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Autore: AuraNera_    08/05/2015    3 recensioni
One shot scritta in un momento di ispirazione.
Una bambina e la sua passione per la musica, la porterà ad uscire dal suo triste passato. Il futuro, però, è come sempre imprevedibile.
Quando le persone camminavano lungo quella strada dalla ghiaia bianca e marroncina, costeggiata da un prato dai lunghi steli verdissimi da entrambe le parti, con gli alberi non troppo alti disseminati ogni tanto, caratterizzata dal profumi di freschi fiori di campo e dalla gentile e frusciante brezza, non facevano quasi caso al grande edificio che dominava una della rade colline.
(...)
In una delle stanze del secondo piano, il piano delle fanciulle dalle tapparelle dipinte di celeste, viveva una bambina.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Manga
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~~Dance.


Quando le persone camminavano lungo quella strada dalla ghiaia bianca e marroncina, costeggiata da un prato dai lunghi steli verdissimi da entrambe le parti, con gli alberi non troppo alti disseminati ogni tanto, caratterizzata dal profumi di freschi fiori di campo e dalla gentile e frusciante brezza, non facevano quasi caso al grande edificio che dominava una delle rade colline.

Questo non saltava all’occhio e non attirava i curiosi, perché era perfettamente in armonia con l’ambiente circostante.
Ci si arrivava tramite una strada un poco più stretta rispetto a quella principale, ma prima bisognava attraversare i cancelli metallici tirati a lucido, con le sbarre perfettamente dritte e prive di ragnatele. Da quello partiva una lunga fila di altre sbarre più corte, poste perpendicolarmente al terreno a intervalli regolari, a formare un recinto che comprendeva un pezzo modestamente grande di prato curato, dall’erba trattata ma pur sempre punteggiata da margherite e tarassachi.
Se si saliva il dolce pendio, si arrivava di fronte a quell’edificio, di grandi dimensioni ma non abbastanza da essere definito con sicurezza ‘imponete’. I muri erano bianchi e senza crepe, attraversati da qualche verde rampicante, le finestre avevano i vetri lidi e perfettamente integri attraverso i quali si intravedevano bianche tende e gli scuri colorati alternati di tre colori: rosso al pian terreno, verde al primo piano e blu al secondo. Ogni tanto c’erano anche delle portefinestre che davano su dei balconi, con le ringhiere adornate da graziosi fiori variopinti. Il tetto era a spiovente, decorato da tegole dal classico color terracotta, che ogni tanto lasciava far capolino a una finestra tondeggiante, che indicava la presenza di una soffitta.
Nel prato erano presenti anche una piscinetta, uno scivolo, alcune altalene e altri giochi adatti ad una fascia d’età piuttosto infantile.
Dopotutto, quello era un orfanotrofio. E non un orfanotrofio qualsiasi: lì accudivano i bambini che, in passato, avevano subito dei gravi traumi che li avevano segnati. Le persone lì, erano gentili e comprensive, pronte a riaccendere la luce soffocata dall’amarezza del passato di quei poveri bambini, ormai impauriti dal mondo o semplicemente confusi dall’abbandono dei loro genitori.

In una delle stanze del secondo piano, il piano delle fanciulle dalle tapparelle dipinte di celeste, viveva una bambina.

Era lì da tre anni, cioè da quando ne aveva cinque appena compiuti. Era davvero una bambina molto carina e stranamente matura nonostante la sua tenera età. Aveva i capelli lunghi fino a metà schiena, una cascata di boccoli dorati pieni di riflessi, che incorniciavano un visino ancora paffutello decorato da alcune vaghe lentiggini che spiccavano sulla pelle di porcellana. Gli occhioni incorniciati da lunghe e bionde ciglia erano grigi, un po’ verdi verso la pupilla ed erano stranamente riflessivi, davano l’idea di un’emotività complessa, difficile da decifrare. La boccuccia dalle labbra rosate era a forma di cuore e si apriva solo per mangiare, ancor più raramente per respirare.

La piccola non parlava, per cui nessuno sapeva il suo nome.

