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Autore: experiencing    07/05/2015    2 recensioni
C'era una volta... lo so, sono le favole che iniziano così, non i racconti storici. Ma in questo caso non saprei proprio in che altro modo iniziare. Perché c'era una volta una ragazzina che ora non c'è più. E quindi, vedete bene che l'unico modo per iniziare è questo. Dunque, dicevo, c'era una volta una ragazzina a cui piaceva giocare a palle di neve e baciare bei ragazzi in giardino. Ma ora questa ragazza non c'è più. Se volete scoprire cosa le è successo, non dovete fare altro che continuare a leggere.
Genere: Introspettivo, Storico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento
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Anastasia continuava a rigirarsi tra le lenzuola ruvide, incapace di prendere sonno. La stanza era fredda e umida. Il silenzio era rotto solo dai respiri delle sue sorelle, profondamente addormentate. Si voltò per l’ennesima volta sull’altro fianco, stringendosi più stretta nelle coperte, nel tentativo di riscaldarsi.  Nella branda accanto alla sua, Olga si rigirò nel letto.
- Olga, sei sveglia? - chiese mettendosi a sedere.
- No, tesoro. Rimettiti a dormire. – biascicò la sorella con voce assonnata.
- Ma come fai a parlare se non sei sveglia? - insistette Anastasia.
Con un sospiro si esasperazione anche Olga si mise a sedere.
- Che c’è Monella, perché non dormi? – le chiese con il tono che solitamente gli adulti adottano con i bambini.
- Proprio non mi riesce. – rispose Anastasia, felice di poter godere della compagnia della sorella. La stanza le parve già meno buia. A dire il vero Olga non era la sua sorella preferita. Era più grande di lei di ben 6 anni e le parlava sempre come fosse una bambina. Tatiana era un po’ più dolce, ma anche meno interessante. Era sempre ligia al suo dovere e rispettosa delle regole e non voleva mai fare niente di divertente perché, diceva lei, potrebbe essere pericoloso. La sua preferita era senza dubbio Maria. Aveva solo due anni più di lei e si poteva dire che fosse la sua migliore amica. Anche perché Anastasia, come le sue sorelle d’altronde, raramente usciva di casa, se non in compagnia della sua famiglia, e quindi le sue sorelle erano le sue uniche amiche.
- Non devi avere paura, Malenkaya[1]. Vedrai che andrà tutto bene e potremo presto tornare a casa – le disse Olga scompigliandole i capelli.
Indignata per questo trattamento infantile, Anastasia si scostò con una smorfia.
- Non ho certo paura! – esclamò indignata, - è che qui si muore di freddo -.
- Oh, non essere noiosa! Non fa poi così freddo. Ricordi quando giocavamo a palle di neve nel giardino di casa? Lì sì che faceva davvero freddo – rispose Olga in un sussurro, incitandola a parlare più piano con un cenno della mano.
- Ti ricordi quando tirai quella palla di neve con sorpresa a Tatiana? - chiese Anastasia, ridacchiando al ricordo. In una memorabile battaglia con la neve, aveva nascosto una pietra in una delle palle, e l’aveva scagliata contro Tatiana, frustrata perché quest’ultima riusciva sempre a colpirla in piena faccia, mentre la goffa Anastasia mancava il bersaglio la maggior parte delle volte. Con quella magica palla però era riuscita a colpirla, anche se solo ad una spalla. Si era subito scatenato un putiferio. Rimproveri e punizioni a non finire!
Olga, per niente divertita, la guardò severamente.
- Non c’è niente da ridere. Se l’avessi colpita in faccia avresti potuto farle male sul serio! Credevo che ti fossi pentita di quel gesto - la rimproverò in tono severo.
- Certo, certo che mi sono pentita! Ho promesso di non fare mai più una cosa del genere, ricordi? - si affrettò ad assicurare Anastasia.
