura. - Non so perché, ma ho l'impressione che io stia per andarmene. Ma se tu sei qui vuol dire che c'è un motivo.
L'uomo fece spallucce. - Credi che ne sappia più di te? Forse una volta era vero; forse, all'epoca in cui tu ed io vivevamo sotto allo stesso tetto, ero davvero io il più forte. Ma chi si ricorda? Sembrano millenni fa!
La stava prendendo in giro. In realtà, lui sapeva benissimo che lei non avrebbe mai dimenticato di come, rifugiatasi ad Atlanta per sfuggire alla furia di una madre single alcolizzata, si fosse ritrovata nella tana del lupo: sevizie, torture, punizioni. Lunghe, interminabili ore segregata nella Cantina, dove lui si prendeva il proprio piacere ogni volta che lo desiderava. E come dimenticare, poi, l'umiliazione di ciò che l'aveva costretta a fare?
"Sù, bambina, va' a battere per strada come la puttana che sei!"
In un attimo, la stanza da bagno si distorse e assunse le stesse sembianze della piccola cella dove, appena quindicenne, rimaneva rinchiusa anche per giorni. La figura del suo patrigno le fu addosso, con la stessa espressione animalesca a cui era abituata.
- Non ti libererai mai di me - le sussurrò, portando la bocca vicina al suo orecchio.
Con un moto di disgusto, Eva si dibatté e urlò, ma il panico la paralizzava. Stordita da quel torrente di sensazioni, cercò di portarsi una mano alla fronte, ma si bloccò immediatamente: non poteva toccarsi la testa. Non ricordava perché, ma non poteva assolutamente farlo, altrimenti il dolore sarebbe stato atroce. Fece violenza a sé stessa, ma alla fine la mano si posò di nuovo a terra.
Il corpo dell'uomo la schiacciava al suolo, lei faticava a respirare a causa della paura. Sapeva, tuttavia, che stavolta qualcosa era diverso: c'era Lui. C'era la persona che amava.
Il mostro non avrebbe più potuto farle del male.
"Per ricordare quello che devo fare e la persona che amo, devo dimenticarmi di tutto questo."
Con uno scatto, Eva sollevò il braccio e premette la mano sul viso del patrigno, strinse le dita sulla carne e la sentì distorcersi come se fosse fatta di cera.
- Non è vero! - gridò. - Posso ancora vincere su di te!
Proprio mentre le sembrava di essere sul punto di trionfare, la scena cambiò: erano di nuovo nel bagno. L'unica differenza, questa volta, era che lo specchio era chiazzato di sangue.
Il suo patrigno si allontanò con un grugnito e si massaggiò le guance.
Eva aveva il respiro affannoso. Ormai non c'era più tempo, lo sentiva: la sua pelle formicolava e i bordi degli oggetti tremolavano come se fossero sul punto di dissolversi.
"Pensa, Eva, non puoi dimenticarti di lui. Non puoi farlo!"
- Ho vinto - ansimò.
Lui la guardò senza capire. Nel medesimo istante, la fece cenno di guardarsi allo specchio.
- Non sopravviverai - le disse. - Non con una ferita simile. Guardati la testa, Eva: sei maciullata. Irriconoscibile. Sai che cosa vuol dire questo? Che anche se mi dimenticherai, non servirà a nulla. Io e te moriremo insieme.
La ragazza si voltò e scoprì un viso che non le apparteneva. Un occhio era tumefatto, bluastro e gonfio, e rivoli di sangue le imbrattavano le guance e il collo. Sulla fronte si apriva un foro perfettamente circolare, scuro e profondo, e attorno la carne era bruciata.
Nonostante l'orrore, sapeva di non potersi permettere di sprecare altro tempo.
- Non mi interessa, scelgo di dimenticarti; se non lo farò, non potrò mai ricordarmi di lui. E ora, sparisci!
Non seppe dire dove trovò la forza, ma sferrò un calcio dritto al petto dell'uomo che le stava davanti il quale, il viso più sorpreso che sofferente, la fissò per un lungo attimo prima di venire scaraventato oltre la porta. Sentì il colpo vibrare lungo tutta la gamba, le ossa scricchiolarono e, con quel gesto, sentì uno strano senso di liberazione dilagarle nel petto.
A causa della forza d'urto la porta si richiuse, ma prima che la serratura scattasse Eva ricordò.
Sorrise. "Spencer..."
Poi tutto fu buio.


NOTICINA FINALE:
Buonasera a tutti!
Ci tenevo a dirvi che quando cominciai a scrivere questa storia il personaggio di Erin Strauss era ancora fortemente negativo, quindi vi prego di perdonarmi questa piccola sua versione. 
Piccola informazione di servizio: la storia sta per concludersi, mancano pochi capitoli (non so ancora con esattezza quanti, ma vi avviserò sicuramente prima della fine).
Grazie mille per la vostra attenzione!
Dark kisses.
  
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