Era da tre anni che si trovava lì, era da tre anni che non apriva bocca. I medici, gli educatori e tutte le altre persone che frequentavano il centro pensavano dapprima che fosse un problema causato dallo shock. Ma il problema, pur essendo stato trattato e, in parte, risolto, non era ancora stato superato.
Era stata l’anziana ed arcigna vicina di casa della famiglia della piccola a portarla in quel posto. Aveva detto senza mezzi termini che lei non se ne sarebbe occupata e che non aveva nessuno, poi si era impegnata e aveva iniziato a raccontare quello che sapeva sulla situazione.
“I suoi genitori non erano fatti per stare assieme, non so neanche perché si siano sposati. Probabilmente erano fidanzati da un mese, il tempo di ingravidare sua madre. Poi sono iniziati i problemi, poco dopo che sono venuti ad abitare nell’appartamento vicino al mio. Li sentivo urlare ogni giorno, a tutte le ore. Un paio di volte ho chiamato la polizia, andavano avanti per giorni interi e penso che arrivassero anche alle mani. Non erano fatti per amarsi, ma ancora di meno per avere figli. Lui alzava spesso il gomito, aveva meno di trent’anni e sembrava un quarantenne. Disoccupato, puzzolente, un vero maiale. Lei lavorava al bar, ma per mantenere una situazione simile andava a prostituirsi con i clienti. Metà dei chili che pesava lo costituiva il trucco, per nascondere i lividi ed essere il più attraente possibile. E poi è nata lei, questa bambina. Sembra un angioletto, non è vero? Non so come si chiami, quei genitori degeneri non si sono degnati nemmeno di darle un nome. Mio figlio ogni tanto si preoccupava di bussare, a volte la portava da me. Non l’ho mai vista piangere, nemmeno una volta. Quando li sentivamo urlare troppo andavamo a vedere che la situazione non degenerasse. Lui la picchiava, le tirava pugni, calci e le strattonava i capelli. Lei lo graffiava, urlava, gli tirava la borsa e le scarpe, ribaltavano mobili, sbattevano porte. E questo scricciolo era lì, fermo immobile in un angolo, che li guardava senza dire una parola. Forse non può parlare o probabilmente non glielo hanno mai insegnato. Non mi sorprenderebbe. Lei era così indifesa, non aveva neanche un Pokémon che le facesse compagnia o le desse sostegno morale. I suoi due genitori li avevano, ma sono morti di stenti chiusi nelle loro stesse sfere, povere creature. Avevo paura che succedesse anche alla piccola. E poi, un giorno, me la sono trovata davanti alla porta di casa, mi ha preso per mano e mi ha portato dentro quell’appartamento. Era tutto stranamente silenzioso, anche se c’era sempre la solita  puzza di alcool e vomito, lo stesso caos di sempre. Però il silenzio era irreale e c’era anche un odore strano. Lei mi ha portato in salotto e non dimenticherò mai ciò che ho visto. C’era sangue ovunque. Quel bastardo l’aveva accoltellata con una violenza inaudita, probabilmente da ubriaco. Poi si era lanciato dalla finestra aperta, abitavano al quinto piano. Mi sono affacciata dalla finestra aperta e lui era là sotto, con le ossa rotte e il coltello insanguinato ancora in mano, morto”.
Aveva detto di non sapere nulla sulla bambina, tipo di sangue, malattie, vaccinazioni e ipotetiche allergie o intolleranze. Poi se ne era andata, chiedendo agli operatori di prendersene cura. Era una signora anziana e arcigna, dalle profonde rughe e il grosso naso adunco, ma non era di pietra. Si era affezionata un po’alla bambina.

Le persone dell’orfanotrofio le avevano dato un nome, per chiamarla. Ma lei non rispondeva, non lo sentiva suo.

