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Autore: oswin_    06/05/2015    5 recensioni
OS partecipante al contest "It's too cliché", indetto da rhys89.
AU!RealWorld/NoMagic.
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Emma ha quasi diciannove anni e, avendo optato per un'adozione aperta, ora è un suo dovere seguire la crescita di Henry, sebbene non sia la tutrice legale: ma cosa accadrebbe se, ad un certo punto, si rendesse conto di provare qualcosa per la madre adottiva di suo figlio?
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«Devo dirglielo.»
«Dirle cosa?»
«Che mi sono ubriacata, che ho provato ad essere di nuovo un’adolescente, ma che credo di preferire lei a tutto questo.» lo disse con sicurezza, come se fosse una cosa scontata, come se Ruby sapesse qualcosa della cotta che aveva nei confronti di Regina. Come se lei stessa avesse mai avuto intenzione di parlarne con qualcuno. «Lei è anche meglio della Tequila.»
Genere: Drammatico, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Emma Swan, Henry Mills, Regina Mills
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Voglio che tu mi prometta una cosa: se ami qualcuno, diglielo.

«Un’adozione aperta?» domandò confusa, esalando un profondo sospiro.  «Ti ha dato di volta il cervello, Emma?» aggiunse, e questa volta la voce fu talmente acuta e stridula da obbligare la ragazza ad allontanare l’orecchio dal cellulare, increspando le labbra in una piccola smorfia. «E soprattutto… Perché non me ne hai parlato prima?»
«Rilassati, Ruby.» Emma si portò una mano dietro alla nuca, grattandosi – in un gesto di puro nervosismo – la base del collo. «Non ne ho avuto l’occasione: tu sei in Europa da quando abbiamo finito il liceo, e quando ho partorito ho dovuto prendere una decisione. Tutto qui.» evitò di aggiungere che prendere una decisione del genere, completamente sola e a diciotto anni appena compiuti, non era stato affatto facile, sebbene lo pensasse.
«“Tutto qui”?» non poteva vederla, ma Emma avrebbe scommesso mille dollari che l’amica stesse sgranando gli occhioni chiari che si ritrovava. «Hai partorito un anno fa, potevi trovarlo il tempo per chiamarmi…» borbottò l’ultima frase con tono frustato, rassegnato.
«Sono… stata impegnata. Ma alla fine non è così male l’adozione aperta: posso vederlo quando voglio, ammesso e concesso che Regina sia d’accordo… ma almeno mi tiene aggiornata tramite e-mail.»
«Regina?»
«La madre.» rispose prontamente, ma si rese ben presto conto di quanto fosse poco chiara l’informazione. «Beh, l’altra madre. Fa un po’ la… stronza, ma non lo è davvero.»
«Mh, se lo dici tu.» Ruby si lasciò sfuggire un sospiro, che Emma recepì come un muto rimprovero. «Ora devo andare, altrimenti l’aereo parte senza di me e non ci vediamo neanche a questo giro, Miss Sono-Troppo-Impegnata.» terminò, chiaramente sarcastica.
Eppure, per quanto sarcasmo potesse esserci in quella frase, Emma era certa che all’amica non importasse quanto tempo ci avesse messo a confidarle quella cosa: per una volta, la bionda era sicura che a qualcuno importasse di lei. «Va bene, Rubs. Ci vediamo al pub di Thomas stasera!» rispose, attaccando la chiamata solo dopo aver ricordato all’amica che il luogo d’incontro sarebbe stato il locale che un loro vecchio amico aveva rilevato come attività di famiglia qualche anno prima.

Dopo il liceo, Emma aveva davvero tagliato i ponti con chiunque – non che conoscesse molte persone, in realtà –: Ruby, una delle sue poche amiche, si era trasferita in Germania una volta terminato l’anno scolastico, e Neal, il suo primo – ma non ultimo – amore, era sparito dalla circolazione non appena aveva scoperto della gravidanza. Dal canto proprio, la ragazza non lo biasimava affatto: qualunque diciottenne sarebbe scappato davanti ad una tale responsabilità; ma nonostante ciò, in cuor suo la ragazza aveva sinceramente sofferto nel riscoprirsi, ancora una volta, abbandonata, in balia del proprio destino.
