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Autore: controcorrente    27/04/2015    3 recensioni
Metà del 1800. Soledad Blanca Escobar ha solo 8 anni eppure sa già quanto sia veritiero il significato del proprio nome e, forte dell'esperienza della sua famiglia, arriva a pensare che amore e matrimonio non siano compatibili. Soledad rinnega l'amore ed ogni forma di sentimento, ritenendolo causa di ogni sua sciagura...eppure sarà proprio un matrimonio combinato a farle capire quanto sia importante...sia pure a caro prezzo.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Violenza
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Benvenuti a questo nuovo aggiornamento. La vicenda ha degli esiti drammatici, come ho già spiegato ma spero di esprimere bene le emozioni dei personaggi. Scusate per il ritardo.

 

QUELLO CHE PIU CONTA

 

Tuttora, non so cosa accadde quella sera.

Ero così provata da non avere la forza di fare alcunché, così non opposi resistenza, quando il medico, per l'ennesima volta, venne a farmi visita. Lo guardai inerte, aprendo la bocca e respirando forte ad ogni suo comando. Non faceva alcuna differenza per me.

Ero un pezzo di carne che si muoveva ad ogni ordine.

Inspira.

Espira.

Inspira.

Espira.

-Bene, mademoiselle, abbiamo finito.- disse, chiamando Charlotte perché mi ricoprisse.

Mio padre non assistette alla visita ma, una volta conclusa, il medico si recò nello studio di questi, rimanendoci per un po'di tempo. -Mademoiselle, desiderate qualcosa?-domandò la mia cameriera.

Scossi la testa.

Benché debole, non bramavo nulla. Inspiegabilmente, persino l'idea di raggiungere la mamma era una sensazione che si stava indebolendo, come se ormai avessi perso qualsiasi voglia.

Le splendide cose che vedevo attorno a me non erano in grado di provocarmi alcun sollievo. Le sentivo estranee, come prive di qualsiasi scopo, per quanto raffinate fossero.Tutto quello che avevo non mi avrebbe privato del vuoto che sentivo addosso, per quanto lo desiderassi.

Era tutto finito ed in quella desolazione mi ero come rassegnata a quel tipo di languore.

Un tocco gelido mi accarezzò, togliendomi il respiro. Lo sentii attraversarmi dentro, come la lama di una spada. Non avevo ferite addosso, eppure sentivo qualcosa pungolare le piaghe ancora fresche. Era il dolore del ricordo, unito all'impossibilità di condividere la mia sofferenza con chiunque.

Charlotte inarcò la fronte. -Volete qualcosa di caldo?-domandò, fraintendendo.

Scossi il capo.

La cameriera mi accarezzò alcune ciocche di capelli. -Non dovete preoccuparvi per quello che è accaduto in sala. Succede, quando non una persona non sta molto bene. Ora però il dottore vi darà una cura e starete meglio.- disse.

Abbassai la testa. No, non sarebbe mai accaduto. Non esisteva alcun modo per guarire dal male che affliggeva il mio cuore. Non c'era posto per nient'altro che per la sofferenza.

Così pensavo, quando la porta si aprì improvvisamente. Vidi la mia cameriera alzarsi di scatto ed eseguire un goffo inchino. Il cuore accellerò di colpo.

-Lasciateci soli, Charlotte- disse.

Con la coda dell'occhio, vidi la gonna scura della donna sollevarsi e farsi sempre più piccola, fino a quando la porta non la richiuse, nascondendome alla vista. Il muscolo cardiaco martellava dentro, battendo contro la cassa toracica. Ero sola, insieme al mio carnefice.

-Ora che siete sveglia, è ora che mi rispondiate. Per quanto ancora perseverete con questa condotta?- disse, fissandomi negli occhi..ed ogni volta che lo faceva, non riuscivo a non rabbrividire.

Le iridi di mio padre erano scure, profonde come l'abisso...e tutte le volte che mi guardava, avevo come l'impressione di sprofondarvi dentro. A fatica, deglutii, sentendomi persa sotto quello sguardo così pesante.- Perché?- chiesi infine, sputando fuori le parole. Mio padre non rispose. Ogni volta che gli facevo quella domanda, opponeva un distante silenzio. Era come se non fossi degna di alcuna parola e non riuscii ad accettare quella realtà. Senza neppure pensare, mi abbattei contro, colpendo il suo torace. -Io ti odio. TI ODIO! E'colpa tua se ora non ho più la mamma...SEI CATTIVO!- gridai, dando fondo a tutta la rabbia che tenevo dentro. Non seppi dire quanto durò. Don Escobar mi lasciò fare per un po', aspettando.

