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Autore: Elfa    02/05/2015    1 recensioni
Gurthang non è un ragazzo come tutti gli altri. Probabilmente perchè in realtà è figlio di un Maia corrotto, o perchè si è risvegliato dopo secoli in una base militare nell'harad, quando avrebbe dovuto essere morto... quello che sa per certo, è che non vuole finire i suoi giorni a fare la cavia.
Intanto a Lasgalen Anarion, figlio di Legolas, è deciso a ritrovare la spada spezzata che uccise il suo fratellastro, quando 600 anni prima Sauron fu sconfitto, e che ora è stata rubata.
E in tutto ciò, i Valar sono ben decisi a non lasciare che gli equilibri della Terra di Mezzo vengano sconvolti di nuovo.
A qualsiasi costo.
-Sequel degli Eredi dell'ombra, cercherò di renderla comprensibile anche ai nuovi lettori-
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Legolas, Sauron
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Cap. 5: Tutti in caccia

Gurthang non si era fermato per tutta la notte, a tratti correndo, a tratti camminando, rendendosi conto ben presto che la sabbia non era certo compatta come la neve, affondando a tratti fin sopra la caviglia. Ora il sole stava sorgendo alle sue spalle, ne avvertiva già il calore sulla nuca, ma almeno ora era certo di muoversi verso ovest e quindi, sperava, verso il mare, anche se non sapeva bene se fosse la migliore delle idee andare da quella parte, ma era sempre preferibile che non inoltrarsi a caso nel deserto. Eppure, paradossalmente, perdersi in quel momento non era la principale delle sue preoccupazioni. Pensieroso, il ragazzo si grattò il polso sinistro. Sapeva che gli era stato impiantato qualcosa, un oggetto sottile e dalla forma quadrata, gli angoli smussati, che il giovane aveva la sgradevole sensazione si trattasse di un rilevatore o roba simile, il che significava che quella corsa era perfettamente inutile, se la dottoressa Winter sapeva esattamente dove stava andando. Non che quella fosse una certezza, ma bastava a mettergli una pulce nell'orecchio.
In cima ad una duna il ragazzo si fermò di colpo, fissando in basso, dove in una piccola conca si apriva uno specchio d'acqua color cielo quasi perfettamente circolare, circondato da palazzi bianchi e una striscia di alberi color verde scuro.
Il ragazzo si strofinò gli occhi, incredulo, rimanendo in piedi, a fissare quell'oasi da in cima alla duna. Deglutì, sentendo la gola secca e la lingua gonfia, le labbra screpolate. Si riscosse, cominciando a scendere, un po' correndo un po' ruzzolando giù per la duna, avvicinandosi veloce a quel complesso. I primi edifici che trovò parevano dei magazzini, ma non li osservò troppo a lungo, continuando a muoversi verso il lago, in cui entrò di corsa, muovendosi fino a quando l'acqua non gli arrivò alle ginocchia, prima di lasciarsi cadere in ginocchio e abbassare il viso a bere a grandi sorsate. L'acqua era fresca, anche se sapeva di pesce, ma non era in vena di preoccuparsi per il sapore. Bevve avidamente e si spruzzò d'acqua il viso e i capelli poi sfilò la maglietta sfilacciata e sporca di sangue, lasciandola fluttuare sulla superficie del lago mentre lui puliva con l'acqua fredda il petto e il ventre ancora sporchi di sangue incrostato.
Finalmente Gurthang alzò il capo ad osservarsi meglio attorno. Quel lago era molto grande e la maggior parte degli edifici si trovava sulla riva opposta, quelli che aveva passato erano probabilmente magazzini e anche rimesse per barche.
