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Autore: _Ellie_    30/12/2008    1 recensioni
In una Piazza Senza Nome, vicino alla Statua Senza Volto, mi è stato raccontata una Storia Senza Titolo da una Saggia Senza Paura. Perchè tra Casette e Casotte (credetemi, ce n'è di differenza) si snoda un percorso chiamato la Via, che potrebbe riguardarvi.
Ma anche no.
Tutto dipende da cosa saprete vedere sfogliando le pagine di un mondo sempre uguale, in perfetta, e tediosa, armonia con se stesso.
.-.-.
Nonsense ispirata dalle chicche di Lady Vibeke e dai troppi ricordi.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La casotta bianca e gialla riposava quietamente nell’angolo più recondito della piazza. Il vento tiepido spazzava senza posa l’acciottolato polveroso, mentre i caldi raggi di sole, di un doloroso giallo brillante, incendiavano le guarnizioni in ottone della statua al centro della piazza.
Se la Piazza aveva avuto un nome, ora non lo ricordava più nessuno.
Se la Statua rappresentava realmente qualcosa, qualsiasi cosa, di certo nessuno sarebbe più stato in grado di dire cosa, esattamente.
Era una Statua Senza Volto al centro di una Piazza Senza Nome, accerchiata a sua volta da tante case, di tanti tipi diversi, tutte senza scopo.
In effetti le case, al sole del primo pomeriggio, apparivano dolci e fresche, pitturate com’erano di colori brillanti e vivaci, colori che risaltavano sul bianco dell’intonaco come il sangue sulla pelle bianca. Ognuna aveva il suo cortiletto, ovviamente delimitato da alte ed aguzze sbarre, terminanti in poco rassicuranti spuntoni. Il portone principale di ognuna era invariabilmente rosso, l’erba invariabilmente verde, i muri invariabilmente bianchi. E le pareti sembravano frutto delle crisi d’isteria di un pittore pazzo, che piangendo e ridendo dipingeva i suoi incubi su ognuna di quelle facciate, che accerchiavano la Piazza Senza Nome, che toglievano luce alla Statua Senza Faccia.
 
Eppure, eppure.
 
In quella piazza oppressa, a portata d’occhio della Statua Senza Volto, vi era una casotta che, piuttosto che imporre la propria ombra e la propria snella e alta presenza, sembrava sforzarsi di essere la più bassotta tra tutte le case, la più polverosa tra tutti i giardini, la più scrostata tra tutti i portoni.
Le sue pareti erano il gioco ad incastro di disordinate macerie, il portone più grande dell’uscio, il rosone composto da vetri colorati di diverso tipo, colore e consistenza. Il suo giardinetto sembrava avere il morbillo, dato che l’erba verdina era costellata di cespuglietti d’erbacce di un verde cupo e chiazzata di macchie d’erba secca, alla portata del piede di qualunque estraneo, dato che non v’era traccia di recinto nè di sbarre, nei pochi metri di quel giardinetto.
 
La Ragazza Stanca continuò a fare paragoni tra la graziosa Casetta Perfetta alle sue spalle e la Goffa Casotta grassotta alla sua sinistra. La sua voce, sciupata e stanca, eppure ancora squillante dell’allegria distratta di qualche tempo fa, risuonava dentro il guscio stanco del suo corpo con lo stesso rumore secco di mille semini dentro il guscio di cocco di una maracas. La pelle della ragazza era bruciata dallo stesso sole che screpolava la tintura della casotta grassotta, i suoi capelli erano crespi a causa dello stesso vento tiepido che rimuoveva la polvere dell’acciottolato della Piazza Senza Nome. Eppure i suoi occhi, così strani, al confine tra banalità e follia, sembravano venire da un luogo molto distante da quella piazza, molto diverso dalla Statua Senza Volto.
 
Con un gesto stanco, la Ragazza, per l’appunto, Stanca, si girò a guardare la Casetta Perfetta alle sua spalle con lo stesso sguardo opaco con cui guardava qualsiasi cosa da tanto, troppo, tempo. La casetta le sembrò uno spettacolo nuovo e mai visto, eppure le sembrava di aver sempre vissuto lì.
 
Forse che al piano di sopra non ci sarebbe stato un lettino dalle immacolate lenzuola bianche ad aspettarla?
I suoi capelli non si erano forse arruffati su un cuscino che profumava leggermente di bucato?
 
Eppure, sembrò sussurrarle lo stesso cuore che le tamburellava in petto, ne sei proprio sicura?
 
La Ragazza Stanca lo mise a tacere con una carezza distratta, sfiorando il tessuto bianco di un vecchio abitino prendisole che non si ricordava di aver mai comprato, tantomeno avuto.
 
