Serie TV > Merlin
Ricorda la storia  |      
Autore: Shannara_810    31/12/2008    7 recensioni
"Finalmente... finalmente ti ho ritrovato Merlino". Erano trascorsi più di mille anni da quell'ultimo tragico incontro. Storia di un amore che nemmeno la morte ha potuto scalfire.
Genere: Romantico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Merlino, Principe Artù
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Titolo: L’attesa
Rating: G
Pairing: Arthur/Merlino
Spoilers: Episodi 1x07 e 1x08.  
AN: Merlin appartiene alla BBC. Detto questo, non ho idea da cosa sia uscita questa storia. So solo che sentivo il bisogno di scriverla perché il conoscere l’epilogo di tutte le leggende arturiane alla luce delle nuove emozioni lasciatemi da questo telefilm non ha fatto altro che accentuarne l’amaro. Questa storia parte dal presupposto che Merlino, immortale, vaghi ancora su questa Terra nella speranza di rivedere un giorno lontano il suo Arthur.

Piccolo consiglio. Ho scritto questa storia ascoltando le note di Looking like that dei Westlife. Su Youtube e nella sezione di Google c’è un bellissimo video Arthur/Merlin con in sottofondo questa canzone. Guardatelo ne vale davvero la pena.
Ora vi lascio ad una buona lettura ed auguro un buon anno a tutti voi.
 
L’Attesa
Alle volte è difficile immaginare lo scorrere di un secolo dopo l’altro. Lo stesso pensiero, la stessa idea di poter assistere al loro passaggio ha un che di astratto, assurdo. Gli uomini non sono fatti per vivere in eterno. Possono solo assaporare pochi anni che, innanzi all’eternità della Terra su cui camminano, divengono insignificanti.
Il fluire del tempo... i filosofi hanno speso ore ed ore, parole su parole, per tentare di trovare un senso preciso a tutto questo. Anche se non si tratta di uno fluire pacifico, questo lui lo sapeva bene. Lui l’Emrys, l’Immortale. Non c'era persona migliore a cui chiedere di definire lo scorrere del tempo.
Riflettendoci bene il passare del tempo è più simile alle onde prodotte da un granello di sabbia caduto sulla superficie di un lago pacifico. Il granello è sospeso in aria per un attimo interminabile, quasi ad esitare prima di colpire l’acqua, come indeciso se la sua azione sia la migliore nello svolgersi degli eventi. Ma è già troppo tardi perché l’attimo è oramai trascorso ed esso cade, spezzando il sottile equilibrio tra aria ed acqua per poi sprofondare oltre la superficie. Ha fatto la sua scelta.
È così che si sentiva Merlino mentre camminava lento lungo una strada affollata come un’altra, fra decine di volti tutti uguali che non avrebbero mai saputo della sua esistenza. Parigi, Barcellona, Roma, Hong Kong, New York e Londra ancora una volta. Città che aveva già visto tutte innumerevoli volte. È molto il tempo a tua disposizione se hai già vissuto più di mille anni. 
L’Emrys. Contadino, servo, stregone del re. Un vagabondo ora, un viaggiatore senza meta, che ha visto imperi sorgere e crollare sotto il peso di tirannie peggiori di quella di Uther. 
Ma erano tempi lontani quelli. In quel nuovo mondo di computer non c’erano più draghi a parlare di saggezza e moneta e destino. Non c’erano più unicorni o altre creature magiche. C’era solo lui. C’era solo Merlino.
Tutti gli altri erano già passati oltre, ad Avalon. Gli altri erano già al suo fianco ma non lui. Non Merlino. Merlino costretto a vagabondare in un mondo grigio e spoglio chiedendosi solo perché non anch’io? Cosa ho mai fatto per meritare questo? Questo castigo? Perché in che altro modo poteva definire lo stare lontano da quella persona?
Merlino.
Era strano anche solo risentire il suono di questo nome.
Merlino.
Nome abbandonato più di mille anni fa, perché indissolubilmente legato a quello di un altro. Aveva finito quasi per odiarlo.
Durante il diciannovesimo secolo era stato chiamato Matthew, ma quel nome aveva ben presto perso il suo fascino. Verso la fine del ventesimo era toccato a Michael, ma anche questo lo aveva stancato quasi subito.