Olga la guardò severamente ancora per qualche istante, poi si sciolse in un sorriso. Non riusciva proprio ad arrabbiarsi con Anastasia, per quante biricchinate potesse combinare. Non ci riusciva nessuno.
- Tieni, prendi questa e prova a dormire un po’- le disse togliendo una coperta dal proprio letto e porgendola alla sorellina.
- No, no, non c’è bisogno! Abbiamo due coperte ciascuno, così avrai freddo tu! - ribatté Anastasia.
Ma Olga stava già rimboccando gli angoli sotto il materasso e non volle sentire ragioni. Lei era fatta così. Dava tutto per gli altri e non pensava mai a sé stessa. Cullata dal tepore della branda, Anastasia si ritrovò a pensare all’ospedale, quello che mamma aveva fatto allestire al piano terra di casa all’inizio della guerra. Vi ospitavano i soldati ferirti e, quando possibile, cercavano di curarli. Quest’ultimo in realtà era compito solo di mamma, Olga e Tatiana. Anastasia e Maria erano troppo giovani per accollarsi compiti tanto impegnativi e l’unica cosa che potevano fare era cercare di portare un po’ di conforto ai malati. Gli tenevano compagnia, leggevano per loro e scrivevano lettere per i loro famigliari. Non che qualcuna di queste azioni avesse mai davvero avuto il potere di confortarli. Ma non potevano fare altro che tentare. Anastasia ricordava il giorno in cui la Russia era entrata in guerra. Lei era scoppiata a piangere come una bambina. Come qualsiasi fanciulla di buona famiglia, non si occupava di politica. Non capiva le ragioni del conflitto, ma sapeva che avrebbe portato solo morte e sofferenza. E infatti così era stato. Lo dimostrava il loro piccolo ospedale, pieno di dolore e sofferenza. Ormai però non era che un ricordo. Le pareva passato un secolo da quando erano stati costretti a lasciare casa e a volte si sorprendeva a cercare di ricordare dettagli che aveva paura di poter dimenticare per sempre. La grande camera da letto che divideva con Maria, la sala da pranzo apparecchiata alla calda luce delle lampade, persino le aule che aveva tanto odiato. Le mancava tutto. E poi c’era il gigantesco giardino dove una volta aveva baciato Grigorij, il giovane e affasciante giardiniere. Non era niente di serio ovviamente, giusto così, per provare. Era stato bello però. Le sue labbra erano calde e morbide e lui profumava di buono. Ma più di ogni altra cosa le mancava la spensieratezza di quel periodo, di prima che iniziasse tutto. Aveva delle certezze e, anche se a volte il futuro le pareva imprevedibile e misterioso, si sentiva comunque pronta ad affrontarlo con energia. Ora invece non era più sicura di niente. Olga aveva avuto ragione poco prima. Anastasia aveva paura. Aveva paura per sé stessa, ma anche per i suoi famigliari. Qualche giorno prima aveva sentito sua madre piangere. Ad Anastasia si era accapponata la pelle quando, dal corridoio, aveva udito i singhiozzi disperati della mamma. Non l’aveva mai vista piangere e, per quanto ne sapeva lei, poteva anche non averlo mai fatto. Era sempre stata una donna forte e invincibile. O almeno così appariva agli occhi di Anastasia. Ma forse dopotutto ogni bambino vede la propria mamma come un’eroina. Ma vedendola disperarsi a quel modo Anastasia aveva capito che la madre si era arresa. E se si era arresa lei, come avrebbe potuto continuare a lottare la piccola Anastasia? Fino a qualche giorno prima non si era resa conto del reale pericolo. Il loro arrivo lì aveva cambiato tutto, ma non aveva mai pensato, nemmeno per un secondo, che alla fine non si sarebbe aggiustato tutto, che non sarebbero tornati tutti alla loro vita di prima, che non ci sarebbero state altre battaglie a palle di neve, altri