Il vento gracchiò tra le sbarre che delimitavano il giadinetto della Casetta Perfetta. I raggi di sole non entrarono nell’interno buio di questa, non fecero luce nelle stanze che si affacciavano sulla Piazza Senza Nome, pur essendo queste dotate di grandi finestre di lucido vetro.
 
Perchè?
 
La domanda, come un urlo lanciato distrattamente da una gola ormai rauca, risuonò per ogni dove, rimbalzando su ogni spigolo delle tante Casette Perfette.
 
Per la Ragazza Stanca girarsi e mettere un passo di fronte all’altro fino ad arrivare al cancello fu facile. Fu facile anche ignorare il freddo che la colse alle spalle nel momento esatto in cui si girò, come se la casetta l’avesse guardata con rimprovero.
La Ragazza Stanca era stanca anche per questo.
Appoggiò le dita lunghe ed imperfette per le troppe ore passate a disegnare ed a calcare con forza la mano su di un foglio bianco, e spinse il cancello. L’aprì con naturalezza, con la calma dell’abitudinario, eppure una gocciolina di sudore colò lungo la sua fronte. Respirò più a fondo, mentre il cancello si chiudeva con uno stridente rumore di catene alle sue spalle.
 
Ma non era tutto perfetto, qui?
 
Il silenzio polveroso della Piazza Senza Nome fu l’unica risposta alla sua domanda.
 
Il vento le scompigliava i capelli, indeciso se essere gentile o dispettoso, quando arrivò alla Statua Senza Volto al centro della piazza. Da là, dal centro di ogni cosa, si accorse come le ombre di tutte quelle casette si proiettassero lungo l’acciottolato come lunghi artigli scuri, privi di consistenza e colore, e per questo più pericolosi.
I loro bordi, precisi ed affilati come seghetti, formavano un cerchio d’oscurità attorno al piedistallo della statua, lasciando a malapena qualche passo di pura luce.
 
Un carosello angosciante, non trovi?
 
Chiese il volto della Statua Senza Volto alla Ragazza Stanca, che questa volta ricambiò con uno sguardo interrogativo.
Il fruscio dell’emozione che, quatta quatta, si fece spazio nel cuore della ragazza, fu amplificata mille volte dall’apatia della facciata di ogni Casetta.
E quando, per la prima volta da quando lei ricordasse, mise prima un piede fuori dal reticolato di ombre, e poi l’altro, il sollievo che le spumeggiò in petto fu come il risuonare secco di uno schiaffo.
 
Improvvisamente più leggera, la Ragazza non seppe calibrare bene i movimenti, ed, incampando, potè evitare di cadere solo agrappandosi alla mano tesa della Statua. Che, incredibilmente forte per essere solo un’ammasso di bronzo ed ottone, la sostenne per tutto il tempo che lei impiegò per rimettersi in piedi. Lo stupore distese per un momento le labbra screpolate della Ragazza Stanca, labbra talmente rovinate da stillare qualce goccia di sangue che ferroso scivolò sulla lingua di lei, quando socchiuse la bocca.
 
La superficie della Statua Senza Volto era calda. Ma non calda come poteva esserlo il metallo arroventato da un sole dorolosamente brillante, bensì tiepida, come una vecchia eppure ancora soffice coperta.
La Ragazza non seppe spiegarsi perchè l’avesse paragonata ad una coperta.
Lei neanche lo sapeva, cos’era una coperta.
Non serviva, per quanto poco potesse ricordare, nelle stanze buie della Casetta Perfetta, così lontana da lei, adesso.
 
Spalancando gli occhi, come non faceva da tanto tempo, o forse non aveva mai fatto, la Ragazza Stanca diminuì la stretta, liberando la mano da quella dalle dita perfette della statua. Eppure, non volle lasciarne il confortante calore. Se la sua pelle era bruciata dallo stesso sole che illuminava il resto della piazza, perchè allora il calore di quel metallo sembrava colarle tra le dita, fin sotto la pelle, fino a quasi farla sentire meglio?
 
Fastidio.
Come fa a non darti fastidio?
Non vedi come sta prendendo possesso di te, questo sollievo istantaneo?
 
Santa apatia che volteggi con la polvere, torna a spazzare il mio cuore, si ritrovò a pregare la Ragazza Stanca.
 
Quindi, con un’espressione nuovamente distratta, staccò anche l’ultimo polpastrello da quel caldo palmo, volgendo le spalle alla statua, tornando ad osservare distratta, la testa piegata su una spalla, la sua Casetta Perfetta.
 
Eppure quel “sua” le irritò profondamente il palato, nonostante fosse stato solo pensato, neppure con troppa convinzione.
 