Ora nel nuovo millennio, per la prima volta in centinaia di anni, aveva scelto di reclamare Merlino. Un ultimo, disperato tentativo di rivivere un qualcosa che non sarebbe più potuto essere. Perché nemmeno quel nome, il nome datogli da sua madre, aveva più lo stesso suono.
Non oggi. Non nella nuova era tecnologica. Quel nome portava con sé il peso di una leggenda che non era, che non sentiva, sua. Forse per quel tono tendente al riso con cui veniva pronunciato, o per l’immagine che riportava alla mente collettiva. Un uomo canuto dal lungo cappello a punta. Chi avrebbe mai potuto sospettare che Merlino era solo un ragazzo dai capelli scuri con le orecchie forse un po’ troppo grandi?
Non era quello il suo posto. Lo sapeva. Non c’era più un posto per lui in quel mondo ma non importava. Perché lui doveva rimanere lì a prepararli, a preparare quel mondo freddo. Cosa sarebbe successo se avesse rifiutato quella responsabilità ingrata?  Cosa, se avesse deciso di passare oltre insieme agli altri per raggiungerlo? Non poteva, lo sapeva Merlino. Il destino non glielo avrebbe permesso. Il mondo aveva bisogno di ricordare, ricordare di loro e di ciò che avevano compiuto. Era questo il dovere di Merlino.
Una folata di vento gelido lo fece riscuotere da quei pensieri scuri che non avrebbero portato a nulla. Il desiderio di lasciarsi andare ai ricordi era una tentazione troppo grande, anche dopo tutto quel tempo. Se lo avesse fatto, le vecchie ferite si sarebbero riaperte e non avrebbe potuto sopportarlo.
Non doveva provare nulla. Doveva essere insensibile e distante come la nuda roccia che aveva costituito il suo bel castello perché altrimenti anche l’ultima cosa che lo legava a quella vita, il suo dovere, gli sarebbe stata portata via. Meglio concentrarsi su altri pensieri.
Doveva trovare quella libreria. Ne aveva sentito parlare su internet. Il fulcro della letteratura e della storia medievale. Stando alle notizie che aveva raccolto, con un’intera sala dedicata alla grande città di Camelot e ai suoi gloriosi abitanti. Vi avrebbero esposto tutte le ultime scoperte e Merlino era curioso di sapere quanto quel mondo gelido si era avvicinato alla verità.
Un desiderio alquanto masochista il suo, irrazionale. Dopo tutti gli sforzi fatti per dimenticare… ma non poteva fare altrimenti, non quel giorno in tutto l’anno.
Almeno per quel giorno, aveva bisogno di sentire… sentire qualcosa di familiare.
Doveva ammetterlo: erano riusciti a centrare molta della storia. Pensò a Gwen e a Lancillotto, al tradimento di Morgana, ma alle volte era assalito dall’assurdo desiderio di mettere le cose a posto. Nessuno aveva mai menzionato Gaius, mentore e amico. Uomo di logica ed ingegno che si sarebbe aspettato sempre il massimo da te. Ma che, al tempo stesso, sapeva essere una persona gentile ed altruista. Nessuno parlava di Aulfric e Sophia che avevano complottato per uccidere il suo principe e ci erano quasi riusciti. Nessuno parlava della donna che Morgana era stata prima, prima di tutto quell’orrore. Nessuno parlava del suo umorismo.
E nessuna storia parlava del Grande Drago, di quella creatura saggia ed antica con un’innata passione per gli indovinelli che non capivi il più delle volte. Spesso, nei momenti in cui lo sconforto lo assaliva più forte, gli sembrava di poter ancora sentire la sua voce. Quella voce forte e rassicurante che gli diceva di non mollare, che la sua ricompensa era prossima, vicinissima.
Solo stupide fantasie.
Nessuna storia parlava del grande legame di amicizia che Merlino aveva nutrito per loro o del suo grande dolore per essere separato dalle persone cui teneva.
Nessuno di loro parlava del suo profondo amore per Arthur.
Arthur, il cui ricordo era sempre vivo in lui. Arthur, Re di Camelot e così tanto ancora. Arthur che aveva guidato il suo popolo con grazia e compassione, senza contare qualche momento di idiozia. Non era ancora riuscito a digerire la storia dell’unicorno.