Uscì dall'acqua, senza recuperare la maglia squarciata, riguadagnando la riva e guardandosi attorno: poco distante da lui c'era un piccolo molo e una rimessa aperta, verso cui si diresse, gettando uno sguardo all'interno, dove si trovavano diverse imbarcazioni, forse danneggiate e in attesa di riparazione, il che avrebbe spiegato perché si trovavano lì, incustodite. Vi entrò, gustandosi l'ombra fresca, osservandosi attorno, studiando l'ambiente: c'erano degli armadietti, ma tutti chiusi a chiave e non gli sembrava il caso di scardinarli per frugare all'interno, su una panca qualcuno aveva abbandonato una cassetta per gli attrezzi. Aperta. Gurth non potè impedirsi di sorridere, mentre cominciava a frugare all'interno, fino ad estrarre un taglierino.
“Non uno strumento chirurgico, ma andrà bene...” Mormorò il ragazzo, parlando a sé stesso, mentre seduto sulla panca avvicinava la lama al braccio. Inspirò forte e strinse i denti, prima di incidere la pelle, ma all'inizio non fece nemmeno troppo male, cominciò a bruciare davvero solo quando il sangue iniziò ad uscire. “Ahi...” Il ragazzo gemette e strinse gli occhi, mentre infilava due dita nel taglio, a cercare quel quadratino metallico, quell'oggettino che praticamente scivolò fuori dalla ferita. Un semplice, sottile quadrato metallico, senza lucine o cose strane, poteva sembrare uno strano bottone. Il ragazzo si chinò a coglierlo da terra, tenendolo sul palmo per qualche istante, prima di alzarsi e uscire sul piccolo molo. Lo lanciò in acqua, mentre il sangue sul braccio già smetteva di uscire, mentre il suo corpo già rimarginava il taglio.
“Ben fatto.” Una voce lo fece sobbalzare e voltarsi di scatto, senza trovare nessuno alle sue spalle. “In basso.” Lo redarguì la voce, e il ragazzo ubbidì, abbassando le iridi blu chiaro sul gatto, seduto sul molo.
“Grandioso.” Sbuffò il giovane, roteando gli occhi verso l'alto. “Tutta questa fatica ed è un altro sogno...”
“Credevo avessimo appurato che non sono un sogno.” Fece quello, alzandosi sulle quattro zampe e guadagnando la riva. “Lavati il braccio.” Ordinò. “E poi seguimi, andiamo sull'altra riva. Hai bisogno di aiuto.”
“Oh, questo è sicuro.” Ammise il ragazzo, ubbidendo al gatto, lavandosi il braccio e poi seguendolo. “Ma cosa sei se non sei un sogno?” Chiese, standogli dietro, osservando quella coda cespugliosa ondeggiare davanti a lui.
“Tu cosa sei?” Rispose di contro il gatto.
Gurthang arricciò il naso. “Mia madre diceva che era maleducazione rispondere ad una domanda con un'altra domanda.” Replicò, imbronciandosi, quasi rischiando di inciampare nel gatto, quando questi si fermò di colpo, osservandolo con gli occhi gialli. Per qualche motivo, in quel momento al giovane quella creatura fece paura, ma ecco che poi gli rivolse uno dei suoi strani, inquietanti sorrisi.
“Qualcuno che conosceva tua madre. E tuo padre.”
“Legolas?”
“Sauron. Ma sì, anche Legolas.” Ammise il gatto, riprendendo a camminare. “Prima avevo un'altra forma. Molto diversa, in effetti.”
Gurthang tacque, continuando a seguire il gatto, senza osare, per il momento, fare altre domande, ma continuando a rimuginare, mentre aggiravano il lago.
“E conoscevi me? O Anie?”
Il gatto rise, o quantomeno emise un verso che Gurth interpretò come una risata. “No... voi siete un'altra generazione, non sono riuscito a conoscervi.”
Gurthang sbuffò, scuotendo il capo. “Non capisco perché non mi dici semplicemente il tuo nome. Devo continuare a chiamarti Gatto?”
“Un nome è solo un nome, Gurthang... E io ne ho avuti tanti. Gatto non è nemmeno il peggiore che ho portato.” Replicò quello, per poi restare in silenzio, senza aggiungere altro, continuando a camminare leggero, senza lasciare tracce del suo passaggio.