Ma cosa era successo, nel breve tempo che lei aveva impiegato per liberarsi dalla presa della statua?
 
Il cerchio di ombre sembrava essersi fatto più stretto, le case più alte, i davanzali più aguzzi, i colori più brillanti, le sbarre più aguzze. Il cielo si era fatto polveroso, come se l’azzurro fosse stato diluito con terra chiara, sabbia bianca.
E la sensazione di opprimente vicinanza e stordente lontananza fece paura alla ragazza forse non più stanca.
E lei conosceva un unico mezzo per mettere in fuga la paura.
 
O i sentimenti in generale?
Sembrò tamburellarle di nuovo in petto il cuore. La sua vocetta rauca venne affogata dalla cantilena della Ragazza, Che Non Sapeva Più Cos’era.
 
Santa apatia che volteggi con la polvere, torna a spazzare il mio cuore.
Non hai mai avuto freddo, in tutto questo tempo?
Santa apatia che volteggi con la polvere, torna a spazzare il mio cuore.
Non ti sei mai sentita sola, quando l’eco di ogni tuo passo risuonava in un silenzio spesso come piombo?
Santa apatia che volteggi con la polvere, torna a spazzare il mio cuore.
Non hai mai avuto paura di chiederti perchè sei così stanca?
 
Strisciando in sibilante silenzio, il cerchio di ombre stava finalmente inghiottendo ciò che rimaneva dell’alone di luce attorno al piedistallo della statua, con la stessa voracità di un goloso alle prese con una succulenta tavola di cioccolato. I contorni aguzzi delle ombre affogavano con un sibilo di piacere nel giallo paglierino dell’acciotolato polveroso, che sotto quell’attacco continuo, si stava via via spegnendo.
 
Fu allora che la Ragazza si sentì prendere dal panico, e volse le spalle a quello spettacolo agghiacciante. Il suo piccolo cuore accellerò di qualche battito, quando il suo sguardo tornò ad accarezzare i lineamenti della Statua Senza Volto. Che le porgeva la mano, come a chiamarla a sè.
Salire non fu facile. Il piedistallo era di marmo nero, e scottava sotto la pianta dei piedi, mentre quando abbracciò la statua, impresa complicata visto che anatomicamente la ragazza e l’ammasso di metallo non avevano nulla da spartire, si sentì scossa da un calore morbido e soffice, piacevole e soverchiante come un liquore paglierino che le scendeva giù per la gola con una lentezza esasperante.
 
Eppure quell’abbraccio non l’avrebbe salvata. La Ragazza lo sapeva, eppure non smise di stringere più forte che potè, fin quasi a farsi male, fin quasi a fondersi con la sagoma d’ottone e metallo, perchè sapeva che, se voleva avere una seppur minima possibilità di scampo, doveva dominare quel calore, a volte tenero, a volte voluttuoso, fino a farlo suo, incanalarlo per servirsene e non per esserne asservita. E fu solo quando l’ultima stilla di paglierina essenza le fu colata lungo la pelle che osò aprire di nuovo gli occhi.
 
Per ritrovarsi accerchiata.
 
La perfezione di mille Casette Perfette era una tentazione vecchia, così come ora le risultava ingombrante, il loro tentativo di apparentare equilibrio nei volumi, se troppo diversi erano i materiali da cui erano composti. Quell’eccesso di perfetto era  l’imperfezione dell’incommensurabile, mentre il dicibile si ea fatto indicibilmente detto, parole vane che riempivano il vento e sazivano solo i divoratori di speranza.
 
Le mille Casette Perfette adesso sì che dominavano la piazza senza nome, con le loro ombre ben delineate, i loro colori brillanti, le loro porte appena riverniciate, i prati all’inglese, i loro limiti così ben marcati da dolorose sbarre.
 
Eppure, eppure.
 
La Statua ancora brillava. Il corpo d’ottone, avvolto dentro informi vesti di bronzo, dal volto nascosto da un velo di rame, la mano tesa verso qualcosa in basso, pronta a sfiorare una platea invisibile, l’altra mano stretta attorno al manico di un qualcosa ormai contorto dalle tenebre di ombre che troppo a lungo si erano succedute in eterni pomeriggi polverosi e soleggiati.
Ed era l’ultima roccaforte prima delle tenebre, fonte di luce nel buio, o forse fonte di dolce buio delimitato da un cono di luce crudele.
 
La ragazza non lo sapeva, non le interessava. Piuttosto seguiva con lo sguardo una linea di luce dorata che, fragile e sottile, si dipanava dalla statua fino alla porta della cara, vecchia, Goffa Casotta.
 
Come poteva essere vecchia, se lì tutto era nuovo?
Come poteva essere cara, se lì tutto era sconosciuto?
 