Non essendo più sotto la tutela degli assistenti sociali che l’avevano seguita per tutta la vita non aveva dovuto rendere conto a nessuno delle proprie scelte in merito alla gravidanza: era stata una scelta difficile, ma alla fine era davvero giunta alla conclusione che l’adozione aperta era la migliore delle opzioni. Non aveva mai avuto nessuno che potesse rappresentare la sua famiglia e quella era, alla fin fine, la sua unica possibilità di avere qualcosa che si avvicinasse il più possibile a quel concetto che, da sempre, le mancava.
Ovviamente non si aspettava che un giorno Henry – così l’aveva chiamato la madre adottiva – avrebbe iniziato a chiamarla “mamma”: a lei sarebbe bastato anche, semplicemente, essere un po’ come una sorella maggiore per il piccolo, o – al massimo – una pseudo baby-sitter.
Il difficile arrivava quando bisognava discutere, per organizzare gli incontri, con la madre adottiva del bambino.
Regina Mills era una rinomata professoressa di fama internazionale, sempre piena d’impegni e sempre pronta a sputare veleno addosso alle persone. O, perlomeno, questa era la prima impressione che aveva dato alla giovane Emma. In un primo momento, per le due fu davvero difficile trovare un punto d’incontro: un’insegnante universitaria obbligata quasi a condividere un figlio con una diciannovenne sembrava una barzelletta agli occhi di molti, dopotutto.
Le due non si passavano più di una decina di anni – quindici al massimo – eppure, nel primo periodo, sembravano provenire da due epoche totalmente differenti, incapaci di mettersi d’accordo su una qualsiasi cosa, dalla più banale alla più complicata: inutile a dirsi, il loro rapporto si era rivelato essere piuttosto complicato fin dall’inizio. Per i primi due mesi, Emma aveva potuto vedere il bambino solo di rado, e anche gli aggiornamenti che la donna le inviava tramite posta elettronica erano scarni e privi di emozione, come se non volesse che la madre biologica di Henry si potesse beare della sua crescita.
Ma col passare del tempo, Emma capì che il problema di Regina Mills era solo uno: capì che era una donna insicura, sola, che temeva sempre il peggio nella sua vita. Con il susseguirsi delle settimane, la ragazza riuscì a conquistare pian piano la fiducia della donna, con piccoli gesti e mezzi sorrisi strappati in momenti di pura quotidianità. Era una cosa bella, secondo lei; era bello svegliarsi la mattina col pensiero che, magari, avrebbe passato il pomeriggio al parco, con Henry e con Regina. Perché sì, per quanto quella donna – talvolta – potesse dimostrarsi fredda ed estremamente fastidiosa, la ragazza si era ormai abituata alla sua presenza. Ed era una presenza piacevole, che le scaldava il cuore, dandole speranza per un futuro migliore.

 

In compagnia di una risata euforica, Emma si sistemò maldestramente una piccola quantità di sale sulla mano, tra il pollice e l’indice. Espirò profondamente e, dopo aver leccato il sale dalla mano, bevve tutto d’un sorso la tequila, presente fino a poco prima nel bicchierino. Tossì un paio di volte, ma riuscì a dare, abbastanza in fretta, un morso alla fetta di lime, così da non sentire troppo il sapore del liquore. Quando rialzò lo sguardo, notò quello di Ruby puntato su di sé.
«Beh?» domandò, come se non avesse appena buttato giù l’ennesimo bicchierino di tequila; sul suo viso, intanto, si fece largo un ampio sorriso, che evidenziò le guance già di per sé rosse.
«Non credi di aver dato abbastanza per stasera?» la mora inarcò un sopracciglio, prima di riprendere a parlare. «So che in genere reggi bene l’alcool, ma direi che per stasera è sufficiente.» allungò una mano verso un bicchierino pieno che Emma aveva già adocchiato, e non appena lo allontanò dalla bionda questa si sentì profondamente offesa dalla mancanza di fiducia dell’amica.
