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Autore: Angye    09/05/2015    10 recensioni
Essere madre è una magia e genera magia, la più potente di tutte: l'amore puro.
Cosa potrebbe spingere qualcuno a rinunciarvi?
"Questa storia partecipa al Contest "Viva la mamma!" indetto da Nuel sul Forum di Efp"
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Minerva McGranitt
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Questa storia partecipa al contest “Viva la mamma!” indetto da Nuel sul forum di Efp.
 
 
 
 
Luce

 
 Hai rimpianti, Minerva?
 
Le sembrava decisamente inappropriato, durante un funerale, la presenza ostinata di quel sole caldo e confortevole che, solleticando la pelle, riscaldava al punto giusto.
Inappropriato, poiché, come comprese solo mentre l’officiante spendeva parole d’elogio per il suo defunto marito, i raggi di luce carezzavano il marmo lucido del sepolcro e la croce d’oro in rilievo, facendo scintillare l’angolo di cimitero in cui Elphinstone avrebbe riposato per sempre, imponendolo alla vista e fissandolo nella mente.
Sarebbe stato impossibile dimenticarlo, dimenticare la brughiera rinsecchita e il vago odore di muschio che si levava ad ogni folata di vento, dimenticare il brusio sommerso dei Maghi e delle Streghe alle sue spalle, intenti a compiangere il suo matrimonio durato appena tre anni, dimenticare la sensazione di vuoto totale che l’aveva fatta sentire una persona insensibile e gelida, priva di sentimenti.
Come spiegare, altrimenti, quella sorta d’indifferenza che la avvolgeva, quando gli occhi carezzavano il nome di suo marito, inciso nel marmo?
Era dispiaciuta, sicuramente, ma non straziata, distrutta, annientata dal dolore dilaniante che dovrebbe provarsi alla morta della persona con cui si ha scelto di dividere la propria vita.
Forse, comprese, il motivo di tali sensazioni era la consapevolezza di non aver mai preso quella decisione, di non aver mai imboccato quella strada, di non aver mai saltato quel precipizio che, in un istante di folle impulsività, avrebbe condotto all’amore.
Non si accorse che la folla di gente aveva cominciato ad allontanarsi fino a quando l’officiante non l’ebbe raggiunta e, posatele una mano sulle proprie, le sussurrò qualche parola di conforto.
Minerva annuì, il viso congelato in quell’espressione imperturbabile che aveva sempre messo a disagio la gente e congedò l’uomo, chiedendo di poter restare qualche istante da sola.
Quando fu certa che nessun’altro fosse nei paraggi, lasciò le labbra libere di tremare ed estrasse un fazzoletto dalla tasca dell’ampia gonna nera, asciugando gli occhi senza nemmeno sollevare gli occhiali a mezzaluna.
Col sole che inondava ogni cosa attorno a lei, perdersi nei ricordi fu più facile di quanto avrebbe creduto; rispondere alle domande che le balzavano in mente, ribelli e decisamente poco affini con la sua mente ordinata e razionale, invece, lo fu molto meno.
L’unica, alla quale sentì il bisogno di aggrapparsi fu: “cosa mi ha condotta a questo momento?”.
E, inevitabilmente, il sole fu il filo sottile che, strappandola al presente, la scaraventò bruscamente indietro negli anni, fino all’istante in cui ogni cosa, nella sua vita, era cominciata a cambiare.
 