La piccola non aveva mai sentito suono al di fuori delle urla, delle bottiglie infrante, delle porte che sbattevano, delle botte. Lei non conosceva altro che i tristi silenzi che seguivano quelle situazioni, quei silenzi carichi di lacrime, di rabbia, di rancore. Lei conosceva solo l’ira, la disperazione, la furia. La morte.
Per cui si era stupita nel sentire le parole gentili degli operatori, l’aria che sfiorava le tende e che carezzava le foglie e l’erba, lo sfrigolare della carne su una padella resa rovente dal fuoco che profumava così tanto l’aria di buono. Aveva trovato strano quel silenzio pacifico, leggero, che accompagnava una carezza o un augurio di buonanotte. Lei non conosceva quei sentimenti, la serenità, la gioia, il sorriso, le carezze, i profumi. La vita, quella vera.
Lei aveva sempre vissuto da sola, conosceva in tutto quattro persone, tutte più grandi di lei. Era rimasta stupita nel vedere tutti quei bambini che, con sorrisi più o meno timidi, le insegnarono a costruire aereoplanini di carta e corone di fiori, e che le prestavano i colori a cera o i pastelli.
Ma ciò che la colpì di più, furono i suoni, la musica, le canzoni. Rappresentavano per lei un mondo del tutto nuovo, un’armonia che non aveva mai sperimentato prima. Tutti quei pallini disposti in un ordine per lei incomprensibile e poi letto e armonizzato con la voce o con degli strumenti la attiravano coma la sua amica Martha era attirata dalla marmellata di more.

Le persone dell’orfanotrofio le avevano dato un nome. Ma lei non voleva un nome scelto da altri. Lei era abbastanza intelligente da sapere con sicurezza come voleva essere chiamata.

Non appena imparò a scrivere, prese un foglio bianco, pulito e perfettamente liscio. Ci mise un pomeriggio di lavoro, tra pastelli, matite, acquerelli, scritte e decorazioni. Ma prima dell’ora di cena si era arrampicata su una sedia e aveva appeso con lo scotch il suo capolavoro fuori dalla porta della stanza.
Era un disegno pieno di colori e note e pentagrammi. Su tutto, spiccava un nome scritto in azzurro, il suo colore preferito.

Melody.

