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Autore: Rosebud_secret    11/05/2015    1 recensioni
Eveline Rockford è una nobildonna inglese che, con il marito, sta conducendo degli scavi nei pressi di Ashur. Ricercano, tra i reperti dell'antica civiltà sumera, delle nozioni tecnologiche che la corona possa sfruttare per creare macchine volanti più potenti da impiegare nella guerra in corso. Qualcosa è stato trovato nelle profondità della roccia, ma la porta è ancora chiusa ed Eveline, incinta, dovrà recarsi negli scavi di nascosto, accompagnata dal giovane Thomas, per vedere la nuova scoperta. Eppure, quel che si nasconde al di là della soglia potrebbe non piacerle...
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Genere: Angst, Dark, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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4 Aprile 1795


La signora Rockford discese le scale con eccitazione, andando incontro al marito che la prese tra le braccia e la strinse, gioioso. C’erano volute infinite ricerche, anni e anni di scavi, un dispendio di soldi e risorse impensabili, ma alla fine i conti avevano ben impiegato la fiducia che re Giorgio III aveva riposto in loro, arrivando ad una scoperta che aveva dell’incredibile.

“Dunque è vero? Avete trovato la porta?”, domandò, carezzando il volto del marito con vibrante impazienza.

Lui sorrise, scostandola un poco e ammirandola. Era stato agli scavi per giorni e gli era mancata la radiante bellezza della consorte, ora ancora più luminosa per via della gravidanza ormai avanzata.
“Abbiamo trovato un cunicolo e le iscrizioni confermano che siamo vicini, ma non voglio essere troppo ottimista, per ora.”

“Voglio vederlo!”

“Non nel vostro attuale stato, signora Rockford. E non abbracciatemi troppo: sono davvero in condizioni impresentabili. Voi, piuttosto, come state? E il nostro ometto?”, chiese, sfiorandole con dolcezza il ventre racchiuso dalla soffice seta acquamarina dell’abito.

“Non capirò mai cosa vi renda tanto convinto che sarà un maschio.”, rise lei, “A ogni modo scalcia di continuo, è impaziente di uscire.”

Il viso del conte si accigliò un poco.
“Mi dispiace che siate destinata a partorire qui, in questo angolo di mondo dimenticato da Dio. Per fortuna, però, abbiamo con noi la nostra servitù e anche il dottor Clark e la signora Ward hanno deciso di raggiungerci. Saranno qui a giorni.”

“Non cambiate discorso, signor mio!”, esclamò lei, “Voglio vedere quel cunicolo e raggiungere con voi la porta. Vi ho seguito qui dall’Inghilterra, vi ho aiutato ogni notte con la decifrazione del sumero, vi ho persino coadiuvato nel dirigere gli scavi. Il risultato di questi lunghi anni di lavoro è tanto mio quanto vostro, e questo bambino non nascerà per altre tre settimane.”, sentenziò con espressione severa.

Il marito sorrise, ed era sul punto di negarle tale concessione per l’ennesima volta quando bussarono alla porta. Ansioso di levarsi da quella scomoda posizione, raggiunse l’uscio ancor prima che il signor Hartigan, il maggiordomo, avesse finito di salire le scale.
Si sorprese di trovarsi di fronte il capo cantiere Phillips e un paio di lavoratori arabi, intabarrati nei loro abiti tradizionali. Solo dopo si accorse del bambino che il signor Phillips stava tenendo saldamente per un braccio. Era sporco di sabbia da testa a piedi e persino il volto, ormai, aveva una colorazione terrosa, ma ciò non occultava comunque i segni delle sberle che aveva ricevuto.

“Ho trovato di nuovo questa peste a gironzolare nel cantiere, signor conte!”, esclamò, spingendo avanti il bambino e assestandogli un duro scappellotto.
“Può danneggiare i reperti, o le macchine! O forse è solo un dannato ladruncolo: aveva una tavoletta sotto alla camicia e quando ho cercato di prendergliela mi ha morso!”, proseguì, mostrando la mano offesa, su cui spiccava il marchio sanguinante dei denti del fanciullo.
“Se fosse mio figlio lo spellerei a frustate!”

“Lasciate che ci pensi io, signore.”, intervenne il maggiordomo, superando il conte.
Ma quando fu sul punto di afferrare il bambino per una spalla, il piccolo scappò via, si infilò dentro l’abitazione e corse a nascondersi dietro all’ampia gonna della padrona di casa.