Eppure l’ansia pungolava la Ragazza, che fremeva di un nuovo calore, stanamente leggera perchè ormai lontana dal cono d’ombre, non più sola perchè la pelle della Statua pulsava sotto di lei, come sotto la sua le pulsava sangue.
 
Allora la Ragazza prese fiato, forza e coraggio, confezionò un elisir con la sua diperazione ed un fondo di vecchie speranze, stracciò illusioni per servirsene come scudo, seppe cosa doveva fare quando tutto sarebbe stato perduto. Chiuse gli occhi per ricordarsi cosa stava per perdere e li riaprì per ricordarsi cosa stava per guadagnare.
Sogghignò, tirò con forza la mano della Statua ed iniziò a correre sul sottile filo di luce, senza mai guardarsi indietro.
 
E sentì che tutto stava per cambiare, e cercò di correre più veloce per accelerare, per poi lasciar perdere e proseguire e basta, senza dar conto a qualsivoglia scadenza o termine, suo o di estranei che fosse, con un passo che seguiva l’altro perchè via via il buio si faceva sì più fitto, però filo di luce più forte, spesso.
 
Con il verde sciupato di un prato incolto come unica meta, con l’unico obbiettivo di sfiorare la porta scrostata, la Ragazza Non Più Stanca arrivò finalmente alla soglia del portoncino, appoggiandovi la fronte.
Chiuse gli occhi per un momento, inspirò nuova aria dai nuovi odori, fino a farsi quasi scoppiare i polmoni.
 
Poi, senza lasciare un momento la stretta, spinse la porta ed entrò.
 
 
...
 
 
Fu solo molto tempo dopo, tempo in cui la Ragazza si fece Donna, e da Donna divenne Saggia, che il suo cuore tamburellante, a cui adesso finalmente dava ascolto, le consigliò di girarsi a controllare cosa esattamente stesse stringendo da tanto, tantissimo tempo ormai.
 
La Ragazza scosse forsennatamente la testa, la Donna s’incupì in viso, la Saggia consolò entrambe con la forza della sua voce pacata, mettendole a dormire tra mille premure e coperte calde come abbracci. Perchè tanto tempo era ormai passato dacchè la Saggia viveva nella Casotta Goffa, osservando il continuo mulinare di vecchi fantasmi e nuove illusioni al di là dei vetri dai mille colori, illuminati dalle mille luci che volteggiavano in ogni stanza.
Aveva con pazienza scrostato la porta di altre casette perfette, rovinandone le forme e donando loro armonia nel caos. Aveva accolto altri Ragazzi e Ragazze Stanche, pur senza facilitar loro nessun passaggio della Via. Aveva fatto molto e ricevuto il doppio, ed era ricca di tutta una serie di cose che non si possono comprare.
Eppure non aveva mai dormito.
Eppure non aveva mai lasciato la mano della Statua.
 
Sempre che fosse ancora una Statua.
 
Quindi un giorno raccattò ogni sua più piccola cosa, le mise dentro una cesta di vimini,  che sistemò in una delle tante camerette della Casotta Goffa. Salutò con un carezza distratta le pareti, mentre le sue labbra si stendevano in un sorriso particolare, come uno di tanti anni fa.
 
Anche allora come adesso, dalle sue labbra screpolate stillarono gocce di sangue che però questa volta non asciugò, preferendo semplicemente aumentare la stretta della mano, chiudere gli occhi e girarsi, sentendosi di nuovo scattante e leggera come un tempo.
 
Si sollevò sulla punta dei piedi nudi, i bordi del vestitino bianco a solleticarle le cosce, i capelli di nuovo un covo polveroso e selvaggio. Poi appoggiò le labbra su quelle della Statua, della sua Statua, del suo Leone dalla criniera dorata.
 
Ed una litania nostalgica l’accompagnò finalmente nel sonno profondo.
 
 
 
 
 
 
 
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Ad essere del tutto sinceri, non ho la benchè minima idea del perchè sia nata questa storia. Le originali non sono il mio forte, ma leggere quelle chicche scritte da Lady Vibeke è stato un po’ la molla. Se poi ci unite le Strane Sensazioni Senza Nome che mi assalgono in ogni momento da quando sono tornata a Siviglia, potreste anche trovare un seppur vago significato a tutto questo.
Dedicato a parecchia gente (la linkata e tutto il gruppetto in primis XD) e ad un solo luogo: Alameda de Hercules. 
 
Ah, quasi dimenticavo: la statua potrebbe essere chiunque, non ha un reale volto. Lo stesso vale per la ragazza senza volto.
A meno che voi non siate me. In tal caso, sapreste che lui è il Leoncino e lei lo Specchio. E la smetto, promesso. <3
 
   
 
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