 Era quello il nome che voleva. Un nome che le ricordasse tutte le sinfonie e i canti che aveva sentito, e che richiamassero anche quelli che non conosceva.
La piccola Melody non cantava, ma aveva imparato a suonare il pianoforte, pur impacciandosi un poco con quelle piccole manine. Ma, nel corso del tempo, era diventata proprio brava. La sua amica Martha, una bambina dai capelli rosso fuoco lisci portati a caschetto, aveva invece una bellissima voce, che usava spesso e volentieri, quasi a riempire gli spazi vuoti lasciati dall’altra.
Erano molto diverse l’una dall’altra. Una sembrava un angioletto, l’altra un piccolo diavolo. Una era sempre in silenzio, ferma e tranquilla; al contrario la sua amica parlava anche mentre dormiva e si arrampicava dappertutto, dagli armadi agli alberi.
“È perché mi piace vedere le cose da dei punti di vista diversi!” spiegava sempre eccitata, con gli occhi smeraldo che luccicavano. Lei non si sentiva in pericolo sopra gli alberi, perché era grazie a questa sua innata capacità d’arrampicata che si era salvata dalle persone che avevano preso e violentato sua madre e ucciso suo padre. Aveva solo quattro anni ed era stata portata all’orfanotrofio da una passante.
Era spaventata, persa, piangeva, graffiava, scappava per arrampicarsi e nascondersi tra le fronte. Col tempo, però, si era convinta della gentilezza di quelle persone. Ed ormai, era guarita dalla sua malattia, dalla sua paura, ed era pronta a ricominciare con una nuova famiglia.
Ed era per questo che Melody, otto anni, boccoli d’oro e occhi grigi, era in camera, da sola, davanti allo specchio. Sapeva che la sua amica era stata adottata e che quella sera la avrebbe salutata. E a lei voleva fare un regalo speciale, voleva donarle la sua prima parola. Voleva salutarla.
Ma, per quanto ci si sforzasse, la sua voce non veniva fuori. Era triste, si sentiva delusa da sé stessa. Poi le venne un’idea. Osservando i bambini dell’orfanotrofio, aveva visto che a loro la voce veniva fuori particolarmente quando si ferivano. Per esempio, un bambino di nome Davide era inciampato sullo stradino ghiaioso mentre rincorreva un piccolo Lillipup e si era sbucciato le ginocchia. Così la piccola prese la cosa più appuntita che trovò, una matita accuratamente temperata, e se la premette contro il polpastrello dell’indice, fino a che non ne fuoriuscì una piccola goccia di sangue. Si riavvicinò allo specchio e riaprì la bocca. Ma proprio non ci riusciva. Melody si imbronciò di nuovo, arricciando appena le labbra a cuore.
Proprio in quel momento un’operatrice venne a bussare alla sua porta.
“Melody, piccola, vieni! Non vorrai mancare proprio alla cena per salutare la tua amica Martha e i suoi nuovi genitori! Dai, mettiti quel bel vestitino azzurro e scendi!” la incitò dolcemente.
La bimba, però, non si mosse, tendendo la mano verso la signorina perché lei si avvicinasse. Prese una matita e scrisse su un foglio il suo piano, la sua intenzione di regalare quella timida parola alla sua amica.
“Non è difficile, devi solo concentrare il tuo fiato in gola e articolare con le labbra e la lingua le lettere. Coraggio, prova!” la incoraggiò la signorina, intenerita dal proposito di Melody. La bambina ci provò, ma nulla uscì dalla sua bocca. Tentò una, due, cinque, dieci volte, ma emise solo dei sospiri.
A quel punto prese il suo abitino azzurro, se lo infilò e iniziò a scendere le scale, con l’operatrice dietro, che era rimasta in silenzio, sinceramente dispiaciuta per la bambina.
Assieme scesero fino al piano terra, dove tutti erano già riuniti. Martha saltò al collo di Melody non appena la vide, per poi trascinarla fino ai suoi due nuovi genitori, due giovani adulti dallo sguardo dolce.
“Questa è la mia amica Melody! Purtroppo lei non parla, ma non c’è problema, perché parlo io per lei!” strillò la bambina rossa, facendo ridere i presenti. Mangiarono tutti in allegria, ma Melody era triste. Triste perché non aveva niente di speciale da dare alla sua amica. Fu il suo pensiero fisso per tutta le sera, durante tutto il pasto.
Poi, arrivò il momento, e Martha se ne andò.
Melody restò qualche secondo a fissare la porta chiusa, delusa, triste. Sentiva nuovamente quei silenzi che tanto detestava, quelli che fino a tre anni rappresentavano il suo mondo. Non poteva permetterselo.
Aprì la porta e corse dietro alla sua amica, prendendola per la manica della maglietta verde che portava.
“Melody!” esclamò sorpresa quella, ma la bionda le posò un indice sulla bocca, facendo segno di tacere. Prese fiato e chiuse gli occhi, concentrandosi. Espirò senza produrre alcun suono e inspirò di nuovo. Guardava la sua amica, tentando di ricordare ogni momento trascorso con lei. Si concentrò sulle labbra, si focalizzò sulla sua voce squillante e trapana-timpani. Dischiuse le labbra.
“C...C-ia... Cia-o...” articolò con fatica, guardando l’amica dritta negli occhi. Poi sorrise, mentre dei lacrimoni prendevano a scenderle lungo le guancie.
“Ciao” ripeté con più sicurezza, abbracciando la bambina che ricambiò subito, stritolandola.
“Che bello, ma tu hai parlato! Solo per me! Grazie, prometto che verrò a trovarti!” strillò Martha emozionata. Poi sciolsero l’abbraccio e si separarono.

Melody era felice, era riuscita a regalare la cosa più preziosa che possedeva in quel momento a qualcuno che lei considerava speciale.

