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Autore: Ortensia_    02/05/2015    0 recensioni
In cui sono passati due anni da quando Mayuzumi ha cancellato dai propri file "Gli occhi del Diavolo" ed ora si trova alle prese con uno scrittore emergente che sembra essere entrato in contatto con Akashi e tormentato dalle prospettive di un futuro di buio e isolamento.
[Partecipa al contest "Progetto: Ripopola Fandom – Seconda edizione" indetto da __Bad Apple__]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Chihiro Mayuzumi, Shuuzou Nijimura
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Gli occhi del Diavolo'
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Autore: Neu Preussen
Titolo: La campanella dell'angelo
Personaggi: Mayuzumi Chihiro e Nijimura Shuuzou
Pair: nessuno
Bonus utilizzati: Mayuzumi Chihiro
Tipologia: //
Generi: introspettivo; angst
Avvertimenti: AU; tematiche delicate (trattate altrettanto delicatamente); spin off de "Gli occhi del Diavolo"
Note: //
Nda: La nascita di questo spin off è stata puramente casuale, in verità l'idea di scrivere qualcos'altro che fosse legato all'universo de "Gli occhi del Diavolo" non mi era mai passata per la testa, almeno finché non mi sono iscritta ad un contest per il quale avevo il compito di realizzare una AU che avesse come protagonisti Mayuzumi e Nijimura.
Nessuno mai penserebbe ad un duo simile (ma io sono talmente malata che stendendo questa shot ho cominciato a shipparli, emh), però c'è qualcosa, o meglio qualcuno, che fa da filo conduttore fra i due, e questo è proprio Akashi, quindi è proprio da qui che è nata l'idea di realizzare uno spin off ambientato nell'universo de "Gli occhi del Diavolo" e che trattasse la rivalità fra Mayuzumi e Nijimura.
Come si sarà capito, questa one shot doveva essere presentata (insieme ad altre quattro) ad un altro contest, ma su sollecitazione di mia madre, che ha notato quanto poco tempo passassi a studiare pur di scrivere, e anche su sollecitazione mia, perché sapevo che sarei arrivata a fine maggio seriamente esaurita, ho deciso di ritirarmi dal contest per il quale dovevo creare questa shot. Quando mi sono ritirata avevo già scritto la prima parte, e siccome mi dispiaceva lasciarla fluttuare sul desktop del pc, ho deciso di provare a finirla in tempo per questo contest. Francamente è un periodo in cui sono davvero poco ispirata, ma per fortuna, in un impeto di volontà estrema (?), sono riuscita a finirla in tempo (e stranamente sono pure soddisfatta).
Breve premessa: sono passati due anni dagli eventi de "Gli occhi del Diavolo", per cui ritroviamo un Mayuzumi un po' diverso, un esule alle prese con l'idea di una dolorosa realtà incombente e che ormai sembra saperne più in fatto di moda che di libri.




La campanella dell'angelo





Non so bene come sia successo, ma dopo aver trascorso quasi quattro mesi a nascondermi dietro un muro edificato sulle fondamenta del rigetto, dopo tutte quelle settimane passate a ripetermi che Akashi era ancora lì con me, Ikeda-san e Ogiwara mi hanno convinto a consultare uno psicoterapeuta.
Se devo essere sincero non ho mai nutrito particolare ammirazione nei confronti di tutti quei mestieri che cominciano con il prefisso psico: ho sempre pensato che si trattasse di una categoria di ficcanaso con una mente limitata dai paraocchi della medicina, che in verità fossero persone insensibili ai problemi altrui e che considerassero i loro pazienti più come degli automi da riparare, piuttosto che corpi di carne a cui far passare la voglia di morire e anime da ricucire insieme, ma dopo tre mesi di terapia mi sono dovuto ricredere.
Se oggi, passati due anni da quando ho scritto ed eliminato dai miei file Gli occhi del Diavolo, mi trovo qui in Hokkaidou e mi sono riconosciuti molti meriti per Il vento tra le foglie, - il mio ultimo romanzo -, lo devo proprio al mio psicoterapeuta.
