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Autore: Lunemea    13/05/2015    4 recensioni
[Heaven’s Door Yaoi GDR]
«Il Kintsugi, letteralmente significa "riparare con l'oro". È una pratica giapponese che consiste nell'utilizzo di oro o argento liquido per saldare assieme frammenti di oggetti in ceramica, rotti o spaccati. Ogni oggetto riparato oltre che prezioso, diventa unico e irripetibile, proprio per la casualità con cui la ceramica può frantumarsi. Questa tecnica in se nasconde una filosofia: non importa quante ferite si possono avere nel passato, ci sarà sempre un modo per rimettere insieme i pezzi e rendere quella storia una linea preziosa per il proprio presente. Sinceramente? Ho sempre pensato che fosse una cazzata orientale. Poi, ho trovato l’oro.»
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi
Note: Lemon, Missing Moments, Otherverse | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta
Capitoli:
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17 anni

- Il Garage -




Sono uscito di casa in fretta, solo per non sentire le urla di mio padre. La porta l’ho sbattuta dietro di me. Sti cazzi. Non me ne frega niente se per lui è più importante che stia a casa a studiare e a fare il classico diciassettenne del cazzo. Ho finito quello che dovevo fare in due ore e ho del lavoro da fare, che non è star a sentire le sue farneticazioni da vecchio indiano tradizionalista. Scendo le scale in fretta, arrotolandomi la sciarpa intorno al collo velocemente. Raccolgo i capelli e li infilo nelle pieghe, così la pioggia non dovrebbe bagnarmeli mentre mi tiro su il cappuccio del cappotto pesante.

Sento che dietro di me si apre la porta e le urla di mio padre si fanno più forti.

«Torna qui, ragazzino! Ti stavo parlando e non abbiamo ancora finito!»

Non mi giro, gli do le spalle mentre svolto per andarmene dal portone di casa e imboccare la strada della 17esima. Alzo un dito medio e glielo mostro.

‘Fanculo.

Accelero, perché non lo sento urlare più. Corro. Sia mai che si metta a inseguirmi per riempirmi di botte. Anche se credo che, una volta tornato a casa, me ne darà parecchie. Beh. Il problema non si porrà se per caso non tornassi fino a domani mattina, prima che vada a lavoro. Mi basterà non incrociarlo per un paio di giorni e forse mi prenderò solo uno schiaffo. Ottimo scambio per la mia grossa soddisfazione di averlo mandato a quel paese.

Quando il fiato inizia a mancarmi - maledette sigarette - inizio a calmare il passo, fino a renderlo un po’ meno frettoloso. Rallento, mantenendo però un buon ritmo con le mie gambe. Infilo le mani nelle tasche e mi rannicchio nel cappotto. Cazzo. Fa freddo questa sera e per strada non c’è nessuno. Dando un’occhiata in giro vedo sempre le solite rare facce straniere, alcuni indossano una specie di mascherina e mi guardano con indifferenza, come io faccio con loro d’altronde. So che non mi si avvicinano perché sono molto più grosso di loro e questo è un bene nel mio quartiere, visto che non brilla per reputazione. New York in fin dei conti non è così bella come si racconta in giro e io ne ho visto tutto il marcio possibile. O, per lo meno… gran parte. Ci sguazzo spesso, perché è dalle acque torbide che di norma si pesca qualcosa di allettante.

All’estrema sinistra di casa mia si arriva al fiume Hudson, ed è lì che dovrò prendere un autobus se voglio arrivare in tempo all’appuntamento con Keigo.

Mi fermo sotto una delle banchine messe lì per gli autobus, al riparo dalla pioggia. Mi appoggio a un palo che sostiene il tettuccio riempito di neon ronzanti e aspetto. Dea Madre. Voglio fumare. Mi tocco le tasche della giacca, ma a quanto pare non trovo il pacchetto di sigarette. È inutile che cerco. So benissimo che ho fumato l’ultima nel bagno del liceo prima di uscire… però come si dice? La speranza è la più tenace e quella di un mezzo drogato lo è tremila volte di più.