Si erano ubriacate tante di quelle volte insieme, e le venne spontaneo pensare che avrebbe anche potuto lasciarla in pace quella sera.
«…Va bene!» esclamò dopo qualche attimo la ragazza, allontanandosi dal bancone e facendo un vago cenno della mano all’amica, nel tentativo di salutarla. «Non vengo a casa con te, devo andare da Regina.»
«Woh-woh, ferma!» Ruby la fermò prontamente, bloccandole un braccio. «Non puoi presentarti dalla madre di tuo figlio così! Rischi di fare cose di cui potresti pentirti.»
Emma assottigliò lo sguardo, osservando attentamente l’amica, come se stesse cercando di capire cosa volessero dire le sue parole. Non era abbastanza lucida da capire tutto al volo, ma non era neanche così ubriaca fradicia da non essere consapevole delle proprie azioni: barcollava un po’, straparlava, ma voleva andare da Regina Mills, e sapeva benissimo il perché. «Mi dispiace, Rubs.» si strinse nelle spalle, un’espressione euforica stampata in volto. «Devo dirglielo.»
«Dirle cosa?»
«Che mi sono ubriacata, che ho provato ad essere di nuovo un’adolescente, ma che credo di preferire lei a tutto questo.» lo disse con sicurezza, come se fosse una cosa scontata, come se Ruby sapesse qualcosa della cotta che aveva nei confronti di Regina. Come se lei stessa avesse mai avuto intenzione di parlarne con qualcuno. «Lei è anche meglio della Tequila.»
Allontanandosi, ad Emma parve di vedere un’espressione confusa sul volto dell’amica: ma ad oggi non saprebbe dirlo con certezza, essendo i ricordi di quella sera piuttosto offuscati, se non del tutto bui.

 

Le strade di Boston erano parzialmente illuminate dai lampioni, ai lati delle strade, e dalle macchine che sfrecciavano attraverso gli edifici, ignorando i limiti di velocità: mentre camminava, guardandosi intorno, Emma si domandò se stesse facendo la cosa giusta. Sentiva la testa più leggera ed ogni pensiero negativo se n’era andato, eppure il dubbio di andare da Regina oppure no era ancora lì, appeso tra il concreto e l’astratto. Da ormai un paio di mesi era certa di provare qualcosa per la donna: non sapeva perché, ma in un modo o nell’altro Regina Mills era diventata parte della sua routine, insieme ad Henry. C’erano momenti in cui la ragazza desiderava ardentemente una famiglia, e la desiderava con loro. Con loro e con nessun altro. Quella sera, dunque, reduce da diversi bicchierini di tequila, Emma Swan – una diciannovenne non esattamente come tante altre – decise che avrebbe fatto un passo in avanti verso quella spina nel fianco che era l’altra donna.
Si ricordò che qualcuno, una volta, le aveva suggerito di dichiararsi sempre, quando realizzava di provare qualcosa per una determinata persona. Le aveva suggerito di dichiararsi nonostante tutto: nonostante ogni paura e pregiudizio, a prescindere da qualsiasi tipo di dubbio. E, al momento, Emma riteneva quella come la situazione più facile per dichiararsi. “Al massimo”, pensò, “domani potrò dare la colpa all’alcool”.