Tuttavia, i meriti mi sono riconosciuti più che altro dai mass media, e non dai lettori, perché da quando mi sono trasferito a Sapporo è come se fossi scomparso dal panorama nazionale e ho perduto molta della fama di cui godevo in passato. Non che sia un problema, visto che della fama non mi è mai importato niente. In realtà, da quando ho smesso di passare interi pomeriggi a promuovere i miei romanzi e a firmare le copie dei miei lettori, sto molto meglio.
Il mio psicoterapeuta mi ha consigliato di trasferirmi in un luogo meno affollato e caotico di Tokyo, dove potessi rilassarmi e lo stress apportato dal lavoro risultasse meno soffocante, quindi ho acquistato una modesta casetta a Sapporo; tuttavia penso che questa sua intuizione sarà valida ancora per poco.
Per tutto questo tempo, i miei occhi hanno continuato a risentire degli sforzi della scrittura e circa un mese fa mi è stata diagnosticata la neuromielite ottica. In poche parole: perderò progressivamente la vista fino alla completa cecità.
Fino a che ne sarò in grado, è mia intenzione continuare a scrivere, ma prima c'è una questione ancora più importante che devo risolvere: sono ormai due mesi che aspetto di incontrare una persona. Nijimura Shuuzou è uno scrittore di Ousaka che, secondo le mie ricerche, ha debuttato circa dieci anni fa con un libro intitolato La campanella dell'angelo, ma che ha cominciato a ricevere i primi riconoscimenti soltanto adesso, dopo aver pubblicato un romanzo che in pochi mesi è stato considerato un vero e proprio capolavoro, un successo mondiale.
Circa due mesi fa, Nijimura ha cominciato un tour per promuovere il suo nuovo libro, quindi ha visitato alcuni capoluoghi dell'isola e oggi arriverà qui a Sapporo.
Normalmente non prendo neppure in considerazione l'idea di avvicinarmi agli altri scrittori, ma con lui sento di avere un grande e grave conto in sospeso. Non so neppure che faccia abbia, ma penso di odiarlo.
Il suo romanzo si intitola Gli occhi del Diavolo e ha come protagonista Akashi Seijuurou, il mio imperatore.
È come se avesse estrapolato dalla mia mente tutto ciò che ho scritto e abbia deciso di traslarlo nel suo romanzo, è come se Akashi sia tornato in vita e abbia scelto lui, forse perché è meno imperfetto di me e quindi merita la sua vicinanza più di quanto non ne sia degno io, che sono stato abbandonato nella mia solitudine e con i miei occhi malati. Sì, lo odio con tutto il mio cuore.
Ascolto il ticchettio distinto e costante delle lancette dell'orologio da parete e alzo lo sguardo, trattengo il respiro e rimango seduto ai piedi del letto: sono già le otto e quaranta e mi sento incapace di muovermi, la noia che mi provoca l'idea di uscire mi pesa sulle palpebre e la sensazione di grave frustrazione che mi affligge da settimane intorpidisce le mie membra, che penzolano mollemente fra le gambe divaricate.
Sfiato sommessamente e affondo le mani nel materasso, sento il tessuto sottile del copriletto che si sgualcisce fra le dita e mi alzo lentamente.
Sistemo il colletto della camicia bianca in popeline e stringo appena il nodo della cravatta di seta a tinta unita nera, afferro il blazer color antracite posto sullo schienale della sedia e lo indosso in fretta, inserendo i bottoni argentati nelle asole morbide del giacchetto, poi mi chino e infilo i mocassini di vernice scura.
In questi due anni di saltuaria scrittura ho cominciato a provare una certa attrazione verso l'alta sartoria, quindi ho imparato molto su tessuti e gradazioni di colore - adesso, ad esempio, so che i miei capelli non sono grigi, ma hanno una colorazione che sfuma dall'argento al grigio cadetto -. Acquistare capi di abbigliamento pregiati e sofisticati è un modo come un altro per spendere il denaro che guadagno con la scrittura e per dissipare i dispiaceri della vita, o almeno credo che sia per questo se mi sono appassionato ad un settore che sta a cuore più che altro ai figli di papà.