I giorni passarono, divenendo settimane, poi ancora mesi ed infine anni. E Martha non venne. Non faceva più parte di loro. Ma Melody era felice di averle regalato la sua prima parola, l’unica che avesse mai detto.
Ora sapeva parlare, ma non lo faceva con nessuno, la conservava solo per sé stessa. Per lei sola e per Martha, che però non c’era più.
Nessuno cantava sopra le note del pianoforte e le sue melodie le sembravano molto vuote. Lo scrisse ad un operatore una volta, su un foglietto. Gli operatori servivano a quello, a colmare i vuoti.
Così Melody venne a conoscenza della danza. Le mostrarono video e foto e coreografie e lei sembrava non averne mai abbastanza. Gli occhi le brillavano attaccati allo schermo. Quando non poteva vedere i video, si metteva ad imitare casualmente dei movimenti, sotto gli sguardi divertiti ed inteneriti degli operatori.
Qualunque cosa le ricordava un passo di danza, già visto o inventato, per lei non faceva differenza. Vedeva quel mondo, quella sua passione, quel feticcio in una foglia che si staccava da un ramo di un albero, dalle tende mosse dal vento. Una volta si era fermata per diverse ora ad osservare incantata un esemplare di Kirlia che danzava leggiadro sulle punte. E, alla fine, si era messa a ballare con il Pokémon, seguendo i suoi passi.

Melody aveva trovato un modo nuovo per esprimersi, un modo per sentirsi libera.

Per il suo nono compleanno, gli operatori le fecero una sorpresa. La portarono in gita in una città vicina, dove c’era una piccola palestra adatta al ballo e la presentarono a una signora dai lunghi capelli corvini lisci e dalla pelle olivastra, dai tratti esotici e dal nome curioso, che la piccola non aveva mai sentito. Si chiamava Selene, ed era la sua insegnante di danza.
Selene era una donna gentile, faceva lezione privata a lei tre volte in settimana in qualunque periodo dell’anno. Le insegnava le mosse, i trucchi, a contare la musica, a muoversi in determinati modi. E la bambina era come una spugna, imparava ad una velocità impressionante qualunque cosa, dal funky alla danza classica sulle scarpette da punta.
E, ogni tanto, restava anche di più del dovuto, da sola, a provare. Ci si impegnava anima e corpo, accettando i suoi errori e facendo di tutto per risolverli, lanciandosi in passi, salti e giri sempre più complicati e coreografici. Ballava su qualunque tipo di musica e su qualunque suono. Anche il silenzio della sala o il piacevole e lieve ticchettio della pioggia sui vetri in un giorno uggioso andavano bene. La danza era diventata la sua vita. Ma non era solo la sua vita e quella di Selene.

La bambina lo ignorava, ma nella palestra era nascosto qualcuno che la spiava con occhi sognanti.