Camminando sul ciglio della strada, la ragazza quasi non si accorse della pioggia che iniziò a bagnare la caotica cittadina di Boston; dapprima parve essere una banale pioggerellina di qualche minuto, ma ben presto si tramutò in una tempesta di acqua e di vento ben più forte, che costrinse Emma a barcollare più di quanto già facesse per effetto dell’alcool, ormai entrato in circolo da un po’. Tentò di ripararsi dalla pioggia col cappuccio della felpa larga che, quella sera, aveva deciso di indossare, il che fu solo relativamente utile; per sua fortuna, però, era ormai vicina alla casa di Regina, che – per quanto potesse essere diffidente nei confronti di chiunque – non l’avrebbe mai  lasciata sotto la pioggia. Emma ne era certa. Sebbene le tempie stessero già iniziando a martellarle il cervello, la ragazza riuscì a raggiungere – in una corsa disperata e piuttosto instabile – la villetta al numero 108: ne percorse con calma il porticato, ricordandosi il reale motivo per cui si era recata lì. Sostò per diversi istanti davanti all’uscio, rimuginando sul modo in cui avrebbe parlato a Regina ma, non trovando risposta, alla fine decise che avrebbe fatto affidamento alla spontaneità, e allungò una mano verso il campanello, suonando.
In attesa di una qualsivoglia azione di risposta alla propria, la diciannovenne si soffermò ad analizzare la propria figura: notò come, nonostante il cappuccio, i propri capelli fossero fradici e, se il riflesso sul pomello della porta non la ingannava, aveva ancora le guance tremendamente arrossate. Giunse alla conclusione che era impresentabile, ma era troppo euforica ed emozionata per porselo come un reale problema.
Un paio di minuti dopo la bionda giurò di poter sentire dei passi dietro la porta e, da lì, non ci volle molto perché la figura di Regina si affacciasse al porticato; in una frazione di secondo, lo sguardo cristallino di Emma scrutò la figura completa della donna. Osservò i capelli arruffati, il viso struccato, il corpo avvolto in un pigiama di seta grigia: era una visione insolita, insolita ma bellissima. Dischiuse le labbra – come se volesse iniziare a parlare –, ma da queste non vi uscì alcun suono, se non un sospiro soffocato, represso.
«Emma…» la mora aggrottò lo sguardo, palesando la propria preoccupazione nel trovare la ragazza sull’uscio della propria residenza. «È mezzanotte passata. Stai bene?»
La ragazza sentì lo sguardo della donna pungerle addosso, analizzarla, valutarla, e in quel momento non avrebbe saputo dire se era una sensazione spiacevole o meno. Le ci vollero ancora diversi istanti per proferire parola e, prima di riuscire finalmente a farlo, si schiarì la voce con un colpo di tosse appena percettibile. «Devo parlarti, posso entrare?» domandò, tutto d’un fiato, come se il minimo balbettio potesse mandare all’aria tutto.
Quando la mora si mise su un fianco, in modo da farle oltrepassare l’uscio, Emma non attese ulteriormente, entrando in casa Mills. Se in un primo periodo era solita fissare gli arredamenti di quella casa – domandandosi quanto fosse opera della proprietaria e quanto, invece, di qualche designer ingaggiato appositamente – ormai non ci faceva più caso: il suo sguardo si era abituato alla villetta arredata in stile moderno di Regina Mills, ed era l’unica cosa che Emma sentiva di poter chiamare “casa”, sebbene temesse che fosse tutto nella sua mente e che, una volta confidatasi con Regina, questa l’avrebbe presa per pazza. Quando concentrò la propria attenzione sulla madre adottiva di Henry la notò più sull’attenti, come se qualcosa le fosse appena balenato in testa. «Che c’è?» mormorò, quindi, Emma, dopo qualche attimo.
«Aspettami di là, io arrivo subito.» e dopo averle fatto cenno verso il salottino si allontanò, in direzione della cucina, e l’unica cosa che l’adolescente si sentì in diritto di fare fu seguirla con lo sguardo fin quando le fu possibile.
Dopo una manciata d’istanti fece quanto appena suggeritole, raggiungendo la piccola stanza e domandandosi ancora una volta su come si sarebbe rivolta alla donna: ormai era lì e, a quel punto, avrebbe dovuto farlo, ma come?
Invece che sedersi su uno dei due divanetti, posti l’uno di fronte all’altro, la ragazza si avvicinò al caminetto, nel vano tentativo di asciugarsi. Il suo sguardo si posò sulle fiamme, osservandole mentre si muovevano in una danza ritmica ma contorta. Sobbalzò quando la donna entrò nella stanza, obbligandola a rinsavire dai propri pensieri.