Sbuffo, appoggiando la testa al palo e guardando distrattamente la strada in attesa di questo cazzo di autobus. Incrocio un piede sull’altro e mi guardo le converse nere che ho fregato a mio fratello prima di uscire. Non è stata una buona idea con questa pioggia, probabilmente sto rovinando l’unica cosa decente che sono riuscito a rubargli. Di solito mi vesto sempre con i suoi vestiti, ma essendo il terzo su quattro fratelli mi tocca l’eredità degli scarti. Che vita di merda. Jeans strappati sotto il culo, consumati in mezzo alle gambe; felpa verde scuro erosa sui gomiti, tanto li ha tenuti su una scrivania; sotto maglietta semplice, troppo semplice, così semplice che la odio. La giacca è grossa, le maniche superano le nocche e si arricciano sui polsi quando tento di infilare le mani nelle tasche, tenendomele bloccate. Almeno è ben messa, anche se grande, ma semplicemente perché a mio fratello non gli piaceva come gli cadeva sulle spalle. Le ha troppo piccole, perché è uno spilungone moscio, sempre chino sui libri e con il ribrezzo per qualsiasi tipo di sport. Io invece no. Ho le spalle molto più larghe, anche se sono alto come lui. Più o meno. Gioco spesso con i ragazzi, giù al garage, quindi non mi dispiace fare movimento. Anche se fosse una piccola corsetta intorno all’isolato. Ho gambe coordinate e nonostante la mia altezza non cammino dinoccolato, anche se ho una postura un po’ china, come tutti i ragazzi troppo alti. Va bè. La cosa non mi ha mai dato fastidio. Anche se probabilmente a trent’anni sentirò i primi acciacchi. Bah. Tanto non ci arriverò ai trent’anni. Di sicuro qualche stronzo mi farà fuori prima. O magari sarò proprio io quello stronzo.

***

Eccolo. Sta arrivando l’autobus. Faccio qualche passo per farmi avanti e mi faccio vedere dal tizio che lo guida. Salgo su togliendomi il cappuccio, conquistandomi un posto sul retro, in un quadrato di posti vuoti. Posso anche rilassarmi, tanto dovrò scendere al capolinea. Metto entrambi i piedi sul sedile davanti a me e mi rannicchio guardando fuori dal finestrino. Non mi fisso sul panorama del fiume, piuttosto sul mio riflesso che scorgo attraverso il vetro: occhi chiari, di un verde che non si capisce dal riflesso, ma so che è acceso dai neon dell’autobus. Lineamenti allungati, ciglia folte. Naso un po’ adunco da nativo americano e labbra normali, piuttosto classiche, ma piegate in una perenne smorfia indifferente.

Mi sta guardando un figo. No, più un coglione. Socchiudo gli occhi. In realtà con lo zigomo spaccato non sono affatto un figo. Anzi, con questi capelli lunghi, neri, un po’ ribelli lo sono ancora meno, soprattutto per l’umidità che li gonfia. Affondo la bocca nella sciarpa e mi tocco la ferita. Ahia. Maledetto drogato del cazzo. Sento ancora addosso la sua puzza. Ma non mollava la roba, nonostante il ricatto che gli sventolavo davanti. Il gancio sinistro non me lo aspettavo. Mi ha preso in pieno. Mi ha rivoltato la faccia in una botta sola. Sarà stato pure drogato, ma ci ha visto proprio bene. O sono io che ho avuto sfiga.

Questo è uno dei motivi per i quali ho litigato con il mio vecchio, preso da una delle tante volte in cui mi rinfaccia la vita, come succede spesso nelle ultime settimane.

Non crescerai mai se continui a comportarti come un coglione”. “Ti stai rovinando la vita”. “Mi stai rovinando la vita”. “La stai rovinando a tua madre”.

Un mix del genere, che non rispetta una successione precisa. Però hanno tutte la stessa risposta comune: “Chi se ne frega” …o “Vaffanculo”, dipende. 

Mi sistemo meglio al mio posto e scivolo con il bacino in avanti. Guardo ancora fuori, ma questa volta mi fisso sulla strada che scorre in una scia lunghissima di luci. Inizio a entrare nella New York più periferica, perché quelle luci diventano più rare e si mischiano al fiume che raccoglie parte della luce della luna. Sto in silenzio. Non manca tantissimo e preferisco non pensare a niente, se non all’idea che il garage è vicino e che sono scappato, ancora una volta, per andarci. Respiro. Sospiro. Il perché non è così facile da ammettere liberamente.