Io non me ne avvidi, troppo presa dal mio spasmodico desiderio di farla pagare a quello che consideravo un mostro. La debolezza però cominciò lentamente a fare capolino, minando i miei propositi di vendetta puerile e ben presto mi ritrovai sfinita addosso a quel corpo per me odioso.

-Tutto qui?- disse improvvisamente l'altro- E'questo l'odio che dici di nutrire per me? Patetico.- Scattai verso l'alto, fissandolo con tutta la rabbia che avevo. Gli occhi di mio padre non mi abbandonavano, schiacciandomi con il loro peso. -Adesso, ti insegnerò una cosa. Non è l'amore il fondamento del consorzio degli uomini. E'l'odio. Puoi volere bene ad un altro essere umano, amarlo oltre ogni ragione ma come puoi dire che la cosa sia reciproca? Come puoi stabilire che la certezza che esso sia ricambiato da una profonda lealtà? Come puoi dire che quella persona, per la quale saresti disposta a rinunciare a te stesso, sarà degna di un simile sacrificio? L'odio, invece, non tradisce. Non inganna. Non ti mostra qualcosa di diverso da ciò che è. Rappresenta l'essenza più vera e profonda dell'uomo...ma tu non sei ancora in grado di odiare. Non hai provato l'abisso. Ma se trovi questa realtà così terribile, rivolgi pure quell'odio contro di me, nutrilo ogni singolo giorno della tua vita...perché questo è tutto ciò che puoi avere. A nessuno importa di te, non dimenticarlo mai.-

 

Non avrei mai scordato quelle parole.

Per molto tempo, mi chiesi come mai le avesse pronunciate. Don Escobar aveva molti difetti ma aveva il pregio di non dissimulare con me...e non perché non ne fosse capace. In realtà, era un abile mentitore ma non aveva mai rivolto questa capacità contro di me. Forse non ero così importante per meritarlo, chi può dirlo?

Mi immaginai nuovamente Cordoba ed il giardino interno della mia dimora, dove vivevo felice insieme ad Honor.

Honor...

Chissà cosa avrebbe detto di me, vedendomi in quello stato miserevole e privo di orgoglio?

Mi avrebbe guardato, scuotendo il capo, con quel dolce biasimo che aveva come per natura. Non lo avrei comunque saputo, dal momento che la mia colpa era oltre qualsiasi forma di perdono. Quel pensiero mi riempì di dolore. Niente avrebbe potuto realizzare quello che ritenevo il mio unico desiderio. Honor non c'era più.

Scossi la testa.

Don Escobar si allontanò da me, tenendo gli occhi fissi sulla mia magra persona. -Credete a ciò che desiderate. Non mi aspetto che voi abbiate un giudizio diverso da quello che avete appena detto...ed è meglio così, visto che l'amore e tutte quelle diavolerie non portano da nessuna parte. Se questa vita vi appare tanto detestabile, odiatemi. Odiatemi quanto il vostro piccolo e inutile corpo è in grado di fare...e sarà la vostra salvezza. L'odio non mente, benché sia spiacevole rispetto all'amore. E'un compagno che non tradisce mai.- sussurrò, prima di storcere la bocca in un sorriso privo di espressione -Se davvero ritenete la vostra vita senza alcuno scopo, aggrappati pure a questo sentimento che dite di nutrire per me. Attaccatevici come un mollusco allo scoglio, se ci riuscite...e chissà, se mai aveste successo, forse potreste farvi una vita vostra, senza di me. Chi può dirlo, però, visto che siete debole e storpia?-

Quelle parole mi punsero nel vivo, tanto da impedirmi di rispondere, mentre questi si alzava dalla sedia, lasciandomi sola, con quei nuovi pensieri che Don Ignatio, l'uomo che aveva rovinato tutto, aveva istillato in me.

 

 

Con lo sguardo perso in quella cameretta, così bella ed estranea, scrutai il paesaggio intorno a me, con crescente sgomento. Per mesi, avevo rimpianto Cordoba, le sue pietre cotte dal sole ed i suoi angoli bui, i suoi profumi e la scia morbida del fiume poco distante. Nella mente, rivedevo gli azulejos del cortile interno della mia dimora, dove la mamma era solita passeggiare.