Era una giornata d’inizio estate, una Domenica mattina, e la messa era finita da qualche minuto.
Minerva se ne stava in piedi, composta ed educata, nel mezzo tra suo padre e sua madre, intenti a salutare i membri della Comunità intervenuti alla funzione.
L’abito verde chiaro che indossava le era stato confezionato appositamente da Isobel, che era una sarta molto abile – Minerva, a distanza di anni, avrebbe rammentato come sua madre fosse brava in praticamente ogni cosa – come dono per l’inizio delle scuole elementari.
Quel giorno, in particolare, Malcolm si era dimostrato esageratamente vivace e loro padre era stato costretto a chiedere a Isobel di portare lui e Robert Jr. fuori, durante la celebrazione, poiché i piagnistei e i gridolini di due bambini piccoli rischiavano di distrarre i fedeli dalla messa.
- Minerva, porta Malcolm a prendere una limonata.- le aveva chiesto Isobel, chinandosi per sussurrarle all’orecchio. – Tuo padre ed io vi raggiungeremo tra qualche minuto.- aveva aggiunto, sorridendo.
La piccola Minerva aveva preso la manina cicciotta di Malcolm e lo aveva aiutato a scendere le scale di legno bianche della canonica e, assieme, avevano raggiunto il lungo tavolo da buffet, rispondendo educatamente ai saluti.
Mentre il suo fratellino sorseggiava avidamente la bevanda, Minerva si era guardata intorno, osservando la gente e, in particolare, lo sguardo le era caduto su di una giovane coppia, formata da una giovane donna, alta e dai capelli chiari e da un uomo, più grande e, tuttavia, ancora affascinante.
Gli occhi avidi, frutto della mente acuta della piccola, avevano assaporato ogni tocco, ogni sorriso, ogni sguardo complice che i due si erano scambiati e, quella sera, di ritorno a casa, distesa a letto con il solito libro di favole, si era accorta di non riuscire a concentrarsi sulla lettura, poiché la sua mente vagava, vivace e incontrollabile.
I suoi pensieri avevano continuato a correre, la sua curiosità a crescere e mille domande si erano affacciate nella sua testa: cosa si provava, a tenere stretta nella propria la mano della persona che ami? Come si riconosce la persona adatta a noi stessi? Come si può essere certi di essere innamorati?
Quella notte, la piccola Minerva aveva scoperto qualcosa che andava al di là di ciò che poteva apprendere nei libri, poiché, come verificò lei stessa, non vi erano testi o manuali che potevano istruire i cuori della gente al mondo migliore di donarsi, alle anime di incontrarsi, alle vite di unirsi.
Nelle settimane che seguirono, Minerva si era ritrovata ad osservare i suoi genitori come non aveva mai fatto prima e a scoprire il grande amore che li legava e, dandosi della cieca, si era chiesta come avesse fatto a non accorgersene prima.
Comprese che una spiegazione a quella sua disattenzione potesse essere il suo carattere, tanto simile a quello del padre, introverso e pacato, che la spingeva a preferire una lettura in giardino, in solitudine, al chiacchiericcio e ai giochi di gruppo che contraddistinguevano gli altri bambini.
Eppure, Minerva scoprì un lato nuovo di suo padre, che mai avrebbe creduto esistesse, un lato che solo Isobel sembrava in grado di tirar fuori.
Del padre autoritario, paziente e moderato che aveva imparato a temere, rispettare e ammirare, rimaneva ben poco quando Isobel entrava in una stanza, trasportando una teglia di biscotti e, ridendo, fingeva che non ce ne fossero abbastanza per lui.
Il pastore dalla morale ferrea, lo spirito incorruttibile e la voce tuonante, si scioglieva come ghiaccio al sole di fronte agli occhi verdi di Isobel, ridenti o piangenti che fossero, e la sua voce perdeva sicurezza, riducendosi ad un balbettio confuso e impacciato, quando lei si sporgeva ad accarezzargli il viso con dolcezza.
L’uomo imponente, con le rughe a solcargli il volto, le mani colme dei calli che derivavano dall’aiutare i braccianti nelle piantagioni e lo sguardo perennemente preoccupato da un qualche problema che affliggeva un membro della Comunità, si tramutava in un ragazzino vivace, entusiasta e giocoso, ogni qual volta Isobel tentava di suonare qualcosa al pianoforte o di terminare un lavoro di cucito, come se Robert si divertisse un mondo a stuzzicarla e a guardare il nervosismo colorarle le guance candide di scarlatto.
Gli occhi di suo padre brillavano ad ogni risata di sua madre.
Minerva, rimasta dapprincipio spiazzata dallo scoprire quanta influenza Isobel avesse su Robert, scoprì presto che nemmeno la donna era immune a lui.
Isobel, donna forte e dello spirito pratico, cercava sempre lo sguardo di Robert, prima di prendere decisioni spinose o importanti, anche se, magari, riguardavano solo lei.
L’affascinante bellezza dai lunghi capelli corvini, si specchiava agitata, ogni qual volta ricorreva un anniversario, sospirando preoccupata e colorando le labbra di un rosa leggero, domandandosi se suo marito la trovasse ancora bella come un tempo.
La vivace fanciulla che amava trascorrere i pomeriggi a raccogliere fiori con cui adornare il capo della figlioletta, cambiava umore istantaneamente, adombrandosi, se leggeva nell’animo di Robert un tormento del quale anelava di portare il peso con lui.
I suoi genitori erano opposti eppure complementari, come se il destino si fosse divertito ad unire due persone troppo diverse tuttavia bisognose l’una dell’altra.
E, talvolta, ritrovatasi involontariamente esclusa dalla bolla d’amore che avvolgeva i suoi genitori, Minerva si era domandata se il loro legame, tanto profondo e assoluto, comprendesse anche lei e i suoi fratelli.
Per la prima volta nella sua vita, Minerva ebbe paura dell’amore, poiché temeva che innamorarsi tanto follemente di qualcuno, potesse impedire ad un uomo e una donna di amare allo stesso modo un figlio.
Era un concetto sciocco e privo di senso, eppure quel concetto aveva messo radici nella bambina, portandola, qualche mese dopo, a esprimere quel dubbio a suo padre che, conoscendo profondamente l’animo della figlia, aveva notato quanto fosse tormentata.
Robert, colpito e intristito dall’idea che Minerva si era fatta dell’amore, l’aveva fatta sedere sulle proprie ginocchia e l’aveva abbracciata come raramente faceva.
L’aveva cullata a lungo, raccontandole di come si erano conosciuti lui ed Isobel e di quanto erano stati impulsivi a fuggire per sposarsi, di quanto avevano rischiato, di quanto avevano combattuto e di quanto si erano sacrificati per costruire la loro vita insieme.
E, poi, l’aveva guardata dritto negli occhi, occhi così simili ai suoi e aveva affermato, solenne:
“ Quando sei nata tu, ogni sacrificio, ogni sforzo, ogni dolore è stato ricompensato. Sapere che il nostro amore aveva dato luce ad una vita che portava in sé, mescolate, le nostre anime, era il dono più grande che Dio potesse farci”.
Da quel giorno, Minerva non aveva avuto più paura di non riuscire ad amare un figlio.
 