Era quello l’Arthur che voleva svelare al mondo intero, quello che era morto con coraggio tra le sue braccia. Quello che lo aveva amato così appassionatamente e baciato con tanta dolcezza.
Arthur che Merlino aveva amato e avrebbe continuato ad amare in eterno.
Svoltò all’angolo, seguendo un percorso già compiuto in passato. La libreria doveva trovarsi a Gala Ave, ma la strada sembrava mutata dal suo ricordo che risaleva a cinquant’anni prima. Non gli dispiaceva girovagare un pochino. L’aria fredda della sera inglese lo scuoteva, impedendogli di annegare nella sua malinconia.
Le strade si erano via via svuotate. La gente era a casa oppure aveva già trovato la sua stessa meta. Luci distanti illuminavano le finestre mentre una triste melodia di violino accompagnava il requiem di un pianoforte. Erano le note di un canto funebre antico, perso nel tempo, una canzone di una tristezza infinita da spezzarti il cuore ad ogni singola nota. Il cuore di Merlino si ruppe in mille frammenti ancora una volta ma il mago si costrinse a continuare.
Il corso dei secoli non era servito ad alleviare il suo dolore. Gli bastava intravedere tra la gente uno sprizzo di capelli dorati o occhi azzurri ed Arthur era di nuovo davanti a lui. Così vicino, eppure così lontano.
Col tempo aveva smesso di guardarli quei falsi Arthur. Di inseguirli in strada, invocando il suo nome. Ma non era servito. Centinaia di Arthur si erano susseguiti l’uno dopo l’altro, spettri serviti solo a scavare il baratro nel suo cuore un po’ più a fondo.
Alle volte il desiderio di ricorrere alla magia era forte. Quando uno spettro indugiava a ricambiare il suo sguardo, era doloroso staccarsi da quella fantasia. Gli sarebbe bastato poco più di un sussurro per trasformare quel miraggio e credere che Arthur fosse ancora lì con lui. Nei primi giorni della sua solitudine, la sua lontananza lo aveva fatto quasi impazzire. Lo aveva spinto fin quasi a compiere gesti estremi.
Ma si era sempre fermato in tempo. Non aveva potuto farlo, sarebbe stato tradimento verso il ricordo del suo principe… del suo re.
Indugiare nella magia non gli avrebbe dato alcun conforto. La magia, suo segreto e salvatrice, che era divampata viva al tocco di Arthur la prima volta che si erano stretti, timidi ed impacciati. La magia gli era esplosa sulle labbra quando la sua lingua aveva incontrato quella di Arthur e loro due, nudi, avevano visto l’alba sorgere su Camelot. La sua magia che si era scatenata come una dichiarazione d’amore.
Perché nemmeno più quella magia gli era familiare.
Eccola, finalmente. Gala Ave. Ad ogni passo sentiva una morsa stringergli il cuore. Una morsa che lentamente ma inesorabilmente si faceva più forte, più straziante. Come la marea che si ritira lenta pronta a sferrare il suo attacco sulla costa.
Ad ogni passo migliaia di ricordi tornavano ad affacciarsi prepotenti nella sua mente, facendogli chinare il capo sotto il loro peso. Ma nessuno lo fermava. Nessuno si accorgeva di lui.
Era un mondo freddo quello in cui viveva.
Finalmente era giunto. La nuova sfavillante libreria che tanto i media avevano reclamizzato.
Cercò di ricacciare indietro il dolore almeno per un istante mentre varcava la soglia di quel luogo che, sperava, poter essere il suo santuario. Solo per quel giorno, non chiedeva altro. Un giorno soltanto per ricordare chi era, chi era stato e tutti coloro che lo avevano amato.
Entrò senza fare alcun rumore, sfilandosi il pesante cappotto invernale e scomparendo tra la folla, invisibile.
Decine e decine di giganteschi scaffali accompagnavano il suo cammino, strappandogli la luce, imprigionandolo nel buio, come un qualcosa di incorporeo, inafferrabile.
Il fantasma di un tempo che non era più.
Un fantasma che continuava a soffrire e sanguinare nonostante si sforzasse di essere forte. Inattaccabile, invulnerabile.
Sentiva il mondo stringersi intorno a lui, tentare di schiacciarlo. Quel luogo voleva risucchiarlo, imprigionarlo per sempre… non poteva mentire a se stesso. Era quello che desiderava anche lui, infondo al suo cuore.