«Prendi questo.» la more le si avvicinò e, delicatamente, le appoggiò una coperta sulle spalle, probabilmente consapevole anch’ella che non avrebbe per nulla fatto bene alla salute di Emma rimanere al freddo ancora a lungo.
Le mani della ragazza si strinsero in una presa salda sui lembi della coperta e, sebbene il gesto di Regina le avesse fatto piacere, non riusciva a pensare ad altro che a ciò che stava per dirle; sapeva di star per compiere un grande passo verso la donna, e sperava solo che questa non decidesse di scappare. La paura di rovinare tutto era sempre lì, in agguato, pronta ad aggredirla, ma tentò in ogni modo di non farci caso.
«Quindi…» la voce di Regina catturò ancora una volta la sua attenzione; spostò lo sguardo cristallino, incatenandolo a quello scuro della latina. «Cosa dovevi dirmi? È successo qualcosa?» Emma percepì una punta di preoccupazione nelle sue parole, il che, inevitabilmente, le scaldò il petto, facendola godere di quel calore psicofisico che fino a quel momento era venuto a mancarle.
«No, no.» scosse il capo, prima di aggiungere dell’altro. «L’unica cosa che mi è successa è un’amica che mi ha portata fuori a bere.» accennò una piccola risata, come se volesse trovare un modo per sdrammatizzare la situazione. Ormai l’alcol – entrato in circolo già da un po’ – aveva iniziato a fare il suo effetto, ed Emma non avrebbe saputo dire con esattezza se quel mal di testa che la stava silenziosamente uccidendo fosse dovuto alla troppa tequila ingerita oppure alla non poca pioggia presa. Quando tornò a concentrare la propria attenzione su Regina incontrò uno sguardo severo, pentendosi amaramente di quanto appena detto.
«Sei ubriaca?» il suo tono era grave e, sebbene Emma schiuse le labbra per proferire parola, non le diede modo di rispondere, riprendendo subito la propria predica. «Se vuoi fare divertirti in quel malsano modo di voi adolescenti fallo pure, ma non venire mai più a casa mia – dove c’è mio  figlio – nel cuore della notte, perché la prossima volta giuro che―»
«Sono innamorata di te.» lo disse piano, in un sussurro, ma capì che Regina l’aveva sentita quando i suoi occhi bui si sgranarono, cercando quelli verdazzurri della ragazza solo dopo qualche secondo.
«…Scusa?» la voce di Regina le sembrò spezzata, soffocata, come se il respiro le si fosse bloccato a metà strada.
Lasciò scivolare la coperta a terra, compiendo qualche passo verso Regina ed afferrando le sue mani, senza dar modo alla donna di ritrarsi anticipatamente da quel gesto. «Io… non volevo che succedesse, Regina.» incrociò le proprie dita con quelle della donna, cercando la forza per parlare in quel contatto. «Ma non ho potuto evitarlo. E lo so che è un casino e che la situazione fa schifo, ma da quando ci siete tu ed Henry la mia vita è migliore.» deglutì quando vide l’espressione corrucciata di Regina, incapace di decifrarla. «Io… non pensavo che avrei mai trovato il mio posto prima di incontrarti, ma tutto ciò in cui credevo prima non ha più senso, adesso.»
«Emma, io non…» scosse il capo e si allontanò dalla ragazza, spezzando quel contatto di cui la ragazza avvertì subito la mancanza, sentendosi improvvisamente fredda e svuotata. Si era aperta con lei e, se il gesto della donna stava a presagire un rifiuto, non sarebbe stato facile accettarlo.  «È solo una cotta adolescenziale, non puoi neanche pensare di essere davvero innamorata di me.» distese le labbra in un sorriso amaro. «Facciamo finta che non sia mai successo.» aggiunse, in un sussurro.
«No!» il suo tono di voce fu più alto, aggressivo, atto ad inalzare quella barriera che Emma aveva, erroneamente, distrutto. «Non provare neanche a sminuire la cosa.» il suo sguardo brillava adesso di una scintilla diversa, ferita dal fatto che la donna neanche le credesse.