dispetti, altri baci rubati in giardino e altri sogni da realizzare. Invece adesso, ogni tanto, quando abbassava la guardia, questa tetra possibilità non le appariva più del tutto irrealizzabile. Quindi sì, era vero: Anastasia aveva paura. Ma cosa poteva fare se non fingere di non averne? Sapeva che anche i suoi genitori e le sue sorelle erano spaventati, ma cercavano di non darlo a vedere per lei e per Aleksej, il suo fratellino. Anastasia gli voleva molto bene, come tutti del resto. La ragazza immaginava che, alla sua nascita, i genitori fossero rimasti un po’ delusi dal fatto che anche la quarta gravidanza della madre aveva portato alla nascita di una figlia femmina, quando tutti desideravano un maschio per garantire un erede al trono del padre. Ma non vi dava mai molto peso. Sapeva che i suoi genitori la amavano, così come amavano tutti i loro figli, e questo le bastava. Non era mai stata gelosa di Aleksej e gli voleva davvero bene. E voleva tenerlo al sicuro. Dopotutto aveva appena quattordici anni e non era giusto che si dovesse preoccupare di problemi più grandi di lui. Quella sera, tra quelle lenzuola ruvide e umide Anastasia decise che sarebbe stata forte per lui, per il suo fratellino. Decise che non avrebbe mai più mostrato debolezza, che sarebbe stata accanto alle sue sorelle e che avrebbe aiutato come poteva i genitori. Avrebbe smesso di trascorrere le sue giornate con pigrizia e svogliatezza e avrebbe aiutato la madre e le sorelle nelle faccende domestiche. Avrebbe fatto compagnia ad Aleksej e si sarebbe lasciata coinvolgere dai suoi giochi, per quanto infantili e noiosi potessero rivelarsi. La sera del 16 luglio 1918 la Granduchessa Anastasija Nikolaevna Romanova stabilì fermamente e definitivamente, con tutta la volontà che riuscì a scovare nel suo giovane cuore, che dal giorno seguente sarebbe stata una persona migliore. Purtroppo però tutta la sua fermezza e forza di volontà non bastarono a realizzare questo ottimo proposito.
Era circa mezzanotte quando sentì delle voci in corridoio. Lei e tutta la sua famiglia si erano coricati da più di due ore. Non avendo nulla da fare le serate diventavano interminabili e così preferivano andare a letto presto. Anastasia si mise a sedere. Sentiva la voce di Jurovskij che parlava con il suo assistente, di cui non ricordava il nome. Jurovskij era senz’altro una persona odiosa, ma dopotutto era meno crudele del carceriere che l’aveva preceduto. Da quando era arrivato lui erano cessate le molestie dei soldati nei confronti di Anastasia e delle sue sorelle (al solo ricordo un brivido gelido le corse lungo la schiena) e delle vecchie suore di un convento vicino avevano iniziato a portare, su suo ordine, uova e latte fresco alla famiglia. Per quanto odioso potesse essere pareva comunque conservare un minimo di umanità. Fu lui stesso ad affacciarsi nella stanza delle ragazze. Spaventata, Anastasia si coricò di scatto e si tirò la coperta fin sotto il mento.
- Coraggio ragazze, alzatevi e vestitevi. Vi aspetto nell’altra stanza per una foto – disse ad alta voce accendendo la luce. Poi uscì e Anastasia lo sentì portare lo stesso messaggio nella stanza accanto, dove dormivano i suoi genitori con il piccolo Aleksej.
Stordite e assonnate le ragazze si alzarono e cominciarono a vestirsi, aiutandosi a vicenda al allacciare i nastri degli abiti che non riuscivano a raggiungere da sole. Anastasia era spaventata. E sapeva che anche le altre lo erano. Altrimenti perché nessuna di loro chiedeva ad alta voce per quale stupido motivo non avevano fatto quell’inutile foto prima? Perché permettergli di coricarsi per poi svegliarle? Solo per una foto?