Ma doveva andare avanti.
Ogni passo, una tortura che aveva cercato di sua volontà. Iniziò a vagabondare tra una fila di libri ed un’altra. Non erano questi ciò a cui anelava.
Le voci delle persone erano solo un groviglio indistinto che rimbombava nel caos della sua testa, senza un senso logico, senza importanza. Una macchia confusa che agiva sullo sfondo lasciandolo sempre terribilmente solo.
Poi una voce chiara, di donna, sorse dalle altre. Il lungo corridoio buio era finito, cedendo il posto ad uno spazio ampio, colorato. Risate infantili.
Nel centro della sala riservata ai bambini, seduta in un cerchio di ragazzi rapiti dalle sue parole, una donna stava leggendo. Una storia che conosceva bene e che avrebbe voluto dimenticare.
Quelle frasi lo bloccarono, come pesanti catene d’acciaio che imprigionavano la sua volontà. Non poteva allontanarsi, fuggire. Solo attendere, immobile, che infierissero un colpo dopo l’altro sul suo spirito già martoriato.
Uno, due, tre colpi. Per un minuto, un’ora, un giorno intero.
Non sapeva per quanto tempo era rimasto fermo lì, nella penombra di uno scaffale come tanti, ad ascoltare e ricordare mentre calde lacrime gli rigavano il viso pallido.
La morte di Arthur.
Immagini presero a susseguirsi rapide innanzi ai suoi occhi. Tentò di serrarli, di coprire le orecchie per impedire che quelle parole giungessero ancora a lui, che rievocassero quei ricordi troppo dolorosi, ma era già tardi. Troppo tardi.
Un albero.
Il calore del sole che riscaldava la sua pelle umida.
“Merlino, che stai facendo?”
Un sorriso beffardo.
E poi seta rossa,
dorata.
Le acque calme di un lago.
Nubi che si trasformarono presto in burrasca.
Luce. I riflessi di due spade che sferzavano l’una contro l’altra.
“Excalibur. La chiamerò così”.
Una barca che solcava le onde.
Sangue.
Tanto sangue.
“Non avresti potuto fare nulla”.
Tamburi rimbombavano nella sua testa.
Pelle, liscia ma forte sotto le sue dita,
sapore di fragole,
suono di trombe.
Un sorriso arrogante e pieno d’amore come l’uomo di cui adornava il viso.
Ancora luce ed un dolore infinito.
“Lo sai che ho amato soltanto te, vero?”
No, no, NO! Perché? Perché, ora! Ora che aveva sperato di essere divenuto vuoto, insensibile. Perché gli facevano questo?!
Si portò le mani al petto, lasciando cadere il suo cappotto al suolo, tentando di fermare i singhiozzi che oramai gli mozzavano il respiro. Merlino si accasciò contro una delle pareti provando a fermare il pianto. Iniziò a colpire il muro freddo ma era tutto inutile. Non sentiva più nulla. Solo quella ferita lacerante che continuava a sanguinare da oltre mille anni facendogli desiderare la morte, un secondo dopo l’altro, ma da cui non avrebbe mai avuto pace.
Doveva andare via da lì, doveva! Non avrebbe resistito un istante in più.
Tutto ma non quello. Non la sua morte ancora.
Era venuto solo per avere un po’ di calore, per ritrovare quel legame che non si era mai spezzato.
Perché lo torturavano così?
Doveva andare via… via!!!
Fuggì, incurante dei sussurri dei passanti, facendosi strada tra la folla con la forza. Loro non sapevano. Loro non capivano.
Fuggì incurante della neve che aveva preso a cadere sempre più forte, ammantando le vie con il suo freddo manto.
Fuggì incurante di quello sguardo di tempesta carico di mille emozioni che aveva seguito ogni suo passo.
C’era solo il dolore che gli squarciava il petto e la solitudine che gli mozzava il respiro.
C’era solo quello in lui.
Solo lo strazio di un’anima che per il mondo intero era muta.
Fuggire era tutto ciò che gli restava, ma nessuna distanza lo avrebbe separato da quei ricordi. Era impossibile.
Corse senza sosta.
Cadde e si rialzò, gli abiti zuppi.