Prima di varcare la soglia della camera da letto, mi fermo davanti all'alto specchio sorretto da un cavalletto in legno dorato e strattono leggermente il blazer per eliminare le pieghe attorno ai bottoni, infine mi dirigo a passo rapido e nevrotico verso la porta di uscita e mi arresto di fronte all'attaccapanni, indossando in fretta il lungo cappotto in tweed blu notte.
La mia meta dista circa un quarto d'ora a piedi, quindi è molto probabile che durante questo lasso di tempo Nijimura giungerà alla libreria e comincerà a firmare le prime copie del suo romanzo.
Con un mezzo pubblico potrei risparmiare almeno cinque minuti, ma francamente non ho la minima intenzione di ritrovarmi intrappolato in una soffocante bolgia di pendolari, con le loro mani sudaticce aggrappate ovunque, le loro voci arrochite di polemiche nelle orecchie e l'odore pungente di naftalina che impregna i loro abiti ad attanagliarmi le narici. In occasione di una simile giornata, in cui mi basta ricordare dove sto andando e verso chi mi sto dirigendo per ritrovarmi con i nervi a fior di pelle, l'ultima cosa di cui ho bisogno e la prima che voglio evitare sono proprio le persone .
Continuo a procedere a piedi, e in verità non ho fretta, né l'idea di un eventuale ritardo mi angoscia, questo perché mi sono appena ricordato che per l'occasione mi è stato offerto in omaggio un piccolo biglietto cartonato che mi permetterà di saltare la fila e parlare in privato con Nijimura - una sorta di passepartout monouso, tanto per capirci -. È una fortuna che indossassi questo blazer nel momento in cui mi è stato dato il biglietto, altrimenti lo avrei sicuramente dimenticato a casa e me ne sarei ricordato soltanto dopo essere arrivato alla libreria, tormentato dalla prospettiva di avere di fronte ai miei occhi una fila interminabile di persone e di essere insignificante esattamente quanto loro.
Ultimamente sono troppo distratto e pare che ora mai, oltre ai miei occhi, si sia offuscato anche il cervello.
Credo che nelle mie condizioni sia normale, dopotutto mi rendo conto di cosa possiedo e di cosa non avrò mai. Ostento una ricchezza di spirito attraverso il mio abbigliamento, eppure sono soltanto un trentenne che molto presto perderà la vista e si porterà nella tomba soltanto vaghi e amari ricordi di un successo perduto e di una vita condotta in solitudine.
Credo sia normale sentirsi soli, soprattutto quando l'unica compagnia di cui puoi godere è il riflesso del tuo viso sfatto nello specchio.
Anche le anime più aride, proprio come la mia, prima o poi si ritrovano a mendicare l'amore altrui, e desiderano essere apprezzate non per il loro nome, non per i loro abiti o, nel mio caso, per quello che scrivono; desiderano essere apprezzate per come appaiono se denudate della loro esperienza e della loro cultura, in poche parole per la loro indole, che essa sia quella pura di un agnello o quella ruggente di un leone. Esistono anime che sono rimaste bambine, intrappolate nella dimensione della fiaba, e hanno soltanto bisogno di essere rassicurate e di sapere che qualcuno le ama profondamente, indipendentemente da tutti i difetti che si trascinano appresso come il più infimo dei vagabondi fa con i suoi cenci grigi.
Io sono un esule, e come tale penso spesso che dovrei tornare a casa, ma casa che cos'è? Non mi sono mai sentito al sicuro in nessun posto, tanto meno in una città caotica come Tokyo. Casa è solo un luogo da osservare da dietro un finestrino, è un gomitolo di serpenti attorcigliati che soffiano e mi legano le caviglie con le loro code sottili e robuste. Casa è semplicemente il veleno che mi scorre nelle vene e il pianto di una madre che riecheggia nei miei dormiveglia.