Hai rimpianti, Minerva? 


Sorrise, poiché, concentrandosi, riusciva ad avvertire ancora le braccia di suo padre attorno alle spalle, la sua voce profonda e sincera, i suoi occhi onesti e puri.
Il sole della sua infanzia era grande e luminoso, quasi accecante.
Non c’erano state ombre, dopo quel discorso, nessun timore o turbamento; Minerva aveva compreso che l’amore che era in grado di dare si sarebbe moltiplicato, sbocciando come i fiori nei campi sconfinati del paesino in cui viveva.
Eppure, eccola lì, a troppi decenni di distanza, china sulla tomba dell’uomo che aveva sposato, da sola.
Perché non c’erano figli a sostenerla e a piangere con lei?
Dov’era finita la bambina colma di speranza, proiettata in un futuro fatto di occhi luminosi, riflessi allo specchio tormentati e ghirlande di fiori posate sul capo?
Minerva McGranitt era conosciuta da tutto il Mondo Magico come una creatura algida, dal cuore di pietra e impassibile a qualsivoglia debolezza o paura.
Aveva combattuto Voldemort, rischiando la vita, senza mai tirarsi indietro o tentennare.
La paura non abitava il suo cuore o, almeno, non il genere di paura che ci si aspetterebbe.
Perché Minerva lo sapeva, che un’ombra nel suo animo c’era e non l’abbandonava mai, accompagnandola fedelmente lungo il corso degli anni.
Quell’ombra, che avrebbe poi generato il folle terrore di commettere gli stessi errori di sua madre, era nata due anni dopo la chiacchierata con suo padre riguardo l’amore.
E, proprio come le peggiori tempeste, si era generata d’improvviso, dal nulla e aveva lasciato dietro di sé conseguenze inimmaginabili e danni irreparabili.
 
