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Autore: giraffetta    09/05/2015    3 recensioni
|Finnick!Centric // Missing Moment Pre HG // 65esimi HG // Tour della Vittoria|
“Perché? Perché la mia bambina è dovuta morire e tu no? Perché?” urlò la donna, lasciando che i singhiozzi le spezzassero le parole tra le labbra. Il ragazzino trasalì e sentì un brivido di freddo lungo la spina dorsale.
“Perché sono tutti morti e tu no, che cos’hai tu più di loro? Che cos’hai tu più della mia povera bambina, eh?” gridò, artigliando la ringhiera del palchetto con le dita magre e ossute.
...
“Mi dispiace!” gridò Finnick con voce rotta, lasciando fuoriuscire dolore e lacrime. “Mi dispiace di essere sopravvissuto!" buttò fuori velocemente, osservando frenetico quel mare di facce che lo scrutavano perplesse.
Genere: Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Finnick Odair
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia è stata scritta per l’iniziativa “Ready, Set, Prompt!” indetta dal gruppo Facebook The Capitol”. Il prompt è "La madre di un tributo morto, durante la visita di un Vincitore nel Tour della Vittoria".






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Il ragazzino biondo di quattordici anni si aggiustò imbarazzato il ciuffo di capelli ribelle, che non voleva saperne di stare a posto e continuava a solleticargli la fronte e gli occhi. Si sfregò i palmi delle mani sui pantaloni a righini e si morse un labbro.
Finnick Odair non si era mai sentito tanto in agitazione come in quel momento. Il suo cuore non accennava a calmarsi nel petto e il cervello era completamente spento, bloccato.
Il Tour della Vittoria doveva essere una passeggiata rispetto all’arena, o almeno così gli avevano detto. Una breve comparsata in tutti i distretti, poche parole di conforto ai parenti degli altri tributi rimasti uccisi, qualche sorriso di circostanza e via, finito.
Ma, Finnick Odair sapeva che tutto quello andava bene per tutti i distretti, eccetto uno.
Il suo.
Tornare nel Distretto 4 avrebbe dovuto significare tornare a casa, sentirsi al sicuro, riprendere in mano la propria vita. E, invece, Finnick si sentiva come se stesse per ridiscendere nell’arena, come se stesse andando a sacrificarsi di nuovo.
Si concentrò sul suo respiro e provò a chiudere gli occhi e rilassarsi, ma nemmeno in quel modo riuscì a scacciare l’ansia. Ormai, gli si era radicata sotto la pelle, non poteva ignorarla.
Finalmente, un pacificatore aprì la porta del minuscolo salottino dove lo avevano messo ad aspettare e gli fece cenno di uscire. Lo scortò lungo un corridoio e, poi, lo pose innanzi ad una porta di legno chiaro, aperta solo per un piccolo spiraglio.
Finnick tese le orecchie e sentì un vago mormorio provenire dall’esterno. Le mani ripresero a sudargli, ma si impose di restare calmo e mostrarsi sorridente e a suo agio. Si disegnò sul volto un sorriso e si impettì, lo sguardo dritto dinanzi a sé, pronto a uscire.
Quando la porta si spalancò, fu avvolto da un placido silenzio. Il mormorio di poco prima s’interruppe di botto e decine di occhi si posarono su di lui, con sguardi differenti: curiosità, aspettativa, gioia, stupore, rancore, diffidenza, odio.
Finnick poteva sentire ciascuno di quegli sguardi lacerargli la pelle, come tanti piccoli coltelli, e si costrinse ad avvicinarsi al microfono, posto al centro del palco. Rimase lì, impalato, cercando di rammentare cosa dire e come dirlo, ma la bocca era completamente secca e il cervello era altrove, lontano.
Proprio mentre stava per cominciare a balbettare qualche parola, una voce di donna si levò su quel silenzio, chiamando il suo nome con disprezzo.
“Finnick Odair!” ruggì la voce, facendo fare una capriola al cuore di Finnick. Il ragazzo si voltò verso la fonte di quel grido e scoprì con orrore che proveniva da un palchetto poco distante, dove era stata disposta la famiglia della sua compagna di distretto, della ragazza che era stata scelta per essere un tributo insieme a lui, e sentì un sudore freddo imperlargli la fronte.
“Finnick Odair!” ripetè di nuovo la voce, facendosi spazio in quel mare di silenzio come un’onda impetuosa. Una donna dal viso contorto in una smorfia di disapprovazione si sporse dal palchetto e puntò un dito scarno verso il ragazzino biondo.
Doveva essere stata bella, prima. I suoi lineamenti apparivano dolci, seppur contorti in strane smorfie rabbiose e disperate. I capelli castani splendevano al sole, anche se arruffati e sconvolti sul capo. E i due occhi verdi, occhi penetranti ed espressivi, erano rossi e cerchiati da occhiaie, ma mandavano lampi e scintille di vitalità, di rabbia.
“Finnick Odair!” ripetè per la terza volta, sputando con rabbia ogni singola lettera. Finnick indietreggiò di pochi passi, incerto su cosa fare, e si guardò attorno. Tutta la folla spostava l’attenzione tra quella donna e lui, come in una partita di tennis.
Avrebbe dovuto dire qualcosa, metterla a tacere, scappare? Di sicuro, toccava a lui risolvere la situazione. Dopotutto era il Vincitore dei 65esimi Hunger Games.