Il mio passo è talmente rapido e nevrotico da condurmi alla libreria in breve tempo: è così piccola che basterebbero quindici individui per costringere un sedicesimo a dover attendere fuori, tanto è vero che sembra colma di persone anche adesso che al suo interno ce n'è soltanto una decina.
Non ci sono molte librerie a Sapporo, - almeno secondo il mio punto di vista, che è ancora visceralmente legato agli "sfarzi" della capitale -, e questa non è certo una delle migliori, per cui mi chiedo come mai Nijimura l'abbia scelta per presentare il suo - mio - romanzo.
Mi soffermo per un istante sui volti dei presenti, e mi rendo conto di quanto credito abbia perduto l'immagine del lettore medio, considerando che ora, rispetto a molto tempo fa, la varietà è ampia e i volti che si scorgono fra gli scaffali polverosi delle librerie possono appartenere a bambini e bambine, ragazzi e ragazze, uomini e donne o anziani e anziane.
La mia riflessione dura un istante, perché non mi trovo qui per queste persone riunite in crocchi disordinati e caotici, ma per un solo individuo con un nome e un cognome ben precisi, un mio rivale, un ladro di idee segrete.
Mi fermo, affondo i denti nel labbro inferiore e socchiudo gli occhi quando la saliva si insinua nei tagli sottili causati dall'arsura e li fa bruciare, poi sollevo le palpebre tremanti e dischiudo la bocca in un sospiro sommesso: Nijimura Shuuzou è proprio di fronte a me.
Nonostante io abbia soltanto un anno in più, lui, con il suo viso pallido e la pelle distesa, gli zigomi alti e le labbra carnose, pare un adolescente, piuttosto che un ventinovenne.
Appena gli giungo di fronte, interrompe la sua conversazione con quella che so essere la proprietaria della libreria e si volta verso di me - deve vantare sensi sopraffini, se è riuscito a percepire la mia presenza così in fretta -.
Lo guardo - e mi rendo conto che è più alto di quanto avevo immaginato e che, a dirla tutta, è anche molto bello -, poi gli mostro il mio passepartout con un rapido cenno della mano.
«Sono Mayuzumi Chihiro.» e mi basta vedere la sua espressione per comprendere appieno ciò che pensa di me, perché con tali occhi allucinati si guardano soltanto i pazzi e i moribondi, non certo un povero scrittore a cui è stato rubato il personaggio più importante della sua carriera e che, presto, sarà privato della vista.
«Vorrei parlare di una questione importante.» riprendo a parlare con voce ferma, perché dopotutto non mi importa nulla di quello che pensa di me, ho vissuto almeno metà della mia vita ignorando le lingue velenose e le infide sinapsi delle persone e continuerò a farlo finché non sarò sotto terra.
Il rapido movimento della sua mano, però, attira il mio sguardo e zittisce improvvisamente la mia bocca.
«Mayuzumi-san, la prego, sono certo che la questione non sia così importante da spingerla a saltare la fila e far penare ulteriormente i miei lettori.»
Serro le labbra e resto in silenzio, profondamente a disagio ed estremamente infastidito: mi sta rimproverando? Almeno sa chi sono o sta fingendo per pura cortesia?
«Potremo parlarne con calma una volta che sarò tornato in albergo.» seguo il movimento repentino della sua mano, lo osservo mentre scrive qualcosa sul taccuino e strappa la pagina, per poi porgermela «mi raggiunga alle quindici.»
Osservo l'indirizzo e sfiato appena.
«Arrivederci.» borbotto fra i denti, per poi dargli le spalle e dirigermi in fretta verso l'uscita della libreria: la sua correttezza morale è naturale o è una virtù che non possiede e che ostenta scimmiottando gli altri proprio come fa con l'originalità?
Appena le porte scorrevoli si serrano dietro di me e l'aria fredda penetra nelle mie narici, chiudo gli occhi e inspiro profondamente, per poi accartocciare il foglio su cui campeggia l'indirizzo fra le dita della mano sinistra: lo odio.