*

Lottie non era esattamente addormentata, diciamo che era più che altro lì lì per farlo, distesa a pancia in giù a bordo piscina, con gli occhiali a mosca che le coprivano gli occhi e i capelli rossi e ribelli costretti a forza in una treccia voluminosa fissata alla nuca, che sarebbe andata a puttane al primo bagno, ma almeno per quell'anno era decisa a non tornare a scuola con la schiena modello biscotto alla crema, con la panna tra due frolle scure. Sentì suo padre sbuffare, steso sullo sdraio accanto al suo, con un libro in mano e, lei ne era sicura, il fermo proposito di non divertirsi. Lo ignorò, sistemandosi meglio sulla sdraio, gli occhi chiusi. Lui sbuffò di nuovo e lo sentì alzarsi in piedi.
“Vado a fare una passeggiata, non riesco a star qui senza far niente. Tu vieni?” La chiese, e questa volta fu il turno di Lottie di sospirare.
“Papà, è l'ultimo giorno che passiamo qui. Non ti chiedo di divertirti ma per una volta vorrei evitare di tornare a scuola bianca come un lenzuolo!”
“Sei un elfo, Lottie.” Ghignò quello, osservandola. “Puoi stare al sole fino a rosolarti, ma sarai sempre abbastanza bianca da brillare nel buio.”
“Mezzo elfo.” Replicò lei, inacidita, senza alzare lo sguardo su di lui. Lo sentì ridere e allontanarsi. Lei sprimacciò inutilmente il cuscino gonfiabile e cercò di tornare a godersi la tintarella.
Forse si addormentò, perché non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato quando venne interrotta da qualcosa di peloso che le strusciava sui piedi. Sobbalzò, mettendosi a sedere e ritrovandosi a fissare un grosso gattone grigio bellamente seduto ai suoi piedi, la coda cespugliosa che si muoveva sinuosa nell'aria.
“E tu da dove spunti?” Sbottò, sorpresa, allungando una mano a carezzare il gattone dietro le orecchie, godendosi delle fusa piuttosto rumorose, guardandosi intorno, alla ricerca del proprietario.
“Gatto! Cavolo...” Era un ragazzo di forse un paio d'anni più giovane di lei, con arruffati capelli neri, scalzo e con addosso solo un paio di pantaloncini bianchi impolverati. Si avvicinò a lei, prendendo in braccio il gattone, che protestò pigramente smettendo di russare. “Scusa...” Borbottò il ragazzo. “Non so perché lo abbia fatto... non è così, di solito.” Le spiegò, tenendo in braccio l'enorme animale. Lei sorrise.
“Non c'è problema, mi piacciono i gatti. Come si chiama?”
“Gatto.”
“Originale...” Il ragazzino arrossì e lei ridacchiò. “Io sono Lothiriel. O Lottie, che è meglio. E tu sei...?”
“Gurthang?” Quella risposta sorpresa non arrivò dal ragazzo di fronte a lei, ma da una voce alle sue spalle, quella di suo padre, che stava dritto a qualche passo da loro, tenendo in mano due enormi bicchieri di frullato. Gurthang avvertì un'incredibile sensazione di anacronismo, mentre fissava Arwanar, in pantaloni e camicia di lino in stile esterling, coi capelli corti tagliati a spazzola che rossi com'erano gli davano l'aria di un fiammifero acceso. Sensazione che doveva condividere anche l'altro, considerato che lui stesso sarebbe dovuto essere morto. “Tu... tu...” Biascicò, riempiendo a grandi passi la distanza che li separava e rimanendo davanti al ragazzo, perplesso, con ancora in mano i due bicchieri, cosa di cui parve accorgersi solo in quel momento. Li posò sul tavolino tra le sdraio, senza parlare, voltandosi di nuovo verso Gurthang. E traendolo poi a sé, abbracciandolo, senza parlare.
“Mi... soffochi così, Arwanar!” Protestò il giovane, seguito dal gatto, che emise un lungo verso scandalizzato, trovandosi schiacciato tra i due. Arwanar rise forte, scostandolo da sé e prendendogli il viso tra le mani.
“Non sei cambiato... Come hai fatto a tornare? A farti mollare da Mandos?”
“Ora vorrei che mi mollassi tu.” Brontolò il ragazzo, allontanandosi di un passo. Arwanar lo lasciò, osservandolo mentre si muoveva nervosamente su un piede. “E' una storia un po' lunga...” Cominciò, esitante, lo sguardo a muoversi intorno, sulla gente che passava attorno a loro, apparentemente incurante di quei discorsi. “Renich Quenya, Arwanar?”