Alcuni minuti dopo, uscendo dalla stanza, si ricongiunsero con i genitori e il fratellino. Il piccolo Aleksej stringeva la mano della madre strofinandosi gli occhi impastati dal sonno.
- Mamma, perché dobbiamo fare una foto adesso? – chiese con voce scocciata.
Evidentemente non aveva gradito il brusco risveglio. Anastasia gli fu molto grata per aver posto la domanda che nessuno di loro aveva il coraggio di porre. Guardò il padre con gli occhi spalancati, sperando con tutto il cuore di udire una risposta che l’avrebbe rassicurata. Gli occhi di tutta la famiglia erano puntati su Nicola II, ex imperatore di Russia.
- Si vede che il fotografo si è liberato solo adesso. Abbiate un po’ di pazienza, vedrete che non ci vorrà molto- rispose l’uomo rivolgendo attorno a sé un caldo sorriso.
Anastasia però ebbe l’impressione che in quel sorriso ci fosse qualcosa di falso. Anche suo padre aveva paura. E anche la mamma. La ragazza lo capì dalla voce stridula con cui la donna parlò qualche istante dopo.
- Su, cercate di apparire al meglio, mi raccomando. Chissà per cosa gli serve questa foto. Potrebbe addirittura comparire su un giornale – disse con finta allegria, lisciando i capelli di Aleksej.
Dal fondo delle scale udirono la voce di Jurovskij.
- Coraggio, sbrigatevi! - disse.
Dal fondo del corridoio giunsero anche il cuoco, un inserviente, il dottore che si occupava di Aleksej e la dama di compagnia di mamma. Evidentemente nella foto ci sarebbero stati proprio tutti. Scesero insieme e, giunti al fondo della lunga scala, trovarono Jurovskij che, con un cenno, li invitò ad entrare in una stanza in cui Anastasia non era mai stata. Era piuttosto piccola e completamente spoglia. Non vi era neppure un mobile.
- Ma come, non c'è neppure una sedia? Non ci si può neppure sedere? - esclamò indignata la mamma.
La guardarono tutti sorpresi. Ancora una volta Anastasia fu fiera della sua mamma. Il comandante Jurovskij fece portare due sedie e mamma e Aleksej si sedettero. Poi il comandante indicò a tutti gli altri dove posizionarsi. Papà doveva stare dietro a mamma, con una mano poggiata sulla sua spalla. Olga e Tatiana stavano alla sua destra e Maria e Anastasia alla sua sinistra. Jurovskij prese una mano di Anastasia e la pose sulla spalla si Aleksej. A quel contatto indesiderato Anastasia avvertì un brivido gelido che le correva lungo la spina dorsale. Cercò di non darlo a vedere. Dopo aver sistemano anche i domestici e il dottore in seconda fila, Jurovskij fece un passo indietro e li osservò come a voler verificare che tutti uscissero ben visibili nella fotografia. Tacque per un altro istante, poi si voltò e fece cenno di entrare a qualcun altro. Nella stanza irruppero una decina di soldati. Tutto il sangue che scorreva nelle vene di Anastasia si gelò all’istante.
- In considerazione del fatto che i vostri parenti continuano l'attacco contro la Russia sovietica, il Comitato esecutivo degli Urali ha deciso di giustiziarvi. – disse Jurovskij con voce fredda e formale.
Il cuore di Anastasia si fermò. Sentì la spalla del piccolo Aleksej irrigidirsi sotto le sue dita mentre il ragazzino afferrava terrorizzato la mano della madre. Vide suo padre che si voltava e faceva scorrere lo sguardo sbalordito su di lei e sulle sorelle, prima di voltarsi nuovamente verso Jurovskij e i soldati.
- Come? Come? –balbettò incredulo.