 
Fu durante un pomeriggio delle idi di Ottobre, che la sua vita cambiò drasticamente.
Minerva aveva compiuto otto anni qualche giorno prima e la festa per il suo compleanno era stata intima e allegra; circondata dalle persone che più l’amavano e più amava al mondo, la piccola si era sentita protetta, felice e al riparo da qualsiasi tempesta potesse tentare di spazzare via il calore che quella famiglia sembrava emanare.
Non aveva idea, la piccola Minerva, che la tempesta che tanto temeva non sarebbe giunta dall’esterno, ma sarebbe nata dentro di lei, nutrendosi dell’immenso potere che ancora non conosceva ma già la dominava.
Quel pomeriggio, seduta sul dondolo bianco che suo padre aveva costruito per Isobel in giardino, immersa nella lettura di un libro sulle diverse specie di volatili, l’occhi le era caduto sull’immagine di uno splendido passerotto, le cui piume avevano colori vivaci e prepotenti, che si ergeva, vanitoso, sul ramo spezzato di un albero.
Minerva era rimasta affascinata da quanto un essere tanto piccolo, potesse sentirsi tanto sicuro di sé, ostentando il magnifico piumaggio senza vergogna ma, anzi, con orgoglio.
Da brava figlia di un pastore, aveva presto imparato a non dare eccessiva importanza all’aspetto esteriore, alla forma, all’apparenza e a concentrarsi sullo spirito, sull’anima, sull’essenza di ogni cosa.
Per quel motivo, Minerva aveva sempre celato le doti che, fin da piccolissima, l’avevano contraddistinta, come il talento naturale per gli sport, la musica o il disegno; non voleva apparire vanitosa e presuntuosa, non voleva intristire o deludere suo padre.
Quel giorno, tuttavia, osservando il passerotto, piccolo e fiero, Minerva aveva sentito qualcosa riscaldarle il petto, come un raggio di sole penetrato nella carne e, subito dopo, irradiatosi fino agli occhi e alle dita.
Senza pensarci più di tanto, la piccola aveva allungato le piccole mani verso l’abbeveratoio per gli uccelli in pietra che troneggiava nel giardinetto di casa e, dolcemente, aveva carezzato la scultura dell’uccellino che faceva da ornamento.
Immaginare lo stupore e il terrore quando, un istante dopo, l’uccellino prese vita, colorandosi delle stesse tinte vivaci di quello dell’illustrazione e, allegro, cinguettò, alzandosi in volto e disegnando un semicerchio attorno a lei, prima di scomparire nel cielo tramontante, non dovrebbe essere difficile.
Minerva si alzò di scatto, lasciando cadere il libro al suolo e si precipitò in casa, tremante e affannata.
Isobel, intenta a preparare la cena in attesa del rientro di Robert, si accorse subito del suo pallore e si precipitò da lei, abbracciandola.
- Cosa è successo, piccola mia?- le aveva chiesto.
Dapprima timorosa di ciò che sua madre avrebbe potuto pensare di lei – non voleva che la considerasse un mostro!- Minerva non riuscì a frenare la diga di lacrime e parole che esplose di lì a qualche minuto.
Isobel ascoltò il suo racconto con calma e, quando la piccola smise di parlare, i suoi occhi, fermi e comprensivi, si fissarono in quelli di Minerva.
- Non devi aver paura, Minerva.- le aveva detto, prendendola per le spalle.
- Ma, mamma, tu non capisci! L’uccellino era di pietra e, un attimo dopo, era vivo!- aveva ribattuto la bimba, agitata e priva di controllo come mai le era capitato d’essere.
La voce di sua madre era stata ferma e solenne.
- Minerva, non c’è nulla di sbagliato o mostruoso in te.- aveva affermato, cercando di sorridere.
- Tu sei uguale a me, nel tuo sangue c’è magia e, un giorno, diventerai una Strega.- aveva aggiunto.
Minerva, sconvolta, era rimasta senza parole per qualche istante, prima di spalancare gli occhi chiari e cominciare a singhiozzare.
- Una… una strega?! Mamma, che cosa dici?! Le streghe sono… malvagie e… demoniache!- aveva esclamato, tremante.
Isobel aveva sospirato, rimettendosi in piedi e le aveva versato un bicchiere d’acqua.
- Calmati, Minerva, bevi questo. Io torno subito.- aveva detto, prima di sparire al piano di sopra.
Ne era tornata diversi minuti dopo, ritrovando sua figlia con il bicchiere ancora colmo in mano, in stato di shock.
Isobel si era nuovamente chinata, per raggiungere la sua altezza.
- Guarda.- le aveva detto, indicandole la bacchetta che teneva tra le mani dalle dita sottili.
- La magia non è malvagia, Minerva. La magia nasce pura e non è diversa dall’anima. Ogni uomo su questa terra ha la possibilità di scegliere che tipo di vita condurre, che tipo di persona essere e la stessa cosa vale per i Maghi e le Streghe. Sarai tu a decidere che essere umano, che donna, che Strega essere. Il tuo cuore non sarà mai malvagio, se tu non lo vorrai.- le aveva spiegato, puntando la bacchetta contro il vaso di fiori ormai quasi secchi che troneggiava al centro del tavolo.
Aveva mormorato qualche parole e, un istante dopo, i fiori erano tornati freschi, profumati, brillanti e pieni di vita.
Minerva l’aveva guardata. – Sei una strega per davvero, mamma?- le aveva chiesto, tremante.
Isobel aveva annuito, con gli occhi lucidi ed espressione colpevole e addolorata, a causa della consapevolezza di aver tenuto nascosto qualcosa di grave al marito e, soprattutto, a quei figli che, a quanto pareva, avevano ereditato appieno le sue facoltà.
Isobel – Minerva lo avrebbe capito solo anni dopo – aveva già compreso che, quella sera, la loro vita di un tempo si era conclusa, che mai niente sarebbe più stato lo stesso, che qualcosa si era irrimediabilmente incrinato.
E, la frattura, cominciò con la confessione che la donna fece al marito, in lacrime, due giorni dopo, nella loro camera da letto.
Minerva rammentava bene che, la notte in cui aveva scoperto di essere una Strega, non aveva chiuso occhio e se n’era rimasta a rigirarsi nel letto, spaventata da se stessa come mai era stata spaventata dalle ombre che si allungavano dal suo armadio.
I giorni seguenti, Isobel si era intrattenuta a lungo con lei, spiegandole tutto ciò che le riusciva riguardo il Mondo Magico, Hogwarts e la Storia Magica.
La tensione tra le due, tuttavia, rimaneva palpabile, poiché Minerva non le aveva perdonato di aver taciuto un tale segreto e, soprattutto, di averle fatto promettere che non avrebbe raccontato nulla a suo padre.
Robert, tuttavia, non era uno sciocco e ben presto notò quella sorta di nervosismo, i sussurri, le occhiate apprensive che Isobel riservava a Minerva e lo sguardo spaurito della piccola, ogni volta che un bicchiere andava in frantumi o una lampadina si fulminava.
Così, due sere dopo, l’uomo aveva atteso che Isobel fosse ormai in abiti da notte e le aveva chiesto spiegazioni, con dolcezza e calma, rassicurandola sui suoi sentimenti per lei e per i bambini, qualsiasi cosa dovesse confessargli.
Minerva, nascosta dietro la porta, aveva udito i singhiozzi spezzati di sua madre, le poche parole sussurrate da suo padre, sgomento e, poco dopo, la porta della stanza si era aperta e Robert ne era uscito, senza nemmeno vederla e l’aveva superata, scendendo le scale e rifugiandosi nel suo studio, dal quale non era emerso per l’intera notte e nemmeno il giorno successivo.
Quando, scesa a colazione prima della messa della Domenica, Minerva aveva incrociato per la prima volta lo sguardo del padre dalla rivelazione, si era accorta che, qualcosa, in lui, era irrimediabilmente cambiato.
L’uomo l’aveva osservato a lungo, perso, carezzandone il volto, le mani, fissando gli occhi nei suoi, come se cercasse un segno di ciò che era diventata, ma parve non trovarne, poiché, sospirando, aveva accennato un sorriso.
- Vieni, piccola, c’è il pane al burro, il tuo preferito.- le aveva detto, indicandole con un cenno il vassoio.
In quel momento, qualcosa nella piccola Minerva si era spezzato, irrimediabilmente ed era scoppiata in lacrime, aveva sceso di corsa gli ultimi gradini e si era gettata nelle braccia del padre, che l’avevano accolta e stretta a sé.
Entrambi forestieri in quel mondo nuovo e sconosciuta, catapultati in una realtà spaventosa e incredibile, si erano dati forza a vicenda, in quell’abbraccio, stoici nella decisione di affrontare la tempesta.
Isobel, accanto al lavabo, aveva chinato il capo e lasciato piccole gocce di rugiada scivolare, silenziose, lungo le guance e tuffarsi sul tappeto.
 