«Emma! Sei solo una ragazzina, non hai idea di cosa voglia dire amare qualcuno.»
La ragazza percepì un peso piombarle sull’addome a quelle parole. Il respiro le si spezzò tra le costole ed un’espressione ferita si stagliò sul suo viso; abbassò lo sguardo non appena sentì gli occhi inumidirsi, e tentò in ogni modo di ricacciare indietro le lacrime, incapace di dare una risposta concreta alla donna. Le parole di Regina erano sottili e taglienti come mille lame, e la ragazza non credeva di avere la forza per risponderle; si era privata di ogni maschera agli occhi della donna, aprendole il cuore, ed in cambio non aveva ricevuto nulla, neanche un barlume di fiducia.
«Emma―» come Regina allungò una mano verso il braccio della bionda questa si dimenò, indietreggiando bruscamente, senza degnare l’altra donna neanche di uno sguardo.
«Non toccarmi.» biascicò a denti stretti, rialzando di scatto lo sguardo verso di lei. Fece per dire dell’altro, ma una voce infantile rimbalzò contro le pareti della villa, richiamando l’attenzione di entrambe le donne.
«Si è svegliato Henry, devo andare.» Emma annuì a quelle parole, ma nonostante la tensione si fosse ormai frantumata continuava a sentirsi vulnerabile, nuda, ferita. «Non ti lascio andare in giro conciata così, puoi andare nella camera degli ospiti. Nell’armadio ci sono dei vestiti asciutti.»
Non trovò neanche la voglia di reclinare l’invito della donna, si limitò ad attendere che scomparisse oltre la soglia della porta prima di fare qualsiasi cosa. Strinse i pugni, graffiandosi i palmi delle mani con le unghie, e si trascinò su per le scale, come un ameba. Raggiunta la stanza la aprì con lentezza e, ignorando il consiglio di Regina a cambiarsi, si infilò semplicemente sotto le coperte, permettendo ad una sola lacrima di sfuggirle e di scivolarle calda lungo la guancia, tracciando sentieri che difficilmente rendeva visibili in pubblico. Socchiuse poi le palpebre, sperando di svegliarsi scoprendo che il rifiuto della donna era stato solo un brutto incubo.

 

La mattina seguente, quando si svegliò, la testa le pesava incredibilmente, e non era certa di essere capace di ragionare in maniera lucida. Aggrottò la fronte non appena realizzò di non essere nel posto dove si svegliava di solito, ma decise di poter aspettare per una risposta, rimandando qualsiasi problema ad un secondo momento. Certo, il fatto che fosse a casa di Regina – a casa della madre adottiva di suo figlio – la confondeva non poco, ma adesso aveva un bisogno impellente di farsi una doccia.
Quando s’infilò sotto la doccia bollente una sensazione di piacere la pervase; si sentì liberata da un peso enorme, come se stesse involontariamente cancellando le tracce di qualcosa. I ricordi della sera precedente erano poco nitidi: ricordava di essere andata a bere con Ruby e di essersi ritrovata sotto la pioggia, nel cuore della notte, ma nulla più di questo. Non sapeva spiegarsi cosa ci facesse lì, né tanto meno perché si sentisse come se le mancasse qualcosa. Sospirò, socchiudendo gli occhi e lasciando che l’acqua le scorresse sul viso, sul corpo, silenziosamente.

Indossò una camicetta grigia ed un pantalone scuro – entrambi trovati nell’armadio della stanza – e, mentre era intenta ad asciugarsi i capelli biondi con un asciugamano, Regina Mills entrò nella stanza, con un’espressione che Emma non riuscì a decifrare. Sembrava dispiacere misto a sollievo; sarebbe sembrata tranquilla agli occhi di chiunque, ma c’era qualcosa che stonava, qualcosa che faceva capire alla ragazza che la donna era tutto meno che tranquilla.