*

“Tu gli credi?” Lottie stava seduta sul letto, osservando il padre che rifaceva le valigie, mentre dal bagno arrivava lo scroscio dell'acqua della doccia.
“Non usare quel tono, Loth... anticipiamo la partenza solo di un giorno. Non mi sembra questa tragedia.”
“A te no di certo...” Masticò la ragazza, scontrosa, sciogliendo i capelli che teneva ancora sulla nuca. “Ma al di là di questo... un esperimento segreto dell'esercito?” Domandò retorica, alzandosi in piedi. “Una sfilata di cagate.”
“Linguaggio.” Brontolò l'altro, con un sospiro. “Conosco Guthang e conosco la sua storia. Dubito si inventerebbe una cosa del genere, tanto più che non ne vedo il senso.” Chiuse la valigia e la sistemò vicino alla porta. “Inoltre, e questa è un'arma che non uso spesso, sono tuo padre, quindi se dico che  torniamo prima e riportiamo Gurth a casa, si fa come dico io.” Tagliò corto, serafico, senza stupirsi quando lei uscì dalla camera d'albergo sbattendo la porta. Sospirò, scuotendo il capo, osservando per qualche secondo la porta chiusa, prima di accorgersi che il rumore dell'acqua era cessato.
“Mi dispiace darti problemi...” Il noldo sorrise alla voce del ragazzino, voltandosi verso di lui. Gurthang aveva ancora i capelli bagnati e un asciugamano sulle spalle, sopra una maglietta verde della squadra di rugby di Rohan un po' troppo grande, e dei bermuda tenuti su da una cintura, i piedi calzati in infradito ugualmente fuori misura. Arwanar ridacchiò piano.
“La tua fortuna è che i ragazzi di questo secolo si vestono sempre in maniera imbarazzante, Gurth.” Ghignò, per poi stringersi nelle spalle. “Comunque lascia stare: il carattere di Loth è pessimo e mi addosso tutta la colpa.” Spiegò, con una smorfia. “Non volevo essere come mio padre, ma temo che avrei dovuto usare il bastone un po' più spesso con lei.”
Gurthang non rispose subito, strofinandosi  i capelli con l'asciugamano e avvicinandosi a uno dei letti, pensieroso.
“Tu non vivi più a Bosco Atro, vero?” Chiese, assorto, senza smettere di asciugarsi. “Lei è mezz'elfa.” Osservò, sedendo sul giaciglio, mentre Gatto gli saltava in grembo. Sembrava aver deciso di comportarsi effettivamente come un animale, ma piuttosto che vederlo sparire e riapparire, il cambiamento non dispiaceva al ragazzo. Lo accarezzò, distratto.
“No.” Ammise il noldo, appoggiandosi alla parete, a braccia incrociate. “Mi hanno bandito da Lasgalen dopo che...” Non completò la frase, come in imbarazzo. “Ti ho fatto male?”
“Magari la prossima volta potresti puntare alla testa.” Propose il ragazzo, con un mezzo sorriso incerto, ma Arwanar rabbrividì.
“Mi auguro non ce ne sia il bisogno...”
“E... mio padre e mio fratello?” La voce di Gurthang era bassa, quasi un mormorio, ma stavolta il rosso gli sorrise.
“Stanno bene, tutti e due. Legolas è sempre piuttosto schivo, non appare spesso in pubblico. Ma Anarion...” Ridacchiò, andando verso il comodino del letto della figlia, la quale non aveva ancora nemmeno cominciato a radunare la sue cose, e prese una rivista patinata, che lanciò al ragazzino. “Tuo fratello è decisamente più mondano. Qualche settimana fa era a Minas, per il festival del cinema, una visita non ufficiale, ma negli ultimi anni è una presenza fissa. Lo hai mancato di poco.” Spiegò, mentre il ragazzo sfogliava la rivista, fissando le foto, con un sorriso vago a increspargli le labbra.
“Somiglia un sacco a papà...” Osservò, aggrottando poi la fronte. “Lei chi è? La sua ragazza?” Domandò, voltando la rivista verso Arwanar, mostrando una foto di Anie in compagnia di una donna in nero, coi capelli corti dalle punte tinte di blu. In quel momento, Gurthang si rese conto che, in effetti, Tìra non poteva essere sopravvissuta per sei secoli. Forse non era nemmeno sopravvissuta alla battaglia, ma non osava chiederlo.
“Ah, lei... nulla di ufficiale, solo pettegolezzi, ma pare di sì. Loth ha tenuto il muso per un sacco di tempo.” Ridacchiò, scuotendo il capo. “Ah, sono contento di non vivere più a Lasgalen... tuo fratello è deleterio per gli sbalzi ormonali di una sedicenne.” Arwanar scosse le spalle, raddrizzandosi. “Beh... sarà meglio che vada a cercarla... tu asciugati i capelli.” Uscì, lasciando gatto e ragazzo soli nella stanza.
Gurthang si voltò verso l'animale, confuso.
“Deleterio per... cosa?”