Hai rimpianti, Minerva?


Minerva McGranitt chinò il capo, stringendo le labbra sottili nel tentativo di controllare l’ondata di pianto che minacciava di strariparle dagli occhi e, ignorando il pizzicore al naso, volse il suo sguardo oltre la lapide marmorea, laddove l’orizzonte sfumava di verde e turchese.
Quel giorno, di molti anni prima, l’aveva segnata  irrimediabilmente, gettando le basi di ciò che, da donna, sarebbe diventata: una Strega potente, imperturbabile, introversa e razionale, stoica e con una morale impeccabile, che avrebbe fatto dell’onestà e della lealtà i valori fondamentali della sua intera esistenza.
Minerva sapeva bene che l’aver osservato suo padre, straziato dal dolore di scoprire un lato tanto sinistro di sua moglie, dal sapere che lei non si era fidata abbastanza di lui e del loro amore da confessargli la sua natura, dal non riuscire a rinunciare a lei, nonostante tutto, aveva gettato un’ombra sulla sua vita e sul suo cuore.
Osservare suo padre dilaniato tra l’amore per i suoi figli – anche Malcolm e Robert Jr. mostrarono presto capacità magiche – e la sua morale profonda, il suo spirito religioso e, talvolta, bigotto, chiuso, irrazionale nella sua fede cieca, era stato un tormento che l’aveva perseguitata durante i mesi in cui si tornava a casa da Hogwarts e che non avrebbe mai smesso di torturarla.
Robert non aveva certo smesso di amare lei e i suoi fratelli e nemmeno Isobel, nonostante tutto, eppure Minerva rammentava perfettamente quanto silenziosa, tesa e cupa fosse divenuta casa sua, in netto contrasto con quella luce sgargiante che vi dimorava un tempo.
E ricordava anche il senso di colpa di Isobel, il peso di quel segreto, che l’aveva consumata lentamente, fino a quando non si era spenta, innamorata e piena di rimorsi.
Sua madre riuscì per un soffio a vederla diplomata a pieni voti, a godere di quel suo ultimo rientro alla Canonica, poco prima di partire per il lavoro al Ministero.
Ed era stato durante questo soggiorno che, una Domenica, Minerva aveva incontrato Dougal, l’uomo che, per una manciata di giorni, aveva gettato all’aria tutte i buoni propositi e le convinzioni che si era costruita durante quegli anni, decisa a non commettere gli stessi errori di sua madre.
 