“Perché? Perché la mia bambina è dovuta morire e tu no? Perché?” urlò la donna, lasciando che i singhiozzi le spezzassero le parole tra le labbra. Il ragazzino trasalì e sentì un brivido di freddo lungo la spina dorsale.
“Perché sono tutti morti e tu no, che cos’hai tu più di loro? Che cos’hai tu più della mia povera bambina, eh?” gridò, artigliando la ringhiera del palchetto con le dita magre e ossute. I capelli le coprivano il viso, ma lei li spostava frenetica con un movimento della testa, puntando così i suoi occhi in quelli di Finnick, che, muto, non sapeva cosa fare.
“Rispondi! Parla!” lo esortò quella madre, lasciando le lacrime scorrere sul suo viso, ma non distogliendo lo sguardo dal ragazzo. Finnick sentì un moto di tristezza opprimergli il petto e provò a formulare dei pensieri coerenti, delle spiegazioni convincenti, un qualcosa che somigliasse a un discorso tale da poter arginare quel fiume in piena.
Ma, cosa poteva dire a una madre straziata dal dolore?
Cosa poteva rispondere a una madre che aveva visto morire sua figlia in diretta?
Non c’era nessuna spiegazione al mondo per una cosa crudele come quella e Finnick lo sapeva
bene.
Il giovane strinse i pugni e si riavvicinò al microfono. Doveva comunque dire qualcosa, lo doveva a quella madre in lacrime, lo doveva a tutti i genitori dei tributi rimasti uccisi nell’arena, lo doveva al suo cuore e alla sua coscienza.
“Io…” iniziò, incerto. “Io… io non lo so. Credo di non avere niente di più degli altri ragazzi che erano con me nell’arena. Non avevo e non ho niente più di sua figlia. Non lo so perché io sono vivo e lei no, davvero.” concluse, sentendosi uno stupido per quell’accozzaglia di parole senza senso.
La donna lo fissò stupita, le lacrime che continuavano a rigarle le guance e le mani ancora strette alla ringhiera del palchetto. Sembrava essersi spenta, come una lampadina lasciata accesa troppo a lungo che all’improvviso si esaurisce.
Un pacificatore fece segno a Finnick di congedarsi e venire via e il ragazzo indietreggiò lentamente, a disagio. Stava per voltare le spalle alla folla, al suo distretto, alla sua gente, quando capì di non poterlo fare. Rapido, si voltò e corse di nuovo verso il microfono, lo prese e si girò verso la donna e i suoi parenti, verso quella famiglia spezzata e inerme.
“Mi dispiace!” gridò con voce rotta, lasciando fuoriuscire dolore e lacrime. “Mi dispiace di essere sopravvissuto. Non lo meritavo forse, ma ho lottato per sopravvivere lì dentro, ho lottato come sua figlia e come tutti gli altri ragazzi! Nessuno voleva morire, nemmeno io! Mi dispiace!” buttò fuori velocemente, osservando frenetico quel mare di facce che lo scrutavano perplesse.
Due pacificatori gli strapparono immediatamente il microfono dalle mani e, presolo per le braccia, iniziarono a trascinarlo via, incuranti del suo dimenarsi.
“Mi dispiace!” urlò ancora Finnick, sentendo la gola bruciargli per lo sforzo di farsi udire da tutti. “Mi perdoni…” mormorò più flebile, chiudendo gli occhi e singhiozzando.
Stava per essere gettato oltre la porta di legno, quando un applauso si levò dalla folla. Prima uno, poi due, poi tre e quattro e dieci e venti e cento iniziarono a battere le mani all’unisono, alzandosi in piedi. Finnick rialzò il capo, scioccato, e osservò la sua gente omaggiarlo. Molti avevano il viso rosso e bagnato di lacrime, ma tutti sorridevano nella sua direzione. Anche Finnick si commosse e, prima di essere scaraventato come un sacco fuori da quel palco, guardò ancora una volta quella madre sul palchetto. Anche lei batteva le mani lentamente e lo guardava, con meno odio forse.
Prima che le porte gli si chiudessero in faccia, a Finnick sembrò di scorgere le parole “Ti perdono” sulle labbra della donna e, per la prima volta da quando era uscito da quella maledetta arena dei 65esimi Hunger Games, si sentì in pace con se stesso.
Ci sarebbero state sicuramente delle conseguenze per il suo gesto e per le sue parole, ma a Finnick non interessava, ormai, perchè aveva già ottenuto quello che desiderava.
Era vivo.
Era tornato a casa.
Era stato perdonato.
 

 





Senza titolo 1






Note:
Inizio un po' a vergognarmi dato il ritmo di cose che sto sfornando e pubblicando ultimamente *///* Ma mi sento veramente ispirata, grazie ai prompt dell'iniziativa cui partecipo, che non posso fare a meno di scrivere!
Stavolta, tocca a Finnick essere protagonista di una mia storia, ambientata durante la sua visita al Distretto 4, il suo distretto, dove si confronta con la madre della ragazza partita per l'arena assieme a lui.
Spero di aver reso Finnick Ic, nonostante qui sia ripreso come un ragazzino 14enne, ancora sconvolto per l'esperienza dell'arena, e di aver scritto una cosa coerente (?) perchè ci tenevo a scrivere qualcosa dove il protagonista fosse il bel sirenetto.
Grazie mille a chi ha letto anche questa cosina qui <3
Alla prossima (purtroppo per voi >.<)

Bacioni,Giraffetta
  
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