Mi sfrego il viso con le mani, chiudo gli occhi e accarezzo le palpebre con i polpastrelli degli indici, massaggio appena quelle che sotto la pelle paiono biglie roventi e irregolari: questa sensazione la conosco, è lo stesso impeto di bramosia violenta che, con il suo richiamo soave, tanto simile al canto melodioso di una sirena fra le onde, mi ha indotto ad assassinare il personaggio di Akashi.
Ho ucciso così tanti personaggi di carta che ormai non faccio altro che chiedermi come sarebbe soffocare una vita vera. Una vita vera in particolare, a dirla tutta.
«Spero di non esserle parso arrogante, oggi.»
Il mio labbro trema, la lingua frusta silenziosamente il palato, l'aria calda che si sprigiona dalle narici pare quasi incendiarmi la pelle del viso: cosa succederebbe, se uccidessi lui?
«In tal caso, la prego di accettare le mie scuse.»
Nijimura si siede di fronte a me e le mie dita arpionano i braccioli morbidi della poltrona in pelle: sono davvero in grado di uccidere? Se lo facessi permetterei a chi mi crede pazzo di pensare che ha ragione.
«Francamente preferisco confrontarmi in privato con uno scrittore del suo calibro.» lo vedo estrarre una sigaretta e l'accendino dalla tasca della giacca monopetto «le dispiace se fumo?»
«No.» non mi piace l'odore del fumo, così come non mi piace il sapore dell'alcol: sono due sentori letali e nauseanti, il profumo di cattivo gusto con cui la società si umetta le labbra, e ad un emarginato come me arrecano soltanto un immenso fastidio, tuttavia credo che il fetore pungente del tabacco sarà l'unica cosa lontanamente sopportabile in questa stanza.
«Beh...»
Finalmente riesce ad attirare su di sé il mio sguardo, in fin dei conti non mi sarei mai aspettato che, dopo tante parole misurate, decidesse di richiamare la mia attenzione con un borbottio gutturale. Ora che lo guardo meglio, mentre se ne sta di fronte a me con le labbra leggermente protese in avanti, la sigaretta stretta fra i denti e le membra mollemente adagiate contro i braccioli della poltrona, non mi appare più così bello, anzi mi ricorda un cavernicolo, un uomo rozzo e impaziente, troppo impulsivo e avido.
Se lo uccidessi sarebbe tutto molto più semplice, ma voglio dimostrare a me stesso che la società ha torto a ritenermi pazzo, o esaurito, o qualsiasi altra cosa che non sono.
«Quale sarebbe questa questione importante?» quando riprende a parlare, mentre batte la sigaretta sul bordo del posacenere di vetro azzurro, il fumo si libera dalle sue labbra e si spande sopra le nostre teste, si spezza sul mio viso e trafigge le mie palpebre, divora i miei occhi.
«Sarò sincero: credo che avrei continuato ad ignorarla se il titolo del suo romanzo non fosse lo stesso che due anni fa avevo scelto per il mio.» serro le labbra e accarezzo le gengive con la punta della lingua, sfiatando indispettito non appena percepisco il sentore di tabacco nella mia bocca.
«Un suo romanzo, dice? Non mi risulta che lei abbia scritto un libro con un titolo del genere.»
«No, infatti... questo perché non l'ho mai pubblicato.»
Resta in silenzio solo per un istante, mi fissa con la sigaretta stretta fra indice e medio della mano destra e poi increspa le labbra in un sorriso.
«Se lo ha scritto due anni fa e non lo ha ancora pubblicato, significa che non ne ha l'intenzione, no? Non vedo quale sia il problema.»
«Non è il titolo, il problema.» rispondo lapidario: ostenta troppa sicurezza, mi sta dando sui nervi.
«Allora di che cosa si tratta?»
«Si tratta del protagonista: Akashi è mio, Nijimura-san.»
