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Autore: Biblioteca    05/05/2015    2 recensioni
[Amici Miei]
(Dal primo capitolo)
“A proposito, ma quello al binario non è il figliolo del Perozzi?” chiese all’improvviso il Mascetti, silenzioso fino a quel momento.
Il gruppo osservò un uomo occhialuto che indossava un lungo cappotto nero e che se ne stava fermo sul binario uno dove un treno era in partenza.
(Attenzione: questa storia, essendo ambientata dopo il primo film di Amici Miei, contiene spoiler dello stesso e anche del secondo film della saga)
Genere: Comico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Amici e altri amici'
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Le cose non andarono esattamente come i tre amici avevano sperato. Il Sassaroli riuscì a liberarsi solo per un’ora, il Mascetti si vide costretto a tornare subito al suo seminterrato perché aveva un appuntamento importante che gli avrebbe permesso di racimolare qualche soldo e infine il Necchi si vide chiamato al bar dagli operai per smontare il suo forno a gas. I quattro amici fecero dunque una toccata e fuga al cimitero e si diedero appuntamento per le sei a casa del Perozzi.
Ma il Melandri, l’unico rimasto tra gli amici che non aveva impegni per quel pomeriggio, decise di anadare in anticipo, così, per tastare il terreno.
Al vecchio palazzo non era cambiato niente. C’era perfino la targa con il nome “Perozzi” sul portone.
Melandri bussò alla porta. Poi suonò il campanello.
Niente.
“Oh è partito, o non è tornato. Pazienza.” Pensò.
“Scusi?”
Una voce timida e femminile alle sue spalle lo fece quasi sobbalzare. Era una donna minuta che teneva in mano una scopa.
“Lei chi è signora?”
“Io sono la portiera, e lei è qui per il professore?”
“Sì.”
“È l’architetto per caso?”
Melandri fu quasi sul punto di rinunciare a mentire, ma dopotutto non era una bugia.
“Sì signora, io sono un architetto.”
“Ah! Menomale, che il professore parte domani, prego, la faccio entrare.”
La portiera aprì la porta con le chiavi di riserva.
Il salone della casa del Perozzi era stato sgomberato, tutti i mobili stavano ammucchiati, assieme a degli scatoloni, su un lato della stanza.
Le altre pareti presentavano crepe e segni di infiltrazioni di umidità.
“Come può vedere si porta ancora i segni della piena dell’Arno anche dopo tutti questi anni. Eh, povero professore, lo ha scoperto quando si è ritrovato ad aprire un libro e trovarlo pieno di muffa. Pensi che ha dovuto buttare via parecchie cose. E quelle crepe lì ci sono da tanto, ma credo che il professor Perozzi voglia sbarazzarsi anche di quelle. A proposito, pensa che i lavori disturberanno i condomini?”
Il Melandri stava osservando con occhio critico tutti i danni. “Ho paura che ci sarà parecchio da fare.” La sua osservazione non era uno scherzo. Era sincera.
“Ho capito, immagino che voglia prendersi un po’ di tempo per valutare la situazione. La lascio solo, tanto il professore tornerà tra poco, ma se deve andare via prima mi passi a chiamare. D’accordo?”
“Sì, signora. Grazie per avermi aperto.”
La donna lo lasciò dunque solo nella casa.
Melandri iniziò a girare di stanza in stanza. Solo il salotto risultava danneggiato e svuotato. Melandri notò che tutte le porte avevano un vetro diverso, tranne quella della camera di Giorgio Perozzi, stanza in cui era morto circondato dai suoi cari amici. Melandri provò un brivido ripassando davanti a quella porta. Aveva paura di aprirla, ma alla fine lo fece.
Si aspettava che quell’ingrato del figliolo avesse svuotato tutto. Invece, e la cosa per poco non gli fece venire un infarto, la camera era rimasta uguale a quel giorno.
Sul letto c’erano ancora le stesse coperte, stirate e ben ordinate, ma erano quelle. La lampada sul comodino, lo scrittoio disordinato… c’era tutto.
“Non è possibile.”
Il Melandri si ricordò di quando, durante una burla, il Perozzi si era dimenticato la trombetta con cui dovevano imitare un clacson e aveva mandato il Melandri a prenderla (poiché Luciano Perozzi si era rifiutato categoricamente di portarla). Tutti gli ingredienti per le burle si trovavano nell’armadio dirimpetto al letto, ancora presente. Lo andò ad aprire e iniziò a frugare nei cassetti.