Dougal era un Babbano, un giovane allegro, umile e onesto, un lavoratore instancabile e, al contempo, un artista, una sorta di romanziere squattrinato che amava comporre versi sulla magnificenza della vita mentre coltivava la terra.
Dougal l’aveva corteggiata con delicatezza, rispettando i suoi tempi, senza tentare di distruggere quella corazza che Minerva si portava cucita addosso, ma sperando di riuscire a penetrarla col tempo e con l’amore.
Dougal aveva rappresentato la speranza, la fiducia, la possibilità di una vita diversa e non di un destino tracciato dall’essere nata con del sangue magico nelle vene.
Quando la fase di infatuazione iniziale fu passata, lasciando il posto all’amore vero, all’affatto sincero e alla tenerezza che spinge a far progetti stabili, Minerva aveva sperato che lui accettasse di seguirla a Londra, dove lei avrebbe lavorato al Ministero.
Lo statuto di Segretezza, tuttavia, le aveva impedito di confessare i dettagli del suo impiego al giovane e questi, con molto tatto e con grande dolcezza, le aveva spiegato di essere molto felice e impaziente di ereditare la fattoria di famiglia, immersa tra i pascoli sconfinati della Scozia.
Nonostante i loro piani tanto diversi, il loro legame era continuato, rafforzandosi e, un giorno, mentre passeggiavano tra i campi arati della sua fattoria, Dougal si era inginocchiata e, dichiarandole il suo amore con poche rime colme di tenerezza, l’aveva chiesta in moglie.
Senza nemmeno rifletterci, Minerva aveva accettato, accecata da quell’amore che, forse,  ad ogni anima è dato di provare una sola volta nella vita.
Quando, tuttavia, Dougal l’aveva riaccompagnata alla Canonica, quella sera, Minerva aveva scorto lo sguardo preoccupato di suo padre, intento ad osservarli da lontano.
E, quella notte, non era riuscita a dormire, tormentata dalla paura, dal rimorso, dalla consapevolezza che, sposare Dougal, avrebbe significato condannarlo alla stessa sofferenza che suo padre provava ogni giorno e condannare se stessa ad una vita di sensi di colpa, proprio come Isobel.
Non poteva rinunciare alla magia, così come non poteva pretendere che Dougal cancellasse ogni sogno, progetto o ambizione per seguirla, seppure avesse accettato l’idea che lei era una strega.
Con il cuore pesante e straziato dal dolore, Minerva aveva lasciato la Canonica all’alba, facendosi forza sulla convinzione che Dougal, almeno, sarebbe stato libero e felice, avrebbe sposato una donna senza segreti inconfessabili e avrebbe avuto una vita serena.
Non avrebbe condannato l’uomo che amava ad un cuore diviso a metà tra l’amore che avrebbe nutrito per lei e per i loro ipotetici figli e il disprezzo per quella diversità troppo profonda da poter accettare e comprendere.
  

Minerva accennò un sorriso colmo di rimpianti, un sorriso fatto di rughe e occhi spenti, sbocciato da un cuore ancora colmo di un amore che non aveva avuto modo di vivere ed esprimersi, e che era appassito, senza mai, tuttavia, allentare la morsa prepotente nella sua vita.
Non aveva mai più visto Dougal e non sapeva niente di lui, di cosa gli fosse capitato e, in parte, preferiva così: gettare uno sguardo sulla vita che avrebbe potuto vivere non le sembrava una buona idea e, ancora, non voleva rinnegare ciò che aveva costruito.
Lo sguardo le cadde, inevitabilmente, sul nome di Elphinstone e, per la prima volta, si lasciò sfuggire un sussurro.
- Oh, Signor Urquat.- mormorò, piena di tenerezza.
Per quanto insensibile ai sentimenti, Minerva sapeva di aver amato profondamente suo marito, sebbene non fosse l’amore della sua vita.
 
Elphinstone era stato un gentiluomo, l’aveva ammirata per molto tempo da lontano, prima di provare ad avvinarsi a lei, trattenuto da quel rispetto che nutriva per la sua intelligenza e il lavoro che svolgeva al Ministero.
Era stato proprio al Ministero, che si erano conosciuti, poiché lui era il suo Superiore e, immediatamente, si era instaurata tra loro un’amicizia sincera, fatta di ammirazione e sostegno reciproco.
Entrambi avevano ammirato l’acutezza mentale, le capacità logistiche e pratiche dell’altro, la morale impeccabile e l’onestà che li aveva contraddistinti.
Elphinstone, già infatuato di lei, le aveva offerto la promozione che meritava, ma Minerva, desiderosa di tornare laddove si era sentita a casa e al sicuro per la prima volta da quando aveva scoperto di essere una Strega, aveva accettato la cattedra di Trasfigurazione a Hogwarts.
Le loro strade si erano perse di vista per un periodo, nonostante i due si fossero tenuti in contatto e avessero mantenuto viva l’amicizia e il rispetto reciproco.
Fu durante una breve vacanza in Scozia che Elphinstone raggiuntala e  ormai chiaramente  innamorato di lei, si  era dichiarato per la prima volta.
Minerva aveva rifiutato con garbo la sua proposta, poiché ancora tormentata dal dolore per l’aver abbandonato Dougal, ancora spaventata dall’idea di commettere errori e deludere qualcuno, come aveva fatto sua madre, ancora incapace di aprirsi e lasciarsi andare.
La paura di essere ferita o ferire a sua volta, forse, non l’avrebbe mai abbandonata.