*

Rin sbadigliò, stringendo gli occhi, mentre dalle fessure della persiana filtrava la luce del sole. Aveva di nuovo passato una notte in bianco davanti al computer. E per nulla per giunta. Spinse indietro la sedia, scivolando sulle rotelle. Quello di cui aveva bisogno in quel momento era una buona colazione e qualche ora di sonno recuperato. Si avviò in cucina, senza troppa voglia di cucinare alcunché, limitandosi a riempire una ciotola di latte e cereali, ringraziando che per una volta non si era dimenticata il cartone del latte fuori dal frigo e sognando solo di buttarsi a letto, quando il computer, lasciato acceso come al solito, cominciò ad emettere un suono intermittente e fastidioso.
“Non ci credo!” Biascicò la ragazza, abbandonando la colazione e praticamente lanciandosi verso il computer, aprendo una delle finestre che aveva minimizzato, lasciando che il programma tornasse a riempire l'intero schermo. Il volto di Alma era incorniciato da un cerchio rosso, in mezzo a molte altre persone, catturata da una delle telecamere di sorveglianza all'aereoporto di Umbar. “Non ci credo...” Ripetè, con un vago tono tra l'incredulo e il vittorioso, infilandosi le cuffie e seguendola nel suo procedere lungo la hall, le dita che ticchettavano sulla tastiera.

Alma passò davanti ad alcune cabine telefoniche per le chiamate internazionali, fermandosi su una panchina proprio lì davanti. Uno dei telefoni squillò, insistentemente, senza che nessuno rispondesse. Forse il destinatario della chiamata non era arrivato all'appuntamento. La donna chiuse gli occhi, stanca, reclinando all'indietro il capo, sospirando rumorosamente, quando qualcuno le posò una mano sulla spalla, facendola scattare a sedere, sorpresa. Un uomo anziano la guardò, curvo, sbattendo le palpebre, prima di indicarle il telefono che suonava fino ad un attimo prima, con la cornetta sollevata poggiata sul ripiano al di sotto dell'apparecchio.
“E' per lei.” La informò, reggendo lo sguardo sorpreso di quella. “E' per lei.” Ripetè, scandendo bene le parole, forse credendo che quella non capisse la sua lingua. Alma annuì, avvicinandosi confusa all'apparecchio e portando la cornetta all'orecchi.
“Pronto?” Domandò, incerta, udendo dall'altra parte una risata.
“Cavolo, credevo proprio di averti persa!” La voce dall'altro capo del filo le era familiare, la stessa dell'hacker che l'aveva guidata all'interno della base. “Tutto bene?”
“Sì... sì.” Mormorò quella, trovandosi ad annuire. “E' andato tutto bene, nessun problema.” La rassicurò, prima di accigliarsi. “Come hai fatto a trovarmi?”
“Ah! Non è stato facile! Mi ci è voluto l'Occhio di Sauron!” Rise l'altra, allegra. “Ti spiego meglio quando ci vediamo. Stai tornando a casa, no?”
“Sì, ho appena preso il biglietto. Arrivo alle...” Si fermò, guardando il biglietto. “Diciassette. Mi mandi una macchina, così concludiamo in giornata?”
“Sento il gran capo che dice, ma penso non ci siano problemi. Allora ti richiamo io. Ciao.”
“A presto, allora.”

Rin riattaccò, togliendosi le cuffie come se scottassero, prima di attaccarsi al telefono di nuovo, febbrile, tanto che quando qualcuno rispose non gi diede nemmeno il tempo di parlare.
“L'ho ritrovata, Anie!” Esclamò, quasi urlando.
“Aspetta.” Le chiese. Ci fu un mormorio indistinto e il rumore di una sedia che veniva strusciata, poi silenzio. “Va bene, ci sono, hai ritrovato Alma?”
“All'aeroporto. Arriva nel pomeriggio, alle cinque. Sei libero o me ne occupo io?”
“Meglio che ci pensi tu... mio padre è rientrato nel periodo devi capire come si fa. Puoi farlo?”
Lei fece un verso di fastidio, roteando gli occhi in un gesto che lui non poteva vedere.
“Contatti umani... credevo di averne avuti abbastanza, per quest'anno.”
“Nerd.” Ridacchiò l'altro, sfottendola.
“Non sono io quella che ha il pupazzo di Yoda in casa.”
“Non è un pupazzo, è il costume originale.”
“Appunto. Comunque va bene, ma avanzo un tir di cioccolatini alla menta.”
“Vengo da te appena mi libero.” Promise il biondo, buttando giù la chiamata. Si addossò alla parete, passandosi una mano sul viso. Era quasi finita, finalmente... ora non restava che sperare che tutto quel balletto portasse a qualcosa di concreto. Qualcosa che potesse giustificare a suo padre il rischio e la spesa.