“Per l’amor del cielo! Lasciatelo stare, è solo un bambino!”, esclamò quest’ultima, sfiorando la testolina mora, prima di chinarsi per guardarlo dritto nei suoi occhioni azzurri.
“Stai bene, Thomas?”, gli domandò con dolcezza.

“Grazie per averlo riportato qui.”, concluse il conte, prima di chiudere la porta, “Rudolf, per cortesia, andate a chiamare suo padre.”, aggiunse, rivolgendosi al maggiordomo che prese commiato chinando il capo.
Si avvicinò al bambino e lo scrutò con occhi severi.
“Che stavi facendo al cantiere? Hai sette anni ormai, non puoi più comportarti come un bambino.”, sentenziò con severità.

“Ma lui è un bambino, signor Rockford!”, lo rimbeccò prontamente la moglie, “E, come tutti i bambini, è curioso. Non ci vedo proprio nulla di male in questo! E, per dover di precisione, hanno fatto più danni i vostri operai di quanti potrebbe mai farne lui in tutta la vita.”

“Eveline…”, sospirò l’uomo a tono più basso, ma prima che potesse aggiungere altro vennero raggiunti dal signor Hartigan e da Anthony Ashton, padre di Thomas e valletto personale del conte Rockford.
Quest’ultimo aveva uno sguardo truce in volto, ma manteneva una professionale e altera compostezza, nonostante tutto.

“Sono davvero desolato per questo ennesimo incidente, signori.”, disse, chinando il capo, “Vi assicuro che questa volta è stata l’ultima. Thomas, vieni qui.”

Il bambino esitò, spaventato, e nel panico, afferrò con forza la mano della contessa.

“Thomas, non compromettere ulteriormente la tua situazione.”, lo ammonì il padre con ancor più durezza.

“Non punitelo, Anthony, ve ne prego.”, intervenne la donna.
Stava per proseguire, quando Thomas serrò ancor di più la stretta, sebbene per un solo istante, prima di raggiungere il padre ed esser accompagnato, a spintoni, alla scala per i quartieri della servitù.

Il valletto si scusò ancora una volta, prima di scendere a sua volta. La contessa, invece, risalì al piano superiore, chiudendosi nelle sue stanze, addolorata e seccata.



Era ormai notte fonda quando il piccolo Thomas sgattaiolò al piano superiore, sin dentro agli appartamenti della padrona che, inquieta, lo aspettava sveglia. Ed ella inorridì alla vista del sangue rappreso che gli macchiava la misera veste da notte.

“Oh!”, esclamò, scendendo dal letto e facendoglisi incontro, “Ti avevo detto di smettere di andare agli scavi sin dalla prima volta che ti hanno scoperto. Perché ti ostini a non darmi retta? Ho sbagliato a metterti di mezzo e a servirmi di te per scoprire cosa mio marito vuol tenermi nascosto. Ti prego, non avvicinarti più al cantiere, promettimelo!”

Il bambino sorrise per rassicurarla.
“Non c’è problema, signora. Se non mi picchia per questo, lo fa per altro. È normale.”

“No, non lo è! Non lo è affatto!”

Thomas tirò fuori due pezzi di una tavoletta d’argilla da sotto la veste.
“L’ho rotta, mi dispiace…”, mormorò, abbassando lo sguardo, “E l’altra l’ha presa il signor Phillips…”

Eveline lo abbracciò stretto, materna, affettuosa e triste.
“Non fa niente, Thomas.”, lo rassicurò, carezzandogli i capelli.

“Credo che sia qualcosa di importante. Era nell’ufficio di vostro marito al cantiere.”

La donna si allontanò da lui e si sedette alla toeletta, alzando un poco il lume della lampada a olio. A quel punto gli fece cenno di avvicinarsi.
“Hai già provato a leggerla?”, gli domandò.

Il bambino scosse il capo.
“Non sono ancora bravo…”, ammise, guardando un po’ dispiaciuto l’unica donna che fosse stata una madre per lui e, a conti fatti, anche l’unica persona che gli avesse mai mostrato un po’ di affetto e di gentilezza.
Gli aveva insegnato a leggere, a scrivere, a contare, persino a tradurre il sumero. Era davvero intelligente, la contessa Rockford. Molto più del marito. Se c’era qualcuno che meritava di sapere come stavano andando gli scavi, questa era sicuramente lei. O, quanto meno, così la pensava Thomas.