L’uomo non si era dato per vinto e, nel corso degli anni, aveva continuato ad amarla e a proporle di sposarlo, sebbene con il solito charme e la galanteria che lo avevano contraddistinto.
Durante la Guerra, avevano combattuto fianco a fianco ed era stato in quel periodo che nella donna era maturata l’ultima e la più folle delle paure che l’avrebbero condotta a compiere scelte di vita radicali e sofferte.
 
 
Quella paura, la più difficile da accettare e confessare, la più insensata da spiegare.


Hai rimpianti, Minerva?
 

Minerva, in prima linea durante la guerra, al fianco di Albus Silente, membro dell’Ordine della fenice, aveva creduto, inizialmente, che le perdite dei Maghi e delle Streghe che combattevano insieme a loro sarebbe stato il più grande dolore e fardello da portare.
Morti su morti, vite distrutte, malvagità e orrori, erano stati all’ordine del giorno durante quegli anni.
Poi, era giunto il giorno in cui Lily Evans aveva scoperto di essere incinta e, mentre per tutto il Mondo Magico quello era stato il giorno in cui era sbocciata la speranza, per Minerva aveva significato tutt’altro.
Lei aveva scorto il terrore, dietro lo sguardo color smeraldo di Lily, la paura folle e cieca, il dolore malamente trattenuto dalle lacrime che, ribelli, le scivolavano lungo le guance quando suo marito non guardava.
Lei l’aveva vista, scrutare l’orizzonte, carezzarsi il ventre, restare a fissare per lunghi minuti la culletta in cui suo figlio sarebbe stato adagiato di lì a qualche mese.
Lei l’aveva sentita, raccontare a quel bimbo non ancora nato ogni cosa della sua vita, fin dalla scoperta di essere una Strega, cantare interminabili ninna nanne e ripetere fino allo sfinimento quanto lei e James lo amassero.
E, poi, aveva capito.
Aveva capito quando Lily, singhiozzando ma forte di quella determinazione e di quella caparbietà che, un giorno, avrebbe rivisto in suo figlio, le aveva fatto giurare che si sarebbe presa cura del bimbo, se a lei e James fosse successo qualcosa.
Aveva capito, quando Lily, giovane, pura e innocente come il nome del fiore che portava, le aveva mostrato quel fagottino appena nato che sarebbe divenuto il Salvatore del Mondo Magico e, stringendole una mano, le aveva ricordato quella promessa.
Aveva capito, quando Lily, spaventata ma coraggiosa, aveva attraversato la notte stringendosi Harry al petto, avvolta dall’abbraccio di James, per fuggire a Godric’s Hollow, nel tentativo di proteggere tutti da Voldemort, le aveva affidato l’album di fotografie di famiglia, contenente i pochi ricordi di una vita appena iniziata.
Minerva aveva capito che lo strazio più grande di quella donna e di tutte le altre donne del mondo, magico o babbano che fosse, era sempre stato quello e avrebbe continuato ad essere quello nel corso dei millenni: lasciare solo il proprio figlio.
Il dolore provato fino a quel momento le era parso, d’improvviso, una goccia insignificante nell’oceano di quello di Lily, consapevole del futuro che l’attendeva e impotente di fronte all’idea di abbandonare Harry, così piccolo, indifeso e bisogno di amore.
Quell’amore che, un giorno, avrebbe salvato l’intero Mondo Magico.
Era stato così che Minerva McGranitt aveva capito di non avere quello stesso coraggio, il coraggio di mettere al mondo un figlio con la possibilità, seppure lontana e remota, che, un giorno, avrebbe potuto abbandonarlo, morendo in battaglia o per cause naturali.
Con quella consapevolezza, forte e prepotente, Minerva aveva accettato l’ennesima proposta di matrimonio di Elphinstone, fatta sulle sponde del Lago Nero poco prima della fine della Guerra, mettendo però in chiaro che non aveva intenzione di avere figli.
L’uomo, che l’amava da così tanto tempo da non desiderare altro che lei, aveva accettato ogni condizione e, di lì a poco, erano felici e sposati.
 
Minerva si alzò, mosse qualche passo incerta verso la lapide e roteando la bacchetta con maestria, fece comparire una ghirlanda di fiori sulla tomba di suo marito.
Elphinstone era stato un compagno presente, premuroso e affettuoso, sempre pieno di attenzioni che, tuttavia, aveva saputo quando lasciarle il suo spazio, quando rispettare i suoi silenzi, quando stare semplicemente seduto con lei, sul dondolo in giardino.
Minerva lo aveva amato e, soprattutto, lo aveva rispettato e, quando era stato morso dalla Tentacula Velenosa,  lei era rimasta al suo capezzale, straziata dal dolore eppure consapevole di doverlo lasciare libero di andare o non avrebbe riposato in pace.
Se pensava agli ultimi giorni, Minerva stentava a credere che fosse già stato celebrato il funerale e che, di lì a qualche ora, sarebbe tornata a Hogwarts.
Il suo cuore era freddo, freddo e pesante, come se quel sole che, ostinato, si riversava ovunque, donando calore, non fosse in grado di penetrare in lei.
Era sola, stoicamente in piedi come una torre di pietra durante una tempesta.
 