***

L’autobus si ferma e sciolgo le gambe saltando giù dal posto a sedere. Tengo ancora le mani in tasca mentre mi avvicino all’uscita e evito una vecchietta che agitando un ombrello ha inveito contro le mie poco buone maniere. La ignoro, oltrepassandola malamente e scendendo dal bus. Sollevo il cappuccio e mi immergo dentro il buio dei vicoli, avvicinandomi ai moli più esterni; scendo delle scalette di metallo che si appoggiano ad un grosso capannone di mattoni e plastica sul bordo del fiume. Lo costeggio, ci giro intorno e arrivo a una serie di ampie persiane chiuse sul retro del grossissimo stabile. Saranno si e no una ventina e non contengono niente di utile. Ci siamo già fatti un giro. Una di quelle saracinesche è mezza aperta e so già che è quella che mi interessa. Da sotto c’è una luce gialla che si allunga sul molo di pietra cementata e stranamente mi provoca un senso di benessere, come se fosse il posto giusto per me. Solo che… non dovrebbe essere aperta. Mi avvicino e rimango un po’ incerto. Mi sto pentendo di non aver portato con me il coltellino a scatto. Mi abbasso lentamente per passare al di sotto della serranda e piegando le gambe mi infilo all’interno, controllando i dintorni con discrezione.

«Ehi, Iye!!» una voce dice il mio nome e io alzo subito la schiena per trovarne la fonte. Una voce femminile.

«Chiamami Red, Jessie…» dico sospirando a mo’ di saluto e guardo la ragazza dietro la scrivania stracolma di computer che, dopo un sbuffo ironico, mi fa un ampio sorriso dietro i suoi occhiali da piccola nerd. Faccia sveglia, capelli legati da un mollettone e tinti di viola sul davanti. Oggettivamente è carina e ha anche delle lentiggini sul naso piccolo e una leggera acne adolescenziale. E sì, ho capito. L’ho capito tempo fa che questa ragazzina mi viene dietro. L’ho capito dall’ascendente che ho su di lei. Mi basta muovermi per sentire il suo sguardo che mi segue, la sua insistenza quando mi fissa. La cosa mi lusinga da una parte e dall’altra mi infastidisce, ma probabilmente perché non sono abituato a questo tipo di avances.

«Che fine ha fatto l’idea della parola d’ordine?»

«Mi sono rifiutata categoricamente» tipico di lei. È una cosa che approvo, anche a me quest’idea mi sembra solo stupida.

«Keigo, dov’è?» le domando e dentro di me sento uno strano mostro di cattiva euforia. Mi è piaciuto il fatto che le si sia spento quel sorriso. Ecco il potere di cui parlavo.

«È uscito un attimo a comprare le sigarette. Dovrebbe tornare a momenti» risponde a voce meno euforica.

«E gli altri?»

«Non vengono questa sera. Tizio X e Tizio Y hanno avuto a che fare con i genitori» Tizio X e Tizio Y. Questo è un mio fottuto modo di dire… che c’entra che lo usi lei? Faccio finta di niente. Sono bravo ad apparire indifferente, anche se mi ha fatto incazzare.

«Ok. Non importa, lavoreremo noi due a quel “buco”…» eccolo lì, le è ritornato il sorriso. Oh, Jessie. Jessie. «…sono tutte cose che ti ho insegnato. L’ho studiato l’altra sera. Non sarà difficile, basta solo che quando ti dico di bucare, lo fai. I passaggi li conosci» la rassicuro, visto che ho bisogno che sia calma e vigile.

***

Toltomi la giacca, mi muovo all’interno del Garage e mi sistemo alla mia postazione. Ovviamente è una delle più grandi: una grossa scrivania contenente tre schermi a tubo catodico, ingombranti, ma funzionali, ognuno legato all’altro da un unico computer a torre che ho vicino alla mia sedia; una tastiera e un mouse a fili; una decina di hardisk esterni, collegati al pc tramite uno switch. Avvio il programma e da subito il software Prometheus inizia a girare con il logo della classica fiammella. Lascio partire i programmi di blocco id e cambio fonte di collegamento, dirottandolo al solito in un punto a caso del globo. Faccio saltare l’indirizzo ip da una parte all’altra del mondo e ripeto l’operazione in una meccanica che avvio ogni tot secondi. Ok, dovrebbe andare.