“Sei più sveglio di molti altri, piccolo mio. Prova, coraggio.”, si sentì spronare.

Unì quindi i due pezzi della tavoletta e tentò di tradurla.
“Credo che parli di tre porte… l’ultima è quella di Lilitu…”, mormorò, con lentezza, “Ma dice anche di non aprirla, e di un... diavolo, penso.”, esitò, “I diavoli non sono cattivi?”

La contessa gli sorrise ancora, paziente.
“No, Thomas. La giusta traduzione è demonio che, nella nostra lingua, deriva dalla parola greca δαίμων, che significa “essere divino”, non necessariamente buono, né cattivo. È solo in seguito, con l’avvento del cristianesimo, che si è cominciato ad attribuire a tale parola una connotazione negativa.”

“Ma qui dice comunque di non aprirla…”, protestò il bambino, “Magari Lilitu non era cattivo, ma…”

“Era una femmina, e, secondo la religione ebraica, la sua unica colpa è stata non essere disposta a sottomettersi ad Adamo nel giardino dell’Eden. Non la trovo un’azione tanto turpe, tu cosa ne pensi?”

“Io… non lo so.”

La donna si astenne dal rivelargli che Lilitu venisse considerata anche il demonio delle tempeste e si alzò in piedi, passeggiando per la stanza con aria inquieta.
“Sapresti condurmi là?”, domandò.

Thomas sbarrò gli occhi.
“Adesso, signora?”

“Non possiamo tener qui questa tavoletta, mio marito si accorgerà senz’altro del furto, domattina.”

“Ma voi...”

Lei gli sorrise ancora, rincuorante.
“Sono una donna fortunata, Thomas: la gravidanza non mi sta creando grossi disagi, quindi sono sicura che non correremo alcun rischio. Se qualcuno dovesse scoprirci, rivelerò a mio marito che sono stata io a inviarti di nascosto al cantiere, e finalmente mi prenderò le mie responsabilità.”

Il bambino annuì e fece un silenzioso giro della casa per sincerarsi che tutti fossero o distratti o a riposarsi, prima di condurre la padrona al piano della servitù. Superarono con cautela la soglia della cucina, dove il signor Hartigan si stava rilassando con un solitario, dopo aver ordinato il riposo a tutto il resto del personale già da tempo.
Sgattaiolarono fuori dall’uscita di servizio e in breve tempo furono in strada. Non girava nessuno a quell’ora della sera, ma il clima era mite e piacevole.

“Aspetta. Non correre, non ce la faccio a starti dietro…”, mormorò Eveline, puntando uno sguardo verso il cielo scuro.
Non si poteva vedere nulla, né sentire alcun rumore ma la donna sapeva che in Egitto, neanche troppo lontano da loro, probabilmente una battaglia dei cieli si stava svolgendo. Le notizie che giungevano al loro sperduto rifugio erano frammentarie, o forse lo erano solo quelle di cui suo marito decideva di metterla a conoscenza.

Tutto era cominciato oltre un secolo prima, nel 1680. In quel dicembre una spedizione d’esplorazione francese era incappata nelle antiche rovine di un tempio dell’India meridionale. Nel santuario, deposti ai piedi di statue trasfigurate da ere senza nome, aveva scoperto strumenti avanzati, magici addirittura. Da allora quei manufatti, quella tecnologia, avevano portato il mondo a una sempre più schizofrenica corsa al progresso e agli armamenti. Una corsa cosparsa di cadaveri e di proiettili d'artiglieria.

Nessuno Stato voleva essere da meno, né venir colto impreparato.