La loro immagine mi accompagnava, pungolando ferite che non avevano bisogno di alcun tormento ulteriore. Provai a pensare a quei colori, così diversi dal freddo ambiente di Orleans. Erano vivi nella mia memoria ma, dopo il dialogo con mio padre, avevano assunto un calore diverso, una forma più soffusa e distante. Erano sempre lì ma cominciai a chiedermi la ragione di quel calore sempre più tiepido.

Mi stavo staccando da quei ricordi, lasciandoli dove si trovavano, in un passato che non mi era più possibile toccare. Nell'immobilità in cui mi trovavo, cominciai a chiedermi se qualcuno, a Cordoba, avrebbe mai sentito la mia mancanza. Donna Ines, l'unica persona che aveva avuto accesso alla ritiratissima vita di quel periodo, certamente viveva nella residenza di campagna che aveva ricevuto in dono da mia madre.

Honor ci andava spesso, quando poteva...tornando da lì, felice e serena.

Io la attendevo sempre sulla porta, insieme a Donna Ines e all'istitutrice che avevano preso per me, tentando di sorridere, senza riuscirci davvero. Sapevo che ad ogni ritorno corrispondeva una partenza...ed io, nella mia ingenuità, avevo capito che lei amava quei luoghi, più della dimora che mio padre aveva disposto per noi.

Quando le chiesi di potermi portare con lei, scosse il capo. Un giorno rispose, con un sorriso sulle labbra piene.

Honor non ebbe mai il tempo di mantenere la promessa ed io, per molto tempo, non seppi per quale motivo fosse così felice di andare là.

 

 

Quando mio padre se ne andò, avevo ancora le sue parole pronte a bombardarmi dentro. Non seppi dire quanto tempo passò, prima di scivolare nuovamente nel sonno.

 

Correre.

Dovevo correre.

I piedi battevano con forza a terra, seguendo le pietre del corridoio. Un ticchettio secco e intermittente, simile alla pioggia.

Vedevo la sagoma di Donna Ines sulla soglia, avvolta nel suo sobrio abito ma non fu quell'elemento ad attirare la mia attenzione. I miei occhi erano piantati sulla carrozza che se ne stava di fronte.

-Allora, mi raccomando, senora. Fate avere notizie non appena siete giunta a destinazione.- disse, con il consueto tono monocorde.

-Lo farò. Ora però devo andare.-mormorò mia madre, nascosta dentro il mezzo. Ciò che riuscii a vedere, mentre cercavo di raggiungerla, era l'abito color antracite che avvolgeva il suo corpo, come una pesante coperta ed una veletta sul viso, che celava la sua espressione. Mentre si allontanava, un raggio di luce passò attraverso la veletta, mostrando lati oscuri che prima non avevo notato.

 

Mentre fissavo laconica il paesaggio di Orleans, confrontando il calore di Cordoba con il fresco acquoso di quel lembo francese, pensavo alla dinamica degli eventi, al perché di tutto quel dolore. Sapevo che Don Escobar era un uomo cattivo, mentre mia madre una donna infelice e sfortunata.

Questa era la verità che avevo scorto presso i De Rossignol e nulla mi faceva dubitare del contrario...nemmeno il destinatario di tutte quelle accuse che, indifferente al mio odio, continuava a camminare sulla terra, senza mostrare pentimento.

Quel fatto mi appariva inaccettabile. Come era possibile che proseguisse la sua vita in quel modo, con quella felicità spietata? Ogni suo sorriso calpestava la memoria di Honor.

Il suo ricordo era un martello che mi percuoteva dentro...e continuavo a chiedermi perché quell'assassino fosse in vita, mentre la mia dolce madre non era più. Quell'ingiustizia mi riempiva di rabbia, alimentando una ferita che non poteva, né volevo, sanare.

Quel dolore era tutto ciò che potevo avere.

Cosa ne sarebbe stato di me, se avessi deciso di porre fine a quel sentimento?

Nulla.

Ero solo una bambina...e mi ritrovai a dover scegliere l'unica cosa che mi era stata concessa: l'odio.

 

Capitolo molto introspettivo ma spero che vi sia piaciuto. Gli aggiornamenti vanno molto a rilento ma sono sotto tesi perciò...bhé, vi ringrazio per avermi letto.

 

   
 
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