«Che hai fatto allo zigomo?» chiede Jessie dopo un po’.

Non la guardo, ma le rispondo comunque «Ricordi il servizio di due settimane fa? Quello su quel piccolo mafiosetto del New Jersey?» avrà annuito, non lo so «L’ho incontrato ieri sera. Il bastardo non voleva mollare la roba, nonostante gli abbia sventolato in faccia le prove per quell’alibi fasullo. Ha provato a fottermi il cd lanciandosi su di me. Mi ha mollato un cazzotto, qui» alzo il dito e indico vagamente lo zigomo «Ma sono riuscito a riprendermi abbastanza da mollargli un calcio nelle palle. Stai sicura, Jessie, che quello non vedrà donne per un po’» lei ride e mi piace quando lo fa. «Comunque sia, ho preso la roba. Ce l’ho qui. A casa non potevo tenermela…» tocco la mia tasca dei jeans.

«Grande! Allora facciamocene una…»

«No. Prima il “buco”»

«Ah sì, giusto» la guardo solo ora e l’imbarazzo le ha arrossato le guance. È carina, lo riconosco. E se lo penso ora che sono sobrio, probabilmente l’ho pensato anche mentre non lo ero. O ero fatto. C’è stato un giorno in cui mi è sembrato che mi salutasse con più vigore e speranza, ma non ho mai capito perché. Era il giorno seguente di una grossa sbronza, di cui non ricordo moltissimo. Solo che dubito ci abbia fatto qualcosa, visto che ero ancora vestito quando mi sono risvegliato al garage e lei non c’era. Mah. Non mi sono mai sentito in dovere di indagare.

«Non ci metteremo molto, magari poi salta fuori l’occasione per un festino» al sentirmelo dire, le si illuminano gli occhi. A pensarci bene… da quel giorno ha anche cominciato a spingere per fare sempre più frequenti festini.

***

«Ehi! Ma perché nessuno capisce l’importanza della parola d’ordine?» questa voce la riconosco e guardo immediatamente verso l’ingresso del garage. È Keigo e ha in mano una busta della spesa. La famigliarità che mi ispira è disarmante. Ha sempre la stessa identica espressione rilassata, ma tipicamente giapponese. È un mezzosangue, ma i tratti orientali gli disegnano il viso in modo completo: occhi scuri, allungati, naso leggermente schiacciato e capelli nerissimi, un po’ lunghi che gli scivolano sul viso. È più grande di me di tre anni ed è già all’Università, ma ci conosciamo da così tanto tempo che questo divario ogni tanto me lo dimentico.

«Perché è una cosa stupida, Kei…» lo saluto insultandolo, alzandomi in piedi e dirigendomi verso di lui.

«Kei» risponde ad eco Jessie, rimanendo esattamente dove sta. Il suo tono è piatto e io so perché.

La ignoro e mi fiondo verso la busta della spesa, strappandola di mano a Keigo e frugandoci all’interno. «Dimmi che hai comprato… Evvai!» tiro fuori la lunga stecca di Lucky Strike e nonostante la mia sterile espressione, si nota bene come la mia dipendenza tira fuori un grosso sospiro di sollievo.

«Ovvio che le ho prese. Sei peggio di una ciminiera.»

Lo guardo e alzo un sopracciglio, mordendomi il labbro per trattenere un sorriso. Di solito non sorrido. Non sorrido mai, ma Keigo riesce a tirarmi fuori sempre qualcosa. Ed è una cosa che mi piace e detesto, perché non controllo affatto. Negli anni ho sempre associato la cosa alla confidenza che avevamo, poi mi sono accorto che non era proprio così.

«Non sono l’unico che fuma qui dentro. Non provare a rinfacciarmi una spesa del genere…» dò un’occhiata alla busta «Che altro hai comprato?»