«Buongiorno.» la latina arricciò le labbra in un minuscolo sorriso, socchiudendo la porta dietro di sé.
Emma posò l’asciugamano sul bordo del letto, sistemandosi i capelli con un gesto della mano. «Riguardo a ieri sera…» continuò, prima di venir interrotta dall’adolescente.
«Ecco, a proposito di quello.» la bionda si schiarì la voce, un po’ imbarazzata dalla situazione. «È… imbarazzante, ma non ho idea del perché io sia qui. Credo di… aver bevuto più del dovuto, ieri.» ammise dopo qualche secondo, in un filo di voce.
«Non… non ti ricordi nulla?»
Scosse la testa, stringendosi un po’ nelle spalle. «No, non proprio. Ricordo di essere stata ad un pub e di essermi ritrovata nel bel mezzo di un temporale, ma niente più di questo.» le parve quasi di deludere la donna con quelle parole; corrugò leggermente la fronte quando Regina abbassò lo sguardo, ma non fece in tempo a parlare, prontamente anticipata dall’altra.
«Ah, va bene.» un sorriso, che ad Emma non parve affatto sincero, si delineò sulle labbra rosee della latina. «Ti aspetto sotto, la colazione è pronta.» e così dicendo afferrò il pomello della porta in mano, voltandosi per uscire dalla stanza.
«…Regina.»
«Sì?»
«Stai bene?»
«Certo.»
Le sorrise, osservandola mentre si allontanava dalla stanza, prima di riprendere ad asciugarsi i capelli.

«Eccomi!» esclamò, irrompendo nella sala da pranzo. Regina, ai fornelli, si voltò verso di lei, ed Emma non poté che rivolgerle un piccolo sorriso, che – ne era certa – sarebbe stato recepito dalla donna. Un versetto indefinito si levò nell’aria, catturando la sua attenzione, e la ragazza si voltò in direzione del bambino seduto sul seggiolino, vicino alla tavola. «Oh, siamo già svegli?» sorrise, avvicinandosi ad Henry e posandogli un piccolo bacio sulla fronte. Dal canto suo, il bambino si dimenò, allegro, distendendo  la boccuccia in un ampio – e perlopiù sdentato – sorriso.
«Gli sta spuntando un altro dentino.» dichiarò Regina, con una punta d’orgoglio nel tono della voce, posando sul tavolo un piatto di pancakes. Emma si sedette affianco ad Henry e di fronte a Regina, mettendosi un pancake nel piatto ed iniziando a spalmarci sopra una buona quantità di Nutella.
«Non dovrebbe iniziare anche a parlare, ormai?» domandò dopo qualche minuto. Non era una grande esperta nell’ambito “bambini”, ma più di una volta le era capitato di trovarsi con bambini piccoli nelle case famiglia, e tutti – intorno al primo anno di età – già dicevano qualche parola.
«Dovrebbe, sì.» la latina annuì, osservando il figlio bere il latte dal biberon. «Ma la cosa è piuttosto soggettiva, in realtà.» scrollò le spalle sorseggiando il suo thè, ma prima di lasciare che la conversazione sprofondasse nel silenzio si prese il diritto di fare un commento riguardo la bionda. «Tu, piuttosto, dovresti andarci piano con quella.» inarcò un sopracciglio nel notare quanta Nutella ci fosse sul pancake della ragazza, ma probabilmente si ricordò presto delle malsane abitudini alimentari della ragazza, perché quell’espressione le sparì rapidamente dal viso.
«È solo un po’ di Nutella!» si giustificò la ragazza, ed una risata da parte del bambino delineò la fine della conversazione.
I successivi dieci minuti li trascorsero pressoché in silenzio, con qualche minimo intervento di Emma che veniva prontamente accantonato, lasciando morire qualsiasi discorso. Col trascorrere dei secondi, si domandò quale fosse il problema – perché era evidente che qualcosa non andasse. C’era una strana tensione nell’aria, e l’unica nota positiva era il sorriso del piccolo Henry. Spensierato, felice, come ogni bambino dovrebbe essere. Ma come non era stata lei. Trattenne un sospiro e non appena Regina si alzò lei fece lo stesso, prendendo il proprio piatto e il biberon di Henry e portandoli in cucina. Li posò su un bancone e osservò la figura della donna che le dava le spalle; l’acqua del lavabo scorreva sulle stoviglie sporche, ma Regina era ferma, con le mani strette sul bordo del bancone e il capo leggermente chino.