Erano occorsi altri vent’anni prima che le macchine volanti facessero la loro prima comparsa a Parigi, nel 1700, durante l’ultimo decennio di regno di re Luigi XIV. Per quanto instabili e pericolose furono proprio queste a indurre re Carlo II di Spagna a decidere, in punto di morte, di lasciare il trono a Filippo duca D’Angiò, secondogenito del re di Francia.
Una scelta che aveva portato il già delicato equilibrio europeo a incrinarsi irrimediabilmente, scatenando una guerra durata oltre dieci anni. Nonostante l’impiego bellico di tali ancora rudimentali macchine volanti, la Francia ne risultò sconfitta, ma ormai la corsa al progresso era cominciata; con la costante ombra di altre guerre, la caccia alle reliquie si era accesa più infuocata che mai. Era per questo che i conti Rockford avevano impiegato tanto tempo e tante risorse in quello scavo nei pressi di Ashur, con il benestare della Sublime Porta. I panorami politici cambiavano con la velocità del vento, ma fintanto che gli strascichi dell’ancora fresca Rivoluzione francese avessero imperversato per tutt’Europa, tale alleanza sarebbe stata sancita. Solo un idiota si sarebbe fatto sfuggire l’occasione tanto ghiotta di poter mettere le mani sui manufatti della “Regina dei Venti”. Era ormai divenuto piuttosto chiaro che quel che veniva considerato mitologico, forse persino mistico, avesse in realtà radici ben più reali e sfruttabili. Ogni reperto visibile era diventato fonte di studio ed esame (anche se mai si era replicato il primo risultato indiano) e altri se ne cercavano giorno dopo giorno, perché, una cosa era certa: India, Egitto, Siria, Inghilterra, Grecia… tutto era collegato da un unico minimo comune denominatore.

Ed era proprio là, all’Egitto, che correva lo sguardo di Eveline Rockford. Lontano, eppure molto, molto vicino. In quei centoquindici anni le macchine volanti erano state studiate, migliorate e distribuite agli eserciti; e, per quanto le si potesse considerare ancora tutt’altro che sicure, l’impiego sia civile che bellico era cresciuto esponenzialmente da parte di ogni nazione che ne possedesse, anche in parte, i progetti.
Nuove forme di spionaggio nascevano ogni giorno, e ogni archeologo doveva essere estremamente cauto. Era stata un’ispirazione improvvisa della contessa, figlia di un ricercatore ben più capace e rinomato di quanto non lo fosse suo marito, a portare lì la squadra di spedizione, circa tre anni prima. Non aveva previsto di rimanere incinta, né che il suo consorte si potesse aggrappare a tale condizione per metterla in ombra.

Nonostante questo, una cosa era certa: quella era la sua scoperta. Non avrebbe permesso a nessuno di portargliela via, neanche a suo marito.

Raggiunse Thomas e gli sorrise.
Ammirava quel bambino, soprattutto perché, nonostante la sua giovane età, era una delle persone più sveglie che conoscesse: imparava in fretta, era gentile, brillante e leale. Un sincero affetto li legava, tale che Eveline era pronta a passar sopra persino alle inquietanti stravaganze che il piccolo aveva mostrato in sin troppe circostanze. Tante volte lo aveva sentito raccontare di aver udito dei sussurri nei cunicoli degli scavi e, se al principio aveva pensato fossero solo le fantasie di un fanciullo, si era fatta più preoccupata quando Thomas gli si era presentato di fronte tremante e terrorizzato in almeno un paio di circostanze. Eppure era tornato agli scavi ogni volta che lei gliel’aveva chiesto e non aveva smesso neppure quando glielo aveva proibito, indolente a ogni punizione.

Le fece cenno di acquattarsi dietro al muretto di cinta mentre, ormai con comprovata esperienza, sbirciava per vedere se una delle guardie dello scavo fosse in vista. La scavatrice, altra figlia di quei folli e ormai incontrollabili progressi tecnologici, stava a lato dell’alta parete di roccia. La sua sagoma imponente, fatta di cavi d'acciaio, turbine e tubi, aveva un che di spettrale illuminata com’era solo da un paio di torce.
Il bambino attese con pazienza che i due guardiani passassero di fronte all’entrata, poi prese per mano la padrona e la strattonò, concitato.

“Dobbiamo sbrigarci. Ripasseranno tra tre minuti.”, bisbigliò, controllando l’orario in un vecchio orologio da taschino che portava sempre con sé.

Silenziosi e cauti si insinuarono dentro l’imboccatura principale e Eveline si sorprese molto quando vide Thomas tirar fuori dalla vestaglia le chiavi del cancello che bloccava loro l’avanzata. Non sapeva se le avesse rubate al capocantiere, o forse persino a suo marito, ma anch’esse dovevano venir riposte prima che qualcuno se ne accorgesse. Un po’ d’ansia la colse al pensiero di venir sorpresa, ma, soprattutto, temeva per la punizione che il suo piccolo complice avrebbe senz’altro ricevuto. Il suo sguardo indugiò ancora sul sangue raggrumato e ormai secco sulla vestaglia e si maledì per il proprio egoismo. Tuttavia, prima che potesse anche solo proporre di tornar indietro, Thomas aprì il cancello e sgusciò dentro.
Lo seguì, inspirando a pieni polmoni quell’aria che sapeva di antichità e che per troppo tempo le era stata negata, prima di staccare la lanterna a olio dal muro e procedere.