«Mah. Panini riscaldabili, qualche birra…» inizia ad elencare e io intanto mi sposto tornando alla scrivania. Apro la stecca e tiro fuori uno dei pacchetti. Lo scarto, lo apro e prendo una sigaretta da portarmi alle labbra. La stringo tra i denti mentre cerco l’accendino nel cappotto. «…anche delle gazzose e… questo è per te Jessie» e Keigo tira fuori dalla busta uno specchietto piccolo, da borsa, con dei ricami orientali sulla superficie. Nero e oro, con una trama a rilievo. «L’ho visto in un negozietto notturno e visto che ti lamenti sempre che qui non abbiamo niente per una femmina…» lascia in sospeso la frase e lo osservo muoversi verso la scrivania di Jessie. Socchiudo gli occhi, mentre guardo l’espressione di lei un po’ interdetta. Osserva Keigo per un po’, poi gli sorride e lui ricambia. Sospiro. Accendo la sigaretta che è meglio.

«Grazie Kei» la sento rispondere «È un pensiero carino, da parte di un maschilista come te» e ride. Ecco. Di nuovo la risata che mi piace. Volto lo sguardo verso Keigo e, a giudicare da come la guarda, anche a lui piace.

«Su, dai. È una carineria… prendila come dev’esser presa» risponde lui e io torno alla mia scrivania, ritornando a lavoro per preparare il campo all’ultimo lavoretto della settimana.

«Iye…?» Keigo mi chiama e io mi giro dalla sua parte. La sigaretta che trattengo in bocca, rimane in un angolo delle mie labbra e il fumo appanna un po’ i miei occhi, ma non mi da fastidio. Ora che respiro questa droga, mi sento molto, ma molto più rilassato. Forse è per questo che riesco a ignorare la scena che ho visto poco fa e di questo ne vado perfettamente fiero, anche se dentro di me comincio a sentire il tipico Mostro. Quello cattivo.

«Nh?» non apro la bocca, altrimenti addio sigaretta e addio ai jeans. Anche se mi dispiacerebbe più per la sigaretta.

«Mi ha chiamato tuo padre mentre ero al supermarket»

Cazzo. «Uhm…» raccolgo la sigaretta tra due dita e butta via il fumo. Dall’esterno devo apparire perfettamente calmo. Bene. «…sì, ho avuto qualche screzio prima di uscire»

«Screzio? Era veramente incazzato, Iye»

«Capito» non dire niente, Keigo. Non mi va che Jessie si faccia i cazzi miei.

«So che alle volte è un testa di cazzo, ma dovresti tenerlo buono se non vuoi che si insospettisca. Mi ha riempito di parole che avrei preferito non sentire…» dice e dentro di me sento montare la rabbia verso mio padre. «…ma alla fine l’ho calmato. Gli ho detto che dovevi venire da me in previsione di una verifica su Economia e che saresti rimasto a dormire da me. Non c’ha creduto, naturalmente, ma almeno ha smesso di urlarmi contro»

«Ok. Ma non c’era bisogno che inventassi una scusa. Quello che faccio fuori di casa sono affari miei…»

«Non lo sono quando poi mi sento chiamare dai tuoi genitori, perché tu decidi di ignorarli. Non posso fare per sempre il mediatore tra te e il mondo, Iye. Impara a controllarti o per lo meno a comportarti in modo giusto con loro»

Torno con lo sguardo sul monitor e continuo a digitare i passaggi che tutelano la mia postazione. Non rispondo a Keigo di proposito, anche se so che ha ragione, ma il mio orgoglio non gliela vuole dare questa soddisfazione. ‘Fanculo! Io sono controllatissimo, ma non è colpa mia se continuano a pretendere da me cose di cui non mi frega un cazzo. Non voglio stare con loro a guardare stupide cose alla televisione o a imparare le tradizioni della fottuta tribù. Di tutta quella merda non me ne frega un accidente. E al mio futuro ci sto già pensando da solo. «Vedrò che posso fare…»

«Iye…» il tono di Keigo suona di rimprovero.

«Kei, lascialo stare. Avrà le sue ragioni se si è comportato così. I genitori sono tutti degli stronzi e non capiscono che abbiamo bisogno dei nostri spazi. Quelli di Iy-… Red poi, sono soffocanti. Li abbiamo conosciuti» Grazie Jessie. Adoro quando si mette dalla mia parte.