Il comandante Jurovskij ripeté ciò che aveva appena detto, ma le sue parole non avevano alcun senso per Anastasia. Le voci le giungevano fioche e ovattate, come se si trovasse sott’acqua. Le pareva che ciò che si stava svolgendo attorno a lei procedesse al rallentatore. I suoi occhi rimasero fissi sul padre. L’uomo si voltò nuovamente, lanciando un’ultima occhiata ai familiari. Un ultimo sguardo in cui Anastasia lesse paura, rimorso, pena, desolazione, dolore ma soprattutto rinuncia. Suo padre si stava arrendendo. Un istante dopo Jurovskij stesso estrasse una pistola e sparò all’ex zar Nicola II. Incapace di distogliere lo sguardo Anastasia vide gli occhi azzurri del padre spalancarsi per la sorpresa. Poi l’uomo cadde. Grida ed esclamazioni riempirono la piccola stanza, ma Anastasia non riuscì ad afferrare neppure una parola. Nella camera risuonarono altri spari e, nella confusione che dilagava, Anastasia sentì l’esile spalla di Aleksej che sfuggiva alla sua presa. Il ragazzino cadde a terra, immobile. Senza sapere come, Anastasia si ritrovò accucciata in un angolo, abbracciata a Maria. Gli spari continuavano a risuonare tutt’attorno a lei. Ma la cosa più insopportabile erano le urla dei suoi famigliari. Stretta contro il corpo tremante di Maria, con le lacrime che le rigavano il viso, Anastasia fu sorpresa di scoprire che lei stessa stava gridando. I suoi vestiti erano inzuppati di sangue. Non sapeva se fosse suo o di Maria, o di qualche altro membro della sua famiglia, ma ne sentiva l’odore nauseabondo che le penetrava nelle narici. Perché? Perché gli stavano facendo questo? Perché non potevano semplicemente lasciarli andare? A lei non interessava la politica, non ne sapeva niente di comitati o di soviet. Anastasia era solo una ragazzina. Avrebbe voluto dire a quei soldati che se li avessero lasciati in pace non avrebbero creato nessun problema, che potevano fare tutto quello che volevano e che alla sua famiglia non sarebbe importato. Sarebbero tornati a casa. Anastasia avrebbe ricominciato a seguire quelle noiosissime lezioni di francese. Avrebbe potuto fare altri mille dispetti a Tatiana. Avrebbe partecipato ai giochetti noiosi e infantili di Aleksej. Sarebbe tornata a confortare i feriti dell’ospedale con Maria. Si sarebbe fatta trattare ancora come una bambina da Olga. Papà l’avrebbe sgridata altre mille volte e poi le avrebbe sorriso in quel modo speciale che voleva dire che l’aveva perdonata. Mamma avrebbe cercato ancora di insegnarle a cucire, disfando pazientemente tutti i nodi che faceva. E poi Anastasia avrebbe potuto baciare di nuovo Gregorij in giardino. E avrebbe creato migliaia e migliaia di palle di neve, senza nasconderci dentro neppure un sasso. Anastasia era solo una ragazzina. E voleva solo giocare a palle di neve.
Ma non avrebbe potuto farlo mai più.

 



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Dopo la rivoluzione russa del febbraio 1917 lo zar Nicola II è stato arrestato con tutta la sua famiglia e deportato prima a Tobolsk, in Siberia, e poi in una casa a Ekaterinburg. Qui la famiglia è rimasta finché, nel luglio 1918, visto l’avvicinarsi dell’esercito che avrebbe potuto liberarla, si è deciso di sterminarla. I corpi sono poi stati portati in un bosco vicino e in parte bruciati, in parte corrosi con l’acido per cancellarne le tracce. I resti sono stati riesumati nel 1979, ma solo nel 1991 sono iniziate le indagini per l’identificazione. Io mi sono permessa, forse sopravvalutandomi, di immaginare gli ultimi momenti di vita di Anastasia e, attraverso i suoi occhi, di tutta la famiglia.

 
 
 

[1] Dal russo, letteralmente significa “quella piccola”. Insieme a Monella, che compare poco dopo, era un nomignolo assegnato ad Anastasia dalla sua famiglia.
  
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