“Per di qua, signora.”

Thomas la guidò lungo un percorso per lei del tutto nuovo. Suo marito aveva fatto scavare numerosi altri passaggi in quei quasi nove mesi. Esaminò, non troppo convinta, i piloni strutturali che sorreggevano le gallerie notando, con un certo disappunto, che i traverso-banchi non fossero stati fatti nel migliore dei modi. Salì con Thomas sul montacarichi e il bambino azionò il costrutto meccanico che avrebbe permesso loro di discendere e poi di risalire.
L’aria era fredda laggiù e le fiamme delle fiaccole si muovevano frenetiche per via delle correnti d’aria.

“Li sentite, adesso?”, domandò Thomas.

“Che cosa?”

“I sussurri.”

Eveline sorrise, intenerita.
“È solo il vento. Non devi aver paura”

Proseguirono verso destra e poi ancora più in basso con lentezza e cautela. Il bambino continuava a rallentare e a tornare indietro per aiutare la sua signora nel procedere su quel terreno accidentato.

“Eccoci, siamo arrivati.”, disse, fermandosi di fronte a una porta di ferro, per poi aprirla con l’ultima chiave del mazzo. La stanza all’interno non era stata creata dai processi di trivellazione, era antica e con le pareti ricoperte da dipinti e vecchie iscrizioni. Eveline le esaminò, estasiata e, presa la lampada a olio dalle mani del giovane amico, lesse quel che poté,. Si fermò di fronte a una lastra di pietra circolare a sua volta ricoperta di iscrizioni e ammirò la grande gemma sferica al centro di una serie di linee circolari. Era di un azzurro intenso e sembrava brillare di luce propria. Si chinò un poco, incantata da quello che sembrava un piccolo vortice bianco al suo interno e non riuscì a trattenere l’impulso di posarvi una mano sopra. Era freddo al tatto, ma Eveline gridò quando d’improvviso diventò incandescente. Cadde, sbalzata indietro da una forza che non riuscì a vedere né a comprendere, e l’impatto col suolo fu brusco.
Thomas accorse immediatamente, spaventato a morte.

“Signora Rockford, state bene?”, esclamò impallidendo, sforzandosi di ignorare il crescendo forsennato dei sussurri.

“S-sì… ah!”, un singulto scosse la donna che, istintivamente, abbassò lo sguardo alla stoffa tra le sue cosce, adesso fradicia, “Oh mio Dio! Devi tornare su, Thomas e avvertire il signor Phillips, il bambino sta per nascere! Presto!”, ma aveva appena finito di pronunciare tali parole che l’antica porta si aprì e uno sbuffo d’aria gelida li investì. Le fiamme delle torce baluginarono un poco, prima di spegnersi e l’unica luce che rimase fu quella della lanterna che il bambino aveva accanto a sé.

“Che cos’è stato?”, strillò quest’ultimo, “Qualcosa mi ha toccato!”

“Thomas!”, Eveline lo afferrò per un braccio, costringendolo a guardarla, “Prendi la lampada e torna su, ho bisogno d’aiuto!”, gli ribadì, ma gridò quando qualcosa l’afferrò per i capelli per trascinarla nel buio.

Il piccolo si guardò intorno, smarrito e terrorizzato.
“Signora!”, chiamò, afferrando la lanterna e agitandola davanti a sé nel tentativo di scorgerla, “Signora!”