*

La dottoressa Winter si chinò sul piccolo quadratino di metallo che giaceva sul pavimento macchiato di sangue della rimessa.
“Allora?” Il generale Cassidy le arrivò alle spalle, fermandosi  dietro di lei, osservandola mentre studiava la trasmittente, il rilevatore che suonava come impazzito. La donna lo raccolse da terra, spegnendolo.
“Allora... il ragazzo non è qui.” Ammise, mostrando nel palmo della mano la minuscola trasmettente che avevano impiantato a Gurthang. “Almeno, non esattamente qui. Ma qui intorno c'è solo deserto... sarà ancora da qualche parte all'interno dell'oasi. Fate ispezionare  il luogo. Salterà fuori.” Si voltò verso il lago, osservandone la superficie pacifica, e le costruzioni sulla sponda opposta, stringendo la trasmittente nel pugno. “Almeno spero tu lo faccia...” Ammise, rivolta al vento, la voce bassa.

Il complesso era grande. Molto grande. Era evidente che controllarlo tutto non sarebbe stata questione di poco. La dottoressa pigiò il tasto del caffè espresso sulla macchinetta nell'area ristoro per i dipendenti e si passò una mano sul viso, mentre il distributore erogava il liquido scuro in un tristissimo bicchierino di plastica. I soldati ancora stavano perquisendo il villaggio turistico ma ormai la donna dubitava che fossero arrivati in tempo e nutriva maggior speranza nelle altre due squadre, addette l'una alla visione dei filmati di sicurezza e quella che interrogava ospiti e staff. Bevve il caffè caldo, scottandosi la lingua e senza sentire il sapore, allontanando il bicchiere dalle labbra con una smorfia, di umore pessimo: quella faccenda stava diventando una grossa gatta da pelare... anche solo le varie ambasciate avrebbero chiesto la testa di quell'idiota di Cassidy su un vassoio e lui avrebbe offerto quella di lei per salvarsi il sedere. Nell'ipotesi migliore, lei rischiava di vedere distrutto il lavoro di tutta una vita, e nella peggiore la Difesa non l'avrebbe coperta... l'avrebbero accusata di aver stornato fondi statali per le proprie ricerche illegali, sperimentazione umana su minori a fini bellici... ne avevano abbastanza persino per la corte marziale!
Strinse il bicchiere nel pugno, facendo scricchiolare la plastica scadente e poi lo gettò nel cestino con fare stizzoso.
“Dottoressa?” La donna si voltò al sentirsi chiamare, osservando un soldato semplice ritto sulla soglia della stanzetta. “Ho l'ordine di accompagnarla dal generale: hanno trovato qualcosa.”

Elanor fissò l'identikit dell'uomo che un inserviente aveva visto parlare con Gurthang. Un elfo, a dire la verità, Noldo a vederne i tratti, e con la fortuna che si ritrovavano, probabilmente non uno dell'ultima generazione.
“Sapete chi è?” Domandò la dottoressa, assorta, senza alzare gli occhi dal disegno.
“Non ancora.” Ammise Cassidy, aprendo una bottiglietta d'acqua e traendo un sorso. “Ho detto ai ragazzi di controllare i registri del complesso, ma ci vorrà tempo...” Fece una pausa, osservando la donna. “E noi tempo non ne abbiamo.” Puntualizzò, battendo il dito sul foglio che la donna ancora studiava. Lei sollevò lo sguardo sull'uomo, seria.
“Che mi state chiedendo, Cassidy?” Chiese, arricciando il naso. Quello sbuffò, impaziente.
“Data la situazione, io non mi fido di nessuno, Dottoressa, ma voi qui avete da perdere quanto e più di me. La mia domanda è... riuscite a trovarmi questo tizio in tempi brevi?” Chiese, spiccio. Elanor fissò il generale, poi di nuovo il disegno, annuendo piano.
“Sì... forse ho qualcosa.” Ammise, a voce bassa.
 
  
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