Corse fino ad accasciarsi su una panchina in un parco deserto. Una statua immobile, rannicchiata su di un legno sbiadito. Il gelo dell’inverno si era fatto più pressante ma nemmeno la sua morsa serviva a riscuoterlo. Vestiva di una felpa oramai fradicia, ghiacciata, ma nemmeno quella gli faceva provare anche l’ombra di un’emozione.
Se ne restava fermo lì, accovacciato col capo chino, tentando di ricacciare indietro le grida che gli salivano dalla gola riarsa. Urla di dolore contro un destino che non aveva mai voluto. Urla di disprezzo per la sua stessa debolezza.
Ed, intanto, quegli occhi di tempesta lo osservavano mesti. Lo avevano cercato tanto. Così tanto.
Era lì, a pochi passi.
Era lì.
Basta, basta.
Era questo il suo unico pensiero.
Non posso più sopportarlo, non posso.
Merlino… Merlino…
Qualcuno stava mormorando il suo nome. Merlino.
Sentì qualcosa di soffice posarsi sulle sue spalle. Una giacca calda troppo grande per il suo corpo esile. L’ennesima fantasia. Non poteva essere che qualcuno gli si fosse avvicinato senza che se ne fosse accorto.
“Prenderai freddo”. Una voce gentile e preoccupata.
Conosceva quella voce. Si, la conosceva.
Ogni notte tornava a tormentarlo nei suoi sogni, dandogli una falsa speranza per poi strappargliela senza pietà alle prime luci dell’alba. Sono finalmente impazzito completamente da non distinguere più tra realtà a finzione? È questo il mio limite?
Ma che importanza aveva se era ancora uno dei suoi stupidi sogni ad occhi aperti? Non gli restavano che quelli, soltanto quelli per sopportare un altro respiro che lo avrebbe tenuto in quel mondo freddo.
Continuava a tenere gli occhi chiusi, i pugni serrati in una morsa d’acciaio. Anche quella era un’illusione, non poteva essere altrimenti.
Sentì una presenza accomodarsi al suo fianco immobile, in attesa, come un’ombra gentile che vegliava su di lui.
Era questa la pazzia? Questo il futuro che gli dei dell’Antico Culto gli avevano riservato? La pazzia dopo un’eternità di solitudine?
Sempre con gli occhi stretti, piano piano iniziò ad aprire le mani, a sfiorare la pelle scura della giacca che lo stava scaldando. C’era davvero quella giacca. Non la stava immaginando.
Aveva un buon odore quella giacca scura. Un odore di un tempo remoto.
No, non solo un odore. Era un’esplosione di sensazioni che lo colpirono in pieno, facendo sprizzare di energia e magia ogni sua piccola cellula.
Era un sapore antico, di spade.
Era l’odore del sudore di un corpo pallido e perfetto che danzava sul suo alla luce di una candela.
Era il tocco gentile di una mano ruvida che lo faceva impazzire.
Era… era… era…
Gli occhi scuri gli si spalancarono per la sorpresa.
BUM BUM BUM
Il suo cuore aveva preso a martellargli in petto con tutta la forza che possedeva, tutta la forza del suo potere, rispondendo pronto ad un richiamo che conosceva come nessuno mai.
Era lui… era lui…
“Merlino… tu idiota”.
Un singulto. Uno soltanto mentre le membra s’irrigidivano e tutto il suo corpo veniva scosso da tremori.
La bocca si spalancò, affamata d’aria, incapace di alcun suono.
“Guardami, Merlino”. Un ordine, una preghiera.
E Merlino lo fece. Come avrebbe potuto disobbedire?
E tutto ciò che poté vedere fu solo quel blu.
Il blu di quello sguardo.
Un blu che sapeva divenire tempesta quando confuso.
Un blu che diveniva color del cielo quando si posava su di lui, Merlino.
Era lì, reale.
Lui era tornato.
Era tornato, come aveva desiderato tante e tante volte. Come aveva desiderato in modo egoistico prima di tentare di convincersi quanto fosse impossibile.
Capelli biondi del colore dell’oro che incorniciavano in modo scompigliato una pelle eterea, perfetta. Erano più lunghi ora, tagliati in modo moderno, così come lo erano i suoi vestiti.
Semplici jeans scuri ed una pesante camicia rossa. Una sciarpa a scacchi gli cingeva il collo sottile.
“Arthur…”. Riuscì a mormorare.
Arthur, Arthur, Arthur.