Ma la donna continuava a urlare e il rimbombo di quella sala rendeva la cosa ancor più terrificante.
Qualcosa urtò Thomas che cadde a terra di faccia e fu per miracolo che la lampada a olio non si ruppe. Come se ne andasse della sua vita, il bambino la protesse, stringendola contro il petto, incurante del calore che lo stava ustionando attraverso la stoffa. Si rimise in piedi, continuando a chiamare Eveline a squarciagola. Le grida di lei erano sempre più disperate e non erano più gli unici rumori che potevano udirsi nella sala. Raccapriccianti suoni viscidi, come di roba vischiosa rimescolata gli riempirono le orecchie, mentre quell’aria stantia si impregnava di un odore metallico e del tanfo delle viscere aperte.
Poi, all’improvviso, un vagito rimbombò fra le pareti di roccia. Thomas si riscosse un poco e, raccogliendo tutto il suo coraggio, si slanciò in avanti. Fu in quel momento che la flebile luce della lampada illuminò una creatura grottesca: aveva grandi occhi rossi e pareva ricoperta da sfilacciati stracci vecchi, nerastri e tutti arrotolati. Alta e affusolata stava china su quel che restava di Eveline, con le lunghe braccia rinsecchite protese verso la piccola creatura piangente.

“No!”, urlò Thomas, correndo in avanti.

Il mostro si sollevò, un verso stridulo proruppe dalla sua bocca nera e il piccolo rabbrividì quando altri esseri come quello cominciarono a vorticargli attorno. Si staccò la lanterna dal petto, perché ormai non riusciva più a sopportarne il calore e l’agitò attorno a sé. Quando i mostri si allontanarono capì che la luce era la sua unica speranza. Animato dalla forza della paura corse verso il corpo martoriato di Eveline e, disperatamente, afferrò il bambino, stringendolo a sé per poi scappare verso l’uscita. Sapeva che quelle cose lo stavano inseguendo. Non sapeva come, ma riusciva a sentirle. Sbattendo contro le pareti degli stretti cunicoli, finalmente riuscì a raggiungere il montacarichi ed era appena entrato quando uno di quei mostri gli artigliò la schiena, ferendolo in profondità tra le scapole sin quasi alla fine della spina dorsale. Disperato lanciò la lanterna dietro di sé, incendiando il pavimento e azionò il meccanismo di risalita.
Solo a quel punto guardò il bambino che, tra le sue braccia, lo guardava, tranquillo, con i suoi occhi scuri. Thomas non avrebbe saputo dire quando avesse smesso di piangere, ma lo sostenne con più dolcezza, prima di crollare in ginocchio e cominciare a tremare come una foglia.
Gridò quando le porte dell’elevatore gli vennero aperte di fronte, si rifugiò nell’angolo e per la paura se la fece addosso, cominciando a singhiozzare.

“Ancora tu?!”, tuonò Phillips, ma sbarrò gli occhi quando scorse il neonato ricoperto di sangue e le condizioni del bambino.
Entrò nella cabina e provò a prendere il figlio del conte, ma Thomas si fece indietro così bruscamente che decise di desistere.
“Cos’è successo?”, gli chiese.

“L-la contessa… la contessa è… ci sono dei mostri laggiù!”, gemette il bambino, prima di trovare la forza di rialzarsi e cercare di correre via.

L’uomo tentò di afferrarlo ma ritrasse la mano al vedere l’orribile ferita sulla schiena del piccolo. Thomas riuscì a fare solo qualche passo prima di afflosciarsi di nuovo al suolo, provato: l’adrenalina dovuta allo spavento non era più sufficiente a tenerlo in piedi. Phillips riuscì a strappargli dalle braccia il neonato appena in tempo. Allarmato non si preoccupò più di tanto di quel moccioso pestifero e corse a chiamare i suoi uomini. Disse loro che la contessa era scesa agli scavi, che probabilmente era entrato un qualche animale e che dovevano fare presto.
Con il bambino in braccio uscì dal cantiere e con le ali ai piedi raggiunse la magione del conte. Fu Hartigan ad aprirgli la porta.

“È successa una tragedia!”, gridò e, spaventato com’era, gli raccontò di Thomas e del neonato.
Il maggiordomo non perse tempo e svegliò immediatamente il padrone.



Un dottore aveva visitato e curato Thomas per due lunghe settimane, ma nessuno si sarebbe mai aspettato che potesse risvegliarsi dopo aver perso così tanto sangue. Eppure, dopo essere stato a un passo dalla morte, il bambino aveva riaperto gli occhi. Con smarrimento aveva chiesto a Mary, una delle cameriere di casa Rockford, di dargli notizie del neonato e si era sentito un poco sollevato all’apprendere che era sopravvissuto a sua volta. Questo, tuttavia, non alleviò affatto il dolore che provava per la morte di Eveline, una perdita che l’avrebbe accompagnato per sempre.