E un giorno, la creatura decise di uscire allo scoperto, quando l’insegnante se ne fu andata. Fluttuò leggermente, in silenzio, avvicinandosi alla ragazzina che era concentrata in
spaccata. Atterrò leggermente sulle punte, facendo ondeggiare i capelli verdi che ricordavano un pentagramma.
“Lowe?” chiese, curiosa, spaventando la piccola Melody, che sgranò gli occhi grigi, osservando il Pokémon. Riprendendosi, avvicinò piano la mano, accarezzandola sul volto. La creatura rispose al tocco canticchiando contenta, improvvisando una piroetta. Melody sorrise.
“Meloetta!” esclamò Selene, rientrando senza preavviso. Era meravigliata dalla presenza del Leggendario nella sua piccola palestra, mentre interagiva con la sua giovanissima allieva.
“Me... loetta?” domandò a fatica la bambina, osservando con curiosità il Pokémon, che si era nascosto dietro di lei con timidezza, presa alla sprovvista dall’apparizione improvvisa della donna. Poi, però, parve riconoscerla e canticchiò un saluto.
“Si, piccolina, Meloetta. È il suo nome. È un Pokémon assai raro che si mostra alle persone che hanno la musica nel cuore e che vivono per essa, che hanno trovato nella musica qualcosa. Meloetta riesce a leggere l’animo delle persone e a comprenderlo, si fida solo delle persone innocenti e pure di cuore. A quanto pare ti ha preso in simpatia, come ha preso in simpatia me diversi anni fa. Avevo più o meno la tua età quando la conobbi, e fu proprio in questa palestra. Ero inciampata mentre mi allenavo da sola e mi ero fatta un po’ male a una caviglia. Mi ero spaventata, perché se mi fossi fatta male avrei dovuto sospendere i miei allenamenti. Allora lei mi vanne accanto, e mi iniziò a consolare cantando, mentre con una manina mi accarezzava la caviglia. Quando ebbe finito, non mi faceva più male”. Sorrise osservando il volto rapito della bimba.
Meloetta aveva iniziato a fluttuare nell’aria, scivolando da un punto all’altro della palestra, gli occhi verdi fissi sulla sua amica di vecchia data, mentre seguiva interessata il racconto.
“Da quel momento diventammo inseparabili. Io venivo qua portando la merenda per entrambe. Lei cantava, io suonavo e ballavamo entrambe. Con lei riuscivo ad essere me stessa, le raccontavo qualunque cosa mi passasse per la testa, indipendentemente da ciò che stavo facendo. Ridevo o mi sfogavo, e lei faceva lo stesso, pur in modo diverso. È un Pokémon davvero umano, ma allo stesso tempo è troppo pura e perfetta per esserlo. In verità non so se sia esattamente un maschio o una femmina, ma è irrilevante per lei, ho scoperto. Penso che tu e Meloetta andrete molto d’accordo. Ma ti devo chiedere alcuni piaceri. Primo: non portare qui nessuno, lei deve scegliere a chi mostrarsi. Secondo: non costringerla a portarla fuori o a seguirti. Questa sala è la sua casa. Alcune persone vorrebbero catturarla, ma se non è la compagnia giusta lei ne soffrirebbe tantissimo. Quindi, per favore” le raccomandò l’insegnante, seria. Poi le sorrise, accarezzò i capelli sia a lei che alla creatura e le lasciò nuovamente sole.
Come con Selene, anche Melody e Meloetta divennero inseparabili, due vere amiche. Parlavano con gli sguardi, con i gesti, con le emozioni riflesse su di loro. Entrambe sapevano dialogare senza parole, in nessuna delle loro due diverse lingue.
Meloetta riuscì a riempire il vuoto che si era creato un anno prima, prendendo il posto di Martha, non solo come amica, ma anche con la voce. Il Pokémon aveva davvero una bellissima voce, che accompagnava il suo soave fluttuare o i passi di danza della bambina, oppure le note che lei suonava grazie a una pianola impolverata che l’insegnante di danza aveva trovato nel ripostiglio di casa sua.

Ma Meloetta cantava anche per ballare.

Quella creatura possedeva due facce. Era sempre dolce e soave, pura e gentile. Il suo aspetto comune era quello che per primo aveva mostrato a  Selene e Melody. Il corpo un po’ bianco e un po’ nero pareva un vestito, i capelli lunghi e verdi lasciavano intravedere quello che sembrava un microfono. Era una versione di lei sempre allegra, soave, canterina... ma era fragile, terribilmente fragile. E così, Meloetta necessitava di un lato nascosto, un alter-ego che supportasse quella sé così delicata. E così, cantando delle note ormai perdute per gli umani, note antiche e misteriose, il Leggendaria liberava la parte più forte di sé. I capelli sfumavano dal verde prato al color mattone, e si raccoglievano attorno al capo fermati da quello che, da microfono, diventava un fermaglio. Gli occhi apparivamo più seri e riflessivi, dello stesso colore dei capelli. La parte nera del suo corpo si diramava e sbocciava come un fiore andando ad assomigliare ad un tutù. Diventava meno emotiva e più forte, decisa, pur mantenendo quella sua dolcezza e premura che continuava a caratterizzarla.
Meloetta si serviva della Forma Canto e della Forma Danza per necessità, per evitare di essere spezzata da un mondo troppo sporco e corrotto per lei. E ne avrebbe usufruito anche per proteggere chi le stava a cuore. E in quella categoria rientravano Melody e Selene.
La bambina e l’insegnate strinsero un rapporto affettivo più stretto, fino a diventare amiche. Il segreto di Meloetta le accomunava. Inoltre, anche con Selene Melody non necessitava di parole. Le parlò solo una volta, dicendole “Ti voglio bene”.
Passava sempre meno tempo nell’orfanotrofio, aveva trovato la sua felicità altrove. O dappertutto, dipende dai punti di vista. Ovunque ci fosse della musica e dello spazio, la bambina si sentiva a casa, libera di spiccare il volo almeno con la mente.