Anche lì non era stato buttato niente.  C’era tutto, proprio tutto. Come un archeologo che scopre un tesoro antico e dimenticato, il Melandri osservò e catalogò mentalmente tutti gli oggetti presenti. C’erano le polverine coloranti, gli stronzi di cartapesta, trombette e richiami per uccelli; i soldi finti, la pistola rumorosa, la peretta per spruzzare il sangue finto e perfino la benda nera indossata dal Sassaroli (tutto materiale usato nella beffa del Righi); e ancora, i contenitori di liquidi maleodoranti da spruzzare sui passanti, la ricetta per creare una finta cacca di uccello (dentifricio, farina e un po’ di colorante nero), le siringhe giganti, il piano di costruzione dell’autostrada con svincolo.
Il Melandri sentì rivivere ogni scherzo, sia riuscito che fallito, nella sua testa. Quante ne avevano combinate loro e il Perozzi.
Senza pensarci due volte, andò a chiamare al telefono tutti gli amici, pregandoli di arrivare il prima possibile. E così fu, arrivarono quasi tutti contemporaneamente appena finirono i loro impegni, facendo attenzione a non farsi vedere dalla portiera.
La sorpresa di scoprire che tutti gli strumenti per i loro scherzi erano stati conservati da Luciano fu ancora più grande di quella che avevano provato quando lo avevano visto alla stazione a schiaffeggiare i passeggeri del treno.
“Vi ricordate del Righi?”
“E chi se lo scorda quello!”
“Ma si è fatto più rivedere?”
“Macchè, sparito.”
“Ci crederà ancora?”
“Probabilmente.”
“Che cosa ci fate voi in casa mia!?”
I quattro amici si voltarono e videro un uomo, magro e occhialuto, che li osservava con le braccia conserte, fermo impettito sulla soglia della camera.
Luciano Perozzi, il figliolo del Perozzi.
Gli amici e l’uomo rimasero a fissarsi per qualche minuto. In silenzio. L’espressione di Luciano era sempre quella: seria, imbronciata, quasi priva di umanità. Ma gli occhi brillavano di una luce rabbiosa e evidentemente oltraggiata.
Il primo a parlare fu il Mascetti, senza riuscire a non sfoderare un sorriso di sfottò.
“Bene Lucianino, vedo che sei cresciuto. Complimenti, stai tenendo proprio bene la casa del tuo babbo.”
“Cosa ci fate voi in casa mia?”
“A proposito” si introdusse il Melandri “per quelle macchie di umidità e quelle crepe posso mandarti qualcuno che già aveva riparato dei danni post alluvione che si erano rivelati dopo tanto tempo.”
“Ve lo chiederò una terza e ultima volta in maniera educata: cosa ci fate voi quattro in casa mia?”
“Beh, si passava di qua e siccome non ci vediamo da molto pensavamo che un saluto.” Disse il Necchi calmo, sorridendo anche lui.
“Vi devo chiedere di uscire.” Disse Luciano dopo un sospiro sconsolato.
“Seratia tapioco scampando alla supercazzola chiusa nell’armadio, se la prematuriamo a destra mica esce sai?”
“Mascetti, la supercazzola con me no!” sbottò Luciano cambiando improvvisamente tono. Era furioso.
“Ah, vedo che non ci caschi più! Sei proprio un uomo ormai.”
Dopo la figuraccia che Luciano aveva fatto a casa del Mascetti, quest’ultimo insieme al Perozzi si era preso di tanto in tanto la libertà di allenarsi con lui con la supercazzola, scoprendo così che il punto debole di quel bimbetto era proprio una certa ingenuità. Il piccolo Luciano sapeva, capiva e scriveva tutto, ma fino alle medie la supercazzola lo mise sempre in difficoltà. Poi sia il Mascetti che il Perozzi smisero di fargli quello scherzetto, ma non erano mai stati sicuri che lui avesse smesso di cascarci.
“Certo che sono un uomo! E lo sono da molto più tempo di voi nonostante la vostra veneranda età!”
“Oeh, giovanotto!” esclamò il Sassaroli avvicinandosi severo “Mi stai forse dando del vecchio?”
“Vecchi forse no, ma infantili sì! Vedo che non avete perso il gusto di fare gli imbecilli! A volte credo che se papà non vi avesse mai frequentato, forse sarebbe stato un uomo serio!”
“Oh certo, serio come lo sei tu magari.”
“Sì, appunto.”
Il Melandri fece la sua risata tipica.
“Che ride lei!?”
“Che ci facevi ieri alla stazione, caro signor serio?”
Il volto di Luciano cambiò con una velocità impressionante. Impallidì e i suoi occhi furiosi si tramutarono in occhi terrorizzati.
“Ah!” esclamò il Melandri “Beccato!”
“Qualunque cosa abbiate visto, vi state sbagliando!”
“Non credo proprio caro mio.” Disse il Sassaroli “Io che sono dottore poi leggo le facce meglio di chiunque altro. Anzi, eravamo proprio qui per questo. Per dirti che tuo padre sarebbe fiero di te…”
“Non provi mai più a parlare così di mio padre di fronte a me!” Luciano gli puntò contro un dito tornando arrabbiato “E ADESSO FUORI!”