Non era capace di pensare ad altro. La sua mente, tutto il suo essere, era come svuotato.
C’era solo quella parola che rimbombava con prepotenza in ogni sua parte più piccola.
Arthur, Arthur, Arthur.
Una mano tremante si mosse lenta, cercando di avvicinarsi a quel volto che tanto gli era mancato ma col terrore che se lo avesse sfiorato per un solo istante, esso sarebbe scomparso.
“Arthur…”.
Lo straniero prese quella mano tra le sue e la condusse sul suo volto, scaldandola col calore della sua pelle. Era reale… era vivo.
Poi non ci fu null’altro.
Occhi azzurri che si rispecchiavano nei propri mentre tutto il mondo sembrava risplendere di una luce nuova, calda e colorata con la forza di infiniti arcobaleni.
Ora tutto sarebbe andato a posto.
Ricordi di un castello, di risate, di notti trascorse al chiarore delle stelle in cui nulla importava se non i loro cuori si fecero strada in mezzo a tutto quel dolore, spazzandolo via. Avevano un gusto nuovo, diverso.
Non facevano più male. Non sanguinavano. Erano di nuovo completi.
“Finalmente ti ho trovato, Merlino”.
Ed, infine, anche quei ricordi si dissolsero, cancellati dalle braccia di Arthur che lo stringevano. Il suo petto caldo sotto il suo viso, il battito del suo cuore al cui suono tante notti si era addormentato.
In quel momento, pianse Merlino. Pianse tutte le lacrime che aveva trattenuto in quei lunghi secoli. Pianse tra le braccia del suo sogno più remoto, dell’unico desiderio che nemmeno la sua magia avrebbe mai potuto realizzare.
Ed Arthur lo lasciò fare. Il tempo delle domande sarebbe venuto dopo.
Secondi, minuti, ore.
Cose senza alcun valore, irrilevanti.
Il mondo avrebbe potuto finire in quell’istante e non avrebbe avuto alcuna importanza. C’era solo quell’abbraccio. Solo quello, il fulcro dell’intero universo.
Eppure doveva sapere Merlino. Doveva. Non avrebbe sopportato di perderlo. Non ora che si erano ritrovati.
Mai più. Mai più senza Arthur.
Al diavolo il destino, al diavolo il grande disegno.
Arthur, Arthur, Arthur.
“Ma come? Perché sei qui? Tu…”. Mille domande, mille pensieri che si accavallavano l’uno sull’altro senza che riuscisse ad esprimerne alcuno.
“Shh”. Dolcemente Arthur gli posò un dito sulle labbra screpolate, tracciandone quei contorni che conosceva bene ma di cui mai si sarebbe stancato.
Merlino era completamente rapito da quei movimenti ipnotici. Avrebbe fatto tutto quello che Arthur gli avesse chiesto. Il come e il perché non importava. Erano di nuovo insieme.
Il giovane che un tempo lontano era stato Re di Camelot si chinò a baciare quelle labbra che sapevano di lacrime, d’estate, assaporandone il gusto lieve che lo aveva accompagnato nel suo lungo sonno.
“Diciamo che sono la tua scorta. Dall’altra parte, hanno visto quanto il mio servo imbranato fosse perso senza il suo principe a salvarlo ad ogni passo, così hanno pensato che era meglio mandarmi a tenerti fuori dai guai”. Lo disse con la sua espressione più arrogante, strizzando un occhio con fare complice che ebbe l’effetto di far avvampare il povero mago.
Era Arthur, era davvero Arthur. Quella era la prova inconfondibile.
“Stupido… pomposo… idiota”. Ogni parola era scandita da un colpo contro quel petto caldo da cui non si allontanava, non poteva allontanarsi. Nuove lacrime gli rigarono il viso, ma stavolta era diverso. Erano lacrime di gioia. Di una gioia infinita che non aveva parole per descrivere.
Arthur lo strinse ancora a sé, circondandolo con le sue forti braccia mentre intorno a loro la neve aveva smesso di cadere lasciando spazio solo per un bianco candido.
“La dama del Lago mi permesso di scegliere, Merlino”. Iniziò a raccontare con voce pacata, tranquilla. “Continuare a dormire per poter essere di nuovo re un giorno, oppure svegliarmi, rinascere e rinunciare ad un trono lontano per poter vivere da vagabondo in un mondo che non sarà mai mio, al fianco dell’unica persona importante per me. Non credo che ci fosse molto da scegliere, idiota. Sono vent’anni che aspetto questo momento”.
