Anime & Manga > Lady Oscar
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Autore: zappolo70    09/05/2015    13 recensioni
ATTENZIONE: storia già pubblicata fino al capitolo VII ora completata (12 capitoli). Si avvisa che TUTTI i capitoli sono stati rimaneggiati e sono stati aggiunti riferimenti temporali per aiutare a seguire più agevolmente il dispiegarsi della storia.
La storia propone un what if inusuale e grande come una casa. Una rilettura personale della storia di Oscar e Andrè che mantiene grossomodo l’ossatura della storia e l’evoluzione temporale, anche se non fedelmente per esigenze narrative, stravolgendone però l’interpretazione alla luce di un presupposto nuovo.
Buona lettura a chi vorrà cimentarsi.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: Lime, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: I personaggi di Lady Oscar non mi appartengono e sono proprietà esclusiva di Ryoko Ikeda.

 

I – 14 Luglio 1788

I gomiti mollemente appoggiati alle ginocchia, le mani giunte a reggere lo stelo del bicchiere già mezzo vuoto, lo sguardo fisso davanti a se sembrerebbe intento ad osservare la crepa che corre lungo la parete portante, seguendone il percorso contorto di meandri sinuosi, quasi fosse un’antica mappa pronta a svelare arcani tesori a colui in grado di interpretarla.

Ingannerebbe un osservatore poco attento forse, di certo non lui, cui non sfuggirebbe la rigidità delle spalle tese, seppure un poco curve in avanti, o il tremore quasi impercettibile delle mani che stringono il bicchiere a increspare la superficie del poco liquido rimasto in minuscole onde concentriche.

Ma non deve preoccuparsi di lui, non ancora.

Sa che tornerà tardi, a notte fonda, come suo solito ultimamente. Avrà tutto il tempo di ricomporre la solita maschera, mai così pesante come questa sera eppure mai così indispensabile alla buona riuscita dell’atto finale di una recita dolorosa quanto inevitabile.

Nell’immobilità della calura estiva, il frinire ostinato e insistente di una cicala la riscuote, riportandola improvvisamente alla realtà della stanza in cui si trova e che ora prende a osservare distrattamente. Lascia vagare lo sguardo Oscar, a posarsi, quasi ad accarezzarli, sui tasti lucidi del pianoforte a coda lasciato aperto a troneggiare al centro della stanza. Pensa a come la netta dicotomia del bianco e del nero riesca sorprendentemente a ricomporsi in un’armonica alternanza. Indugia ancora un poco su questa immagine che inspiegabilmente pare restituirle un barlume di serenità, poi lo sguardo riprende a frugare inquieto alla ricerca degli oggetti conosciuti ritrovando appena poco distante il tavolino di legno rotondo col suo ceppo intagliato di foglie e fiori e la scacchiera intarsiata sul piano ben levigato.

Come rispondendo a un richiamo, si protende allungando il braccio fino a raggiungere il bordo. Allora chiude gli occhi e lascia che le dita scorrano sulla superficie liscia. Le labbra si increspano in un sorriso appena accennato nell’anticipazione di ciò che sa bene troverà. Non ha bisogno di riaprire gli occhi per sapere che si tratta dell’asperità irregolare di una scheggiatura nell’angolo inferiore del terzo riquadro nero sulla seconda fila dal basso, conseguenza indelebile di una mal digerita vittoria del suo avversario una notte di una vita fa.

La pervade una piacevole malinconia che non dura però se non lo spazio di pochi istanti, giusto il tempo di percepire una nota stonata, un elemento estraneo che troppo stride con l’intimità del ricordo lontano.

Dal punto in cui si trova lo sguardo può correre diagonalmente fino ad incontrare l’arco che separa l’ampia anticamera dall’ambiente più raccolto della camera da letto. La luce fioca delle poche candele accese che occhieggiano dalle bugie, lascia appena indovinare la sagoma del letto e le colonne del baldacchino, con il suo drappeggio impalpabile scostato appena un po’ di lato a mostrare lenzuola candide ben tirate e cuscini rigonfi mollemente adagiati. Uno scorcio fin troppo familiare, non fosse per l’ammasso vaporoso e disordinato abbandonato con noncuranza sul pavimento lì accanto. Una macchia di colore informe che non può non catturare l’occhio nell’ambiente altrimenti così ordinato nell’essenzialità delle linee rigorose.