Grazie a Selene e a Meloetta, le catene di Melody si spezzarono del tutto, scomparendo.

Selene si stava affezionando tantissimo alla sua dolce e piccola allieva. La seguiva da due anni, e due giorni prima del suo undicesimo compleanno, la donna fece una scelta. Prese carta e penna e scrisse una lettera. Non era molto lunga, poche righe di inchiostro nero segnarono la carta. La mora piegò il foglio dopo averlo firmato e lo infilò in una busta.
Il giorno seguente si comportò come tutti i giorni con la bambina. Ballarono, risero, si divertirono, con Meloetta che le osservava canticchiando felice. Era merito suo, di Meloetta, se Selene era così felice, se aveva preso quella decisione. Se lei non si fosse mostrata, probabilmente non si sarebbe mai decisa. Era merito del Pokémon, lei ne era consapevole, e aveva ringraziato la dolce creatura per averle legate fino a quel punto.
Alla fine di quella giornata, Selene stava riaccompagnando all’orfanotrofio la stanca ma euforica bambina. Il giorno dopo avrebbe compiuto undici anni, ma questo non le avrebbe vietato di tornare alla palestra a ballare. Per lei, non c’era metodo migliore per festeggiare.
L’auto dell’insegnante si parcheggiò di fronte al cancello sempre tirato a lucido dell’orfanotrofio. La bambina fece per scendere, ma la mora la fermò.
“Melody” chiamò. La piccola testa bionda si rivoltò nella sua direzione. “Dai questa alle persone che si prendono cura di te là dentro” disse semplicemente Selene con un sorriso, tendendo verso la sua allieva una busta bianca, quella busta. La bambina la prese, senza aprirla, dopotutto non era indirizzata a lei. Salutò con una manina la donna, che rimise in moto la vettura e ripartì. Aveva alcune cose da sistemare per il giorno seguente.
Appena entrata nell’edificio, la bambina cercò un’operatrice, la stessa che quasi tre anni prima aveva cercato di aiutarla a parlare. Le tirò l’orlo della camicetta bianca che portava per attirarle la sua attenzione e le diede la busta.
La ragazza la aprì e lesse velocemente ciò che era stato scritto una sera prima.

All’orfanotrofio:
Salve. Sono Selene, l’insegnante di danza di Melody. In questi due anni mi sono affezionata moltissimo a lei. Le sono stata vicino nei momenti di gioia e tristezza, facendo del mio meglio per starle accanto. E penso di aver già sorpassato da tempo il confine alunno-insegnante.
Pertanto, richiedo cortesemente il permesso di adottare la piccola Melody, giurando sulla mia stessa vita di prendermene cura.
Chiedo cortesemente di ricevere la risposta domani, sarà la bambina a portarmela.
Cordiali saluti, Selene.

L’operatrice era commossa, come succedeva sempre quando qualcuno trovava una nuova famiglia disposta ad amare quei giovanissimi ragazzi e ragazze, che erano stati segnati in passato.
Spiegò a Melody il significato di quella lettera e che cosa sarebbe successo l’indomani. Mai aveva visto la ragazzina così felice. Corse su per le scale, veloce, sembrava quasi matta. Voleva preparare le sue cose, le avrebbe portate a casa di Selene, della sua nuova mamma, la sera successiva.

Era felice come mai lo era stata, credeva di riuscire a spiccare il volo.