Una notte, dopo aver ripreso un po’ le forze, riuscì persino ad alzarsi dal letto e, sgattaiolato fuori dalla ricca camera, trovò quella dove avevano sistemato il piccolo. Si avvicinò alla culla in silenzio e, levandosi in punta di piedi guardò quella creaturina a cui aveva salvato la vita. Confuso si chiese perché la copertina, il cuscino e anche i teli che ornavano spartanamente la culla fossero neri, eppure non se ne curò più quando il bambino aprì gli occhi e allungò una manina in sua direzione. Sorrise e gliela strinse con dolcezza, ma sussultò quando sentì un movimento alle sue spalle. Si voltò, ritrovandosi di fronte al conte. Rockford sembrava un uomo molto diverso da quello che ricordava: sembrava invecchiato di dieci anni, aveva uno sguardo spento, forse crudele, e puzzava di vino.

“N-non volevo…”, tentò di dire, prima che il panico gli serrasse la gola.

“Non mi interessa cosa tu ci faccia qui.”, lo interruppe l’uomo, “Né mi importa del bambino. Non ha nome e non ha volto per me. Nulla ha più senso senza di lei… Porterò a termine la sua ricerca e poi tornerò in Inghilterra e lascerò quello sgorbio a suo nonno. Non si muove, non piange! Non è naturale!”

“I-il cantiere? No! Voi lo dovete chiudere, signor conte! Dovete far crollare tutto! Ci sono… ci sono delle cose laggiù! Dei demoni terribili! Vi prego...”

“Era solo un leone, o una bestia di quel genere! Non tediarmi con le tue farneticazioni, ragazzino. Occupati di quella mostruosità, se vuoi.” disse, alludendo al neonato, “L’hai salvato, è una tua responsabilità.”

Ma quando l’uomo si volto per raggiungere la porta, Thomas sobbalzò terrorizzato: il mostro era lì, proprio sopra alle spalle del padrone e lo fissava con i suoi occhi rossi.

Una nuova era stava cominciando e lui ne era il primo testimone.

N.d.A.: dunque, questa storia (partecipante al Fantasy Contest - Alternative Route indetto da Mokochan sul forum Torre di Carta) è un prologo di una storia steampunk molto più ampia, ciò nonostante, quel che avviene in questa “oneshot” è da considerarsi autoconclusivo. Il proseguo, infatti, si ambienterà all'incirca quarant'anni dopo gli eventi che avete letto. Non so quando la proseguirò, ho qualche capitolo pronto, ma troppe storie in ballo, quindi per il momento lascerò solo questo inizio.
Trattandosi quindi di una steampunk, o per onor di chiarezza, di un'impropria dieselpunk, si pone ovviamente come un'ucronia: c'è stato un determinato punto nella storia del mondo in cui gli eventi hanno cominciato a svolgersi in modo diverso rispetto alla timeline reale. Ciò nonostante, come spero si sia colto nel testo, ho cercato, per quanto possibile, di mantenere una coerenza filologica con gli eventi che si sono verificati tra il 1680 e la fine del 1700, ovvero il periodo in cui si ambienta questa mia oneshot. Quindi, storicamente parlando, ogni riferimento storico reale, quindi che non implichi macchinari e/o entità di natura inventata, è stato frutto di ricerca, da parte mia, e spero di non aver commesso errori.
All'interno del testo è presente una parola greca (δαίμων, che significa “essere divino”), ma non ho ritenuto necessario inserire una nota vera e propria perché è il personaggio stesso a spiegare cosa significhi.
Mi sono inoltre documentata sui metodi espressivi e sulle abitudini dei nobili, della servitù e su quelle più generali di quel periodo. Spero, anche in questo caso, di aver evitato strafalcioni.
Vorrei inoltre ringraziare... un sacco di gente che mi ha aiutata a sistemare questa storia: Lara, Salomè, Miele_e_Cianuro, Laura, Daniela e ringrazio anche Agnese e Martina per aver accettato di leggerla in anteprima (Ho un esercito! cit. XD). Siete stati fantastici, ragazzi, senza di voi probabilmente non l'avrei neanche consegnata al contest.
Chiarito ciò, spero che la storia vi sia piaciuta e se vorrete lasciarmi un commentino ne sarò felice. Intanto vi ringrazio di esser giunti sin qui ^^.
Un bacione,
Ros.

   
 
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