Ed era vero. Dal giorno in cui era venuto di nuovo al mondo, per Arthur non era esistito null’altro. Solo il ricordo di quel ragazzetto imbranato con le orecchie un po’ troppo grandi ma che doveva assolutamente ritrovare.
Quelle parole gli fecero sollevare il capo di colpo. Arthur non aveva potuto... il suo destino…
Ma il principe, no il re, si limitò a scuotere la testa sollevando i piccoli riccioli biondi, liberandoli dalla neve. Scosse il capo come a leggere i mille dubbi che si affollavano in quella mente confusa. Arthur gli sollevò il mento con un dito, costringendo il povero mago a perdersi nel blu terso, infinito dei suoi occhi.
“Abbiamo già dato tanto al destino, Merlino. È arrivato il momento di essere un po’ egoisti per una volta”.
Non c’era bisogno di dire altro. Eppure Arthur sentì di dover mettere in chiaro una cosuccia.
“E poi, da quello che so, una certa persona merita una bella ricompensa per tutto il tempo trascorso da eremita”. Si staccò dal mago a malapena, a malincuore, Merlino che seguiva meccanicamente ogni suo più piccolo movimento, non abbandonando mai la presa sulla sua camicia rossa. Arthur allargò le braccia per mostrare la sua figura in una sorta di strana dimostrazione. “Hai il coraggio di dire che non sono un bel premio? Sul serio, Merlino, mi sento offeso”. Prima che l’altro potesse perdersi in una delle sue solite sviolinate da principe impossibile, il moro lo strinse ancora una volta, nascondendo il riso in quel petto ampio.
Sembra un gattino, si trovò a pensare Arthur, sentendo il volto del suo piccolo imbranato strofinarsi contro la stoffa ruvida della sua camicia quasi nell’accentuare l’idiozia di quelle parole.
Restarono così ancora per un po’ mentre la notte avanzava. Arthur, infine, lo prese per mano incurante del freddo e del vento, osservando con la coda dell’occhio quella figura esile che aveva tanto amato racchiusa in una giacca scura troppo grande. Conducendolo verso casa, dove si sarebbero scaldati innanzi ad un camino acceso, l’uno tra le braccia dell’altro, gustando il dolce sapore di una cioccolata calda e dei loro baci.
Le strade, ora illuminate a festa, avevano ripreso ad affollarsi. Le persone uscivano dalla libreria discutendo di tutto ciò che avevano appreso, ignare del piccolo miracolo che si era compiuto a pochi passi da loro.
I bambini ridevano felici giocando con finte spade di cartone, impersonando ora Arthur, ora Lancillotto, ora il saggio Merlino.
Il mago si teneva stretto al suo Arthur beandosi della sua voce, del suo calore, della sua presenza.
“Merlino… tu pensi che dovremmo mai correggerli?” Gli domandò d’un tratto il biondo.
“Chi?” Chiese, sorpreso.
“Tutti quanti. Tutte queste leggende su di noi e su Camelot. Tu: un vecchio e saggio barbuto? Un valletto imbranato e impiccione, casomai”. Terminò ridendo.
Anche quel tono col quale lo derideva gli era mancato da morire. Insieme alle loro scaramucce, un modo come un altro per dirsi ti amo.
“Beh, che dire del prode Re Arthur”. Lo canzonò il mago a sua volta. “Ti lusingano più di quanto meriti. Mister-baciatemi-i-piedi-io-sono-il-re”. Contorse il viso in una smorfia di finto disgusto. "Borioso, egocentrico e vanesio”.
“Dimentichi una cosa”. Gli fece notare.
“E sarebbe?”. Era curioso.
“Che questo re borioso, egocentrico e vanesio è perdutamente innamorato del suo valletto imbranato ed impiccione”.
E, mentre il viso di Merlino arrossiva al suono di quelle dolci parole che per più di mille anni aveva sperato di poter udire nuovamente, Arthur lo baciò ancora. Proprio lì, in mezzo ad una strada qualunque coperta di neve.
“Buon Natale, Merlino”.
  
Leggi le 7 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Merlin / Vai alla pagina dell'autore: Shannara_810