“Va bene, se il signorino Perozzi lo vuole…” e il Necchi guidò il gruppo fuori dalla stanza “Non disturbarti conosciamo la strada.”
Luciano perozzi non gli rispose nemmeno, si limitò a sbattere la porta. Ma l’impatto fu così forte che il vetro di infranse in mille pezzi.
I quattro amici videro la faccia di Luciano che osservava sbigottito i pezzi di vetro sul pavimento.
E non resistettero più.
Scoppiarono a ridere a crepapelle. Quell’uomo, sempre così serio, con quella faccia spaurita, era proprio buffo da vedere.
“BASTA!!!”
L’urlo li interruppe bruscamente.
Si era portato le mani alle orecchie e strizzava gli occhi con una smorfia di dolore.
Poi lentamente parve calmarsi, ritornò nella sua posa dritta di sempre ma aveva lo sguardo vuoto.
Come se gli amici se ne fossero andati, scavalcò il buco della porta e se ne andò nella sua stanza, ma senza chiudere.
Dopo qualche esitazione i quattro amici lo andarono a vedere.
Lo trovarono seduto sul suo ordinatissimo scrittoio che teneva in mano una vecchia foto in bianco e nero. Sullo sfondo della campagna Toscana c’erano lui, poco più che bambino, in braccio a sua madre, sorridente come non lo era mai stata e il Perozzi, visibilmente più giovane.
I quattro amici si riunirono attorno a lui, videro che aveva gli occhi umidi, quasi stava per piangere.
Non lo avevano mai visto in quello stato. Nessuno se la sentì di fare battute.
“Questa” disse Luciano all’improvviso “sei stato tu a scattarla, vero Melandri?”
“Sì… Accidenti, avevo quasi dimenticato quella foto! Fu la peggiore delle nostre riunioni.”
“Peggiore perché erano presenti le mogli.” Precisò il Necchi “Dopo quella, ci siamo guardati bene dal rifarlo.”
“Ricordo che io e la mia eravamo appena tornati dal viaggio di nozze. Lei era incinta e avevo appena dato via l’orso.” Disse il Mascetti, anche lui quasi commosso dal ricordo.
“E io ancora non vi avevo conosciuto.” Concluse il Sassaroli.
Luciano rimise la foto apposto, ma continuava a fissarla.
“Quindi voi non avete un bel ricordo di quel giorno.”
“No.” Dissero in coro il Mascetti, il Necchi e il Melandri.
“Peccato” continuò Luciano “io invece me lo ricordo bene. E ricordo che ero felice. Chissà, forse è per questo che io e mio padre…”
Si interruppe.
Nessuno disse una sola parola.
“Luciano” disse infine il Necchi “se vuoi ora noi andiamo via…”
“Sì, sarebbe il caso.”
“Però lasciami dire questo, a nome di tutti: il nostro stupore era positivo quando ti abbiamo visto in stazione. Capiamo perché lo fai. E siamo sicuri che anche tuo padre ne sarebbe stato contento.”
“Era un brav’uomo. Ha fatto tanti errori con te, ma ti voleva bene.” Disse il Melandri dandogli gentilmente una pacca sulla spalla.
“Se vuoi fare altre cose per ricordarlo, puoi contare su di noi, sempre.” Disse il Mascetti.
“E sta attento quando vai in stazione l’anno prossimo, che c’è un vigile che ti da la caccia.” Concluse il Sassaroli.
Poi si avviarono nel corridoio e infine uscirono dalla porta di casa.
La portinaia li vide sulle scale.
“Architetto” disse stupita “e questa gente?”
“Tapioca supercazzola non c’è un vicesindaco?”
“Vicesindaco? Perché c’è bisogno dell’autorizzazione del comune?”
“Sì, con scappella mento a sinistra.”
“Ma non ci sono adesso i Demoscristiani?”
“Stia tranquilla signora, è tutto a posto.” Tagliò corto il Melandri mollando una gomitata al Mascetti.
“Certo comunque, che un po’ stronzo Luciano è rimasto.” Disse il Necchi.
“Già” assentì il Sassaroli “certe cose non cambiano.”
“Ci vediamo l’anno prossimo allora!?”
I quattro si voltarono e videro Luciano affacciato alla finestra.
“Il venti novembre alle dieci di sera, binario due, non mancate!” e chiuse la finestra.
I quattro si sorrisero. Si sentivano stranamente sereni, quasi felici di quello strano e inaspettato evento.
Canticchiando le note della loro opera preferita, raggiunsero piazza del duomo, e da lì si divisero per tornare alla loro normalità.
 
FINE
  
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