Il giorno seguente si alzò con un salto, scalciando via le coperte. Era presto per andare a lezione, ma lei non poteva aspettare. Si tolse il pigiama in fretta, buttandolo in un angolo del letto, poi spalancò le candide ante dell’armadio e ci mise il naso dentro, in cerca del suo vestito preferito, quello bianco, blu e azzurro con un grande fiocco sul dietro e le spalline sottili. Prese poi le ballerine bianche e uscì di corsa dalla stanza.
Doveva andare da Selene e Meloetta, doveva far sapere loro che poteva essere adottata, che era pronta, che era felice. Loro dovevano osservare il suo volto sorridente, i suoi occhi brillanti, le sue gote rosate.
Dovevano sentirsi partecipi e dovevano capire che era merito solo se lei era così espressiva quel giorno.
La ragazzina correva lungo la strada, con le persone che la guardavano piacevolmente sorprese al suo passaggio. La sua ombra scivolava leggera, scurendo la ghiaia chiara e l’erba verde.  Ogni passo la avvicinava alla città, alla sua amata palestra, a Meloetta, alla sua nuova mamma.
Selene immaginava che la piccola sarebbe venuta là prima, e la aspettava fuori dalla palestra, immobile, in attesa con le braccia incrociate sotto al seno. Gli occhi scuri erano puntati fissi sulla strada che percorreva la bambina, in attesa di vedere il suo volto fanciullesco e soave, i suoi occhi grigi e la massa morbida di capelli d’oro.
Finalmente, Melody stava arrivando. La ghiaia aveva lasciato posto all’asfalto, e l’erba agli edifici. Era tutto più grigio, persino le persone. E lei era come una piccola macchia di colore che sgusciava tra una studentessa universitaria e un signore in giacca e cravatta diretto in ufficio. Mancava solo una strada, già vedeva Selene sorriderle davanti alla porta della palestra. C’era anche Meloetta che la osservava dalla finestra semiaperta.

Era felice come mai lo era stata, credeva di riuscire a spiccare il volo. Ma Melody si era dimenticata che gli esseri umani non sono capaci di volare.

Faceva male, terribilmente male. Peggio di quella volta che suo padre l’aveva picchiata dopo che sua madre si era rinchiusa in camera. Sentiva solo pochi suoni che le arrivavano ovattati alle orecchie, tutto era sovrastato da un fortissimo fischio. Sentiva qualcuno urlare.
Aveva freddo, tremava, nonostante qualcosa di caldo la stesse toccando in diversi punti del suo corpo. Chissà cos’era. Qualcuno la toccava, ma non faceva altro che farla sentire peggio. Mai le era sembrato così difficile respirare. Eppure non si sentiva così affaticata per la corsa. Era davvero così stanca?
Tenere gli occhi aperti era un’impresa, ma lei non voleva chiuderli. Vedeva tutto sfocato. Ma riconobbe la presenza che stava a pochi centimetri dai suoi occhi.
Meloetta.
Il Pokémon sembrava triste, molto. Ma iniziò a cantare. Era una melodia antica, dimenticata dagli esseri umani. Una melodia che fungeva da chiave e da protezione a un’anima fin troppo fragile. Un canto che serviva da passaggio a un carattere più forte, adatto a sopportare ciò che stava accadendo. Meloetta assunse la Forma Danza, dedicando quel particolare saluto alla ragazzina che osservava incantata quei passi leggeri eseguiti nell’aria, mentre le innumerevoli emorragie causate dall’incidente le portavano via quella vita appena sbocciata.
Non vide la fine dell’esibizione della sua amica, ma prima di andarsene mormorò le uniche tre parole che aveva mai pronunciato in vita sua, ripetendole in un'unica frase.

“Ciao, Meloetta. Ti voglio bene”.

 

Angolino nascosto nell’ombra
Boh. Non so da dove mi è uscita.
Forse dall’ansia del mio spettacolo che si avvicina. Forse perché sto scrivendo troppa roba demenziale per conto mio e mi mancavano le paranoie.
Non so. Spero che vi sia piaciuta. Nel dubbio metto l’avviso: tematiche delicate.
Non si sa mai.
Ho messo il manga perché è un po’ più crudo delle altre due opzioni, Anime e Videogioco. Dopo infatti ho messo anche Missing Moments, perché in realtà con il manga non c’entra un fico secco.
Tra due o tre giorni arriva anche GoL. A presto.

Aura_

  
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