Inarca appena un sopracciglio e mi fissa senza fiatare: so che lo sta pensando di nuovo, so che si sta domandando cosa gli è saltato in mente a far entrare un pazzo nella sua camera d'albergo.
«Potrebbe mostrarmi questo suo romanzo, Mayuzumi-san?»
La sua domanda mi sorprende, questo perché se fossi ancora in possesso del romanzo, forse, mi ascolterebbe. Peccato che Gli occhi del Diavolo originale sia nato e morto due anni fa.
Nijimura deve aver intuito qualcosa dalla mia espressione, perché il suo sorriso si amplia all'improvviso e il suo busto si rilassa completamente contro lo schienale della poltrona.
«A quanto pare non sta scritto da nessuna parte che il personaggio di Akashi le appartiene.»
Forse non sarebbe stato disposto ad ascoltarmi neppure se gli avessi mostrato il mio romanzo, forse è soltanto un personaggio subdolo, un avvoltoio che cela la sua avidità oltre una spessa trama fatta di parole leziose e modi soavi e accattivanti.
«Lui...» non posso più resistere, è da quando ho messo piede in questa maledetta stanza che mi pare di udire la sua voce tagliente sibilare parole incomprensibili nelle mie orecchie «lui è qui? Lei lo vede?»
«Temo di non poterle dedicare altro tempo, Mayuzumi-san.» Nijimura si alza all'improvviso, la sua voce pare essersi improvvisamente alterata e io non posso fare altro che reputare tutto questo come una conferma: Akashi è qui dentro.
«Dove?» mormoro, mi guardo attorno, ma le mie pupille vorticano così rapide che presto la mia vista si annebbia e un dolore lancinante si annida al centro della fronte: è come se un bambino mi stesse colpendo ripetutamente la testa con un martello e le sue risate fossero così forti da impedirgli di sentire la mia voce che lo supplica di smettere.
«Se ne vada.»
«Dov'è?» ma all'improvviso decido di rivolgermi al diretto interessato «dove sei, Akashi?»
Le dita di Nijimura si serrano con forza attorno alle mie braccia, mi sta parlando, ma io sono troppo impegnato a cercare qualcosa di rosso nella nebbia che attanaglia i miei occhi per riuscire a capire cosa sta dicendo.
«Akashi?!»
Mi ha mai amato davvero?
«Akashi! Lo so che sei qui! Hai scelto lui perché è migliore di me?!»
Sono in ginocchio, le mani protese alla ricerca di qualcosa che non posso afferrare e gli occhi velati da una coltre di ghiaccio: non so più dire cosa mi circonda, non so più dire nemmeno chi sono. Cosa sono.


Nijimura mi ha sbattuto fuori dalla sua stanza.
Non so quanto tempo sono rimasto inginocchiato di fronte alla sua porta, ma non appena il ghiaccio sui miei occhi si è sciolto e i colori hanno ricominciato a scaldare le mie palpebre con le loro carezze gentili, mi sono allontanato dall'albergo e sono arrivato qui, su uno dei minuscoli ponti di pietra che sovrastano il fiume Sousei.
La società mi sta spogliando lentamente, e dopo che avrà smantellato del tutto la mia identità, privandomi dell'abito che tempo fa mi ha cucito addosso lei stessa, perderò la vista e rimarrò completamente solo.
Chi vorrebbe convivere con la consapevolezza di non essere mai stato amato da nessuno? Chi, in una storia, vorrebbe mai recitare la parte dell'esule o del folle?
Chi sono io? Mayuzumi Chihiro? No, io sono soltanto una persona, e in quanto tale ho dei limiti, in quanto tale, nessuno si ricorderà di me quando sarò scomparso per sempre.
Alle mie spalle, il suono cristallino di una campanella si intreccia alle risate di una bambina.
Guardo l'acqua torbida del fiume che gorgoglia sotto i miei occhi, e forse, per la prima volta in tutta la mia vita, la prospettiva della morte mi appare terribilmente invitante.
   
 
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