Si interrompe bruscamente l’immobilismo della serata quando d’istinto si alza dalla poltrona in un moto rabbioso, che la porta in poche decise falcate a raggiungere ed afferrare il groviglio di tessuto comprimendolo poi con tutte le sue forze in un fagotto, le nocche bianche dallo sforzo, quasi a volerlo far scomparire. Allunga una mano ad aprire l’anta del guardaroba lì di fianco pronta a buttarcelo dentro e a farcelo rimanere per sempre insieme a tutto ciò che esso rappresenta.

Ma è troppo tardi. Il freddo che percepisce sotto le dita non è già più quello del pomello in bronzo della pesante anta di legno, ma quello del marmo liscio e perfettamente levigato della maestosa fontana antistante il Salon de Mars. Solo poche ore prima, al mormorio quieto delle sue acque limpide aveva confidato il fallimento del suo piano e aveva pianto lacrime silenziose nella consapevolezza di ciò che sarebbe venuto poi.

Ingenua. Maledettamente ingenua. L'aveva riconosciuto quello sguardo cupo di amore e passione che lui aveva rivolto alla sua regina già da loro primo incontro, e l'aveva voluto per se, su di se. Allora sapeva di prendersi in giro, ma con l'andare del tempo aveva finito per crederci. Aveva bisogno di crederci per non perdersi e si era aggrappata a quell'idea come un naufrago alla zattera, per quanto malconcia. Si era convinta che se lui le avesse rivolto quello stesso sguardo, avrebbe potuto riassaporare la sensazione di pienezza che già una volta le avevano regalato altri occhi, che l'avevano bruciata fino in fondo all'anima, che l'avevano fatta fremere nella carne. Sarebbe stata finalmente libera, avrebbe potuto ricominciare a vivere. Come una donna.

E lei alla fine l'aveva avuto per se quello sguardo. Eppure si era ritrovata lì, le braccia tese sul bordo di una fontana e il capo chino sulla superficie dell'acqua disturbata dallo zampillio discreto dei getti che non erano però riusciti ad impedirle di vedere riflessa tutta la sua delusione. Non l'aveva riconosciuta che alla fine. Non l'aveva riconosciuta nemmeno dopo averla stretta tra le braccia e averla fatta danzare. Per lo spazio di qualche ballo era stata una donna ai suoi occhi, per poi tornare a essere "il suo migliore amico" nella versione di sé fasciata nei pantaloni di un'uniforme. Quasi che fosse l'abito a determinare l’identità di una persona. In fondo non si era aspettata nulla di diverso, non da lui quanto meno. A quel punto era corsa via, non c'era più nessun motivo per restare.

Aveva indugiato a lungo fissando la sua immagine riflessa senza in realtà vederla. Pensava al corso che avrebbe potuto prendere la sua vita se quello sguardo le avesse fatto vibrare l'anima, se il suo tocco l'avesse infiammata fin nelle viscere. Ma non aveva sentito nulla di tutto ciò ed era stato inevitabile sentirsi sollevata, come quando si comprende di aver scampato un serio pericolo. Scoppiò in una risata liberatoria nell'immaginarsi a maneggiare con grazia un ventaglio disquisendo dell'ultima moda in fatto di acconciature con qualche dama a corte.

Non più donna soldato.

Nell'opinione dei più la parte del soldato era meramente il ruolo impostole dal padre, eppure quel pianto ostinato nel racconto della propria nascita che Nanny ogni volta teneva a sottolineare, era sicura fosse stato il proprio modo di implorarlo a non condannarla ad una vita così contraria alla sua indole libera e ribelle. E qualsiasi fossero state le ragioni che lo spinsero a tale decisione, non aveva mai abbandonato la convinzione che, inconsciamente, lui avesse sentito il suo richiamo in una comunicazione muta quanto profonda.

Una donna con una vocazione da soldato. Essenza naturale della propria identità per lei, una dicotomia impossibile da ricomporre agli occhi degli altri, inaccettabile per qualsiasi uomo. Quasi. Inaccettabile per chiunque tranne che per lui, l'unico che non può permettersi.

  
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