«Hey.» Emma tentò di avvicinarsi, preoccupata, ma come compì qualche passo in direzione di Regina questa si girò, rivelando alla ragazza un’espressione interrogativa.
«Provi qualcosa per me?» quella domanda fu rapida ad arrivare, schietta e diretta; dischiuse prontamente le labbra per chiarire qualsiasi dubbio di Emma, la voce incrinata non sfuggì all’attenzione della ragazza. «Ieri sera hai… Hai detto che sei innamorata di me; e io ti ho respinta, e forse l’ho fatto nel peggiore dei modi, ma―»
«Sì.» deglutì prima di riprendere a parlare, consapevole che ormai non sarebbe servito a nulla negare l’evidenza dei fatti. «Sì, Regina, provo qualcosa per te, e voglio stare con te. Voglio stare con te e con Henry, voglio poter gridare al mondo intero che siamo una famiglia. Ho finalmente capito qual è il mio posto― ma se non vale lo stesso per te allora mi farò indietro. Continuerò a seguire Henry e tu continuerai ad aggiornarmi sui suoi progressi, ma ti lascerò in pace. Se è questo quello che vuoi, però, devi dirmelo, e devi dirmelo guardandomi in faccia.»
«Pensi che ti voglia respingere?»
Emma aggrottò la fronte; le aveva appena detto che la sera precedente l’aveva allontanata, perché adesso le cose avrebbero dovuto essere cambiate? «Non è così…?»
Ancor prima di ricevere una risposta Emma vide la distanza tra le due annullarsi totalmente, ed in un attimo le labbra della donna furono sulle sue; s’irrigidì d’istinto, ma dopo qualche secondo acquistò sicurezza e lasciò scivolare una mano sul fianco della donna, l’altra mano a sfiorarle la guancia. Ricambiò quel gesto, e quel bacio non fu passione, o potere, ma fu più la ricerca di un qualcosa che si erano negate per troppo tempo. Quel bacio fu le parole che non si erano mai dette, fu gli attimi passati e quelli che sarebbero venuti da lì in poi. La ragazza interruppe quel contatto dopo diversi istanti, un sorriso ad ornarle il viso. «Cosa ti ha fatto cambiare idea?» domandò, poi, sinceramente curiosa, il viso a pochi centimetri da quello della donna.
«Non ho mai voluto respingerti, Emma.» ammise Regina, in un piccolo sorriso. «Ma mi hai colta alla sprovvista e ho avuto paura.»
«Paura?»
«Paura di ammettere quello che provo anch’io per te.»
Emma annuì, avvicinandosi al viso della donna per rubarle un altro bacio, ma una voce richiamò la loro attenzione, in sottofondo.
«Mam–me!» il piccolo Henry batté le manine, ed Emma vide gli occhi di Regina colmarsi di gioia nel sentire il bambino pronunciare la sua prima parola. Dal canto proprio, Emma si ritrovò più destabilizzata dalla parola che il piccolo aveva detto. Sorrise, avvicinandosi ad Henry e prendendolo in braccio.
«Qualcuno potrebbe pensare che stai con me per i soldi, sai?» Regina inarcò un sopracciglio nel pronunciare quella frase, le labbra arricciate in un piccolo sorriso.
«Tu dici?»
«Beh, tu sei una ladruncola che vuole una vita migliore, io una donna ricca, e tu mi stai… diciamo “corteggiando”.» chiarì Regina, accarezzando i capelli di Henry.
«Sarebbe un po’ un cliché.» si limitò a dire Emma, e tutti e tre – Henry incluso – si lasciarono trasportare da una risata, contagiosa e felice.
   
 
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