Hai rimpianti, Minerva?
 
- Signora Urquat?-
La voce del cocchiere la fece quasi sussultare e, voltatasi, si accorse che la carrozza che l’avrebbe condotta a Hogwarts era già sul vialetto.
Con un’unica, dolce carezza alla scultura marmorea, voltò le spalle al cimitero e uscì, salendo a bordo.
Chiuse gli occhi stanchi e, gettato il capo indietro, pianse quelle lacrime che la compostezza e la dignità le avevano impedito di versare in pubblico.
Si sentiva svuotata, completamente priva di qualsiasi emozione, perfino la rugiada che le colava dagli occhi le appariva sterile e priva di senso.
Giunse al Castello che era ormai sera e Silente l’accolse con uno sguardo affettuoso e un sorriso incoraggiante.
Pamona Sprout, che la conosceva profondamente, si limitò a posare una mano sulle sue quando le lanterne si accesero in contemporanea e gli studenti più grandi si riversarono in Sala Grande.
Minerva McGranitt si alzò dalla tavolata degli insegnanti e, come il suo ruolo richiedeva, lasciò la Sala e raggiunse le scale, laddove i primini sarebbero arrivati di lì a poco.
 
Hai rimpianti, Minerva?
 
Vide le loro testoline prima ancora dei loro visi: capelli di ogni colore immaginabili, gambette che si muovevano, goffe, manine a sfiorare i  corrimani delle scale.
Si arrestarono a qualche scalino da lei e, in contemporanea, sollevarono gli sguardi su di lei.
Occhi, occhi timorosi, spauriti, emozionati, entusiasti, selvaggi, confusi, che imploravano qualcuno di cui fidarsi, qualcuno che li rassicurasse e spiegasse loro che tutto sarebbe andato bene.
 
Hai rimpianti, Minerva?
 
La McGranitt fece il solito discorso, rapida e concisa, un po’ brusca, eppure, quand’ebbe finito di parlare, ecco di nuovo quegli sguardi, più rilassati, caldi, vivaci, pieni di aspettative.
Negli occhi di ognuno di quei bambini, Minerva poteva intravedere la fugace immagine di quel figlio che non aveva avuto il coraggio di concepire, poiché troppo spaventata dall’idea di amarlo in modo ossessivo, sconfinato, assoluto e  di essere costretta a lasciarlo solo.
I primini la seguirono nella Sala Grande, la Cerimonia di Smistamento occupò un lungo lasso di tempo e, quando la cena fu servita, Minerva si sentiva stanca e provata.
Fu probabilmente il fatto che si stava tenendo  una mano sulla fronte a impedirle di vedere i due studenti, uno abbastanza grande, del quarto o quinto anno e l’altro piccolo, un primino appena smistato, che si erano avvicinati a lei.
Silente si schiarì la voce, indicandole i due e la donna li osservò, confusa.
Il più grande, incoraggiante, spinse il minore nella sua direzione e questi, a sguardo basso, le porse una rosa bianca che Minerva accettò, incerta.
- A tutti noi dispiace molto per suo marito.- mormorò, rosso in viso, il piccolo, sollevando, per la prima volta, i grandi occhi verdi nei suoi.
- Mio nonno è morto qualche mese fa e io sento ancora la sua mancanza, tanto.- aggiunse, più spontaneo e, subito dopo, accennò un saluto e si allontanò.
L’altro ragazzo lo seguì, facendo un cenno col capo in direzione della donna e sorridendo appena, rispettoso ed educato.
Minerva sentì il cuore colmarsi di qualcosa di bollente, palpitante e vivo, che le fece formicolare la pelle e pizzicare il naso.
Piccole lacrime sgorgarono dagli occhi, mentre la corazza della sua anima andava in pezzi e quel sole, di cui aveva sentito la mancanza ogni giorno, tornava a illuminarla.
Un sole che s’irradiava da lei e aveva mille e mille braccia: gli studenti di Hogwarts.
Ognuno di loro era salvezza e speranza di quel Mondo che l’aveva spaventata e poi conquistata, rendendola vittima e poi alleata.
 
Hai rimpianti, Minerva?
 
No, non aveva rimpianti.
Eccoli lì, i figli che aveva scelto di non avere, raddoppiati nei suoi studenti, in ognuno dei loro sguardi.
 
 
 
 
 
  
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