«Va bene, fai come ti pare…» sbotta Keigo verso di me, alzando le braccia e arrendendosi. Ah. Il mio silenzio e le mie alleanze hanno vinto. Che soddisfazione! «…la prossima volta non aspettarti che ti pari il culo. Ti tiri fuori da solo dai casini»

«Come faccio sempre, Kei»

«Sì… va bè»

Di sottofondo Jessie ride e mi guarda come se si aspettasse un ringraziamento. Ok, glielo concedo guardandola con la coda dell’occhio e alzando in uno scatto un sopracciglio. Penso basti, anche perché più di questo non so tirar fuori.

***

Passato l’argomento “genitori” ci mettiamo a lavorare. Jessie mi raggiunge alla scrivania, spostandosi con la sedia scorrevole e sistemandosi vicino a me. Troppo vicino, tanto che sento il calore della sua gamba contro la mia. Non mi piace quando si invadono i miei spazi, ma resisto, visto che si tratta di lavoro e alla fine non mi distrae chissà quanto. Sento il suo profumo invadermi le narici e lo respiro perché in fondo non è male. Keigo è ancora vicino al suo computer e armeggia un po’ con i codici, preparandoci il campo per muoverci liberamente senza essere rintracciati. Continuo a fumare la mia sigaretta, ma ben presto la finisco e la spengo nel posacenere vicino alla tastiera.

«Sai già come convertire il profilo?» mi chiede Jessie, appoggiando il viso sul palmo e allungandosi verso il monitor.

«Sì. Ho fatto una prova ieri. Ne ho trovato uno perfetto per lo scopo: un utente che è uscito da poche ore dall’azienda. Hanno firmato il licenziamento solo questa mattina, da quanto ho scoperto e non hanno ancora provveduto a cancellare l’ID. Sfrutterò quello, sarà anche facile dirottare le accuse verso di lui»

«Come hai fatto a scoprire tutte queste cose?» domanda.

«Quell’utente è il padre di una mia compagna di classe»

«Compagna di cl-…? ah giusto. Ogni tanto mi scordo che sei ancora a liceo»

«Abbiamo la stessa età, Jessie…» la guardo. Ma è scema?

«Sì, è che…. sai… sembri più grande! Non so, sarà l’altezza. Il viso…» gesticola in evidente imbarazzo. «O perché sei bravo in queste cose…»

Va bè, fermiamola prima che le guance le esplodano. Così rosse sembrano due mele gigantesche «Sì, me lo dicono in tanti che sembro più grande» la mia voce è volutamente rilassata, così anche la sua espressione riprende un po’ di tranquillità. «Ma sono un diciassettenne, anche se dannatamente intelligente per la mia età. E non sono bravo, Jessie. Sono un genio» mi vanto e lei ci ride sopra, toccandomi la spalla per spingermi via come se avessi detto un’assurdità o qualcosa di troppo divertente …una delle due! ma è irrilevante: mi ha dato fastidio il suo tocco. O forse no. Non l’ho capito. Roteo la spalla e mi allontano di poco nel dubbio.

«Ma non ti senti in colpa per quella povera ragazzina?» dice Keigo dal nulla, aggrottando le sopracciglia e ridendoci su come un vero bastardo. Mi piace quando fa quell’espressione, mi fa sentire meno stronzo.

«No, mi sta sul culo. È una sapientona del cazzo e ogni volta si mangia le mani quando prendo più di lei al compito di matematica»

«Ah, allora…»

«Povera» riprende Jessie, portandosi una mano sulle labbra.

«Se in questo lavoro ti fai scrupoli, sei fregata Jessie» riprendo io.

«Vero, Jessie. Per ottenere quello che vogliamo, pensiamo solo a quello che vogliamo. Di tutto il resto ce ne importa solo quando ci può servire» così aggiunge Keigo.

La vera intenzione di noi come gruppo è lì, spiegata in quelle due frasi. Sti cazzi del mondo, il mondo siamo noi. Noi ci muoviamo come più preferiamo, scegliendo solo quello che ci interessa. Conquistiamo, agiamo e guadagniamo. C’è chi considera tutto ciò come furbate da ragazzini, ma non è così. Internet è il futuro e noi ci stiamo camminando sopra. Un po’ come se stessimo conquistando la luna prima che tutti gli altri comprendano che sia abitabile. E siamo bravi nel farlo.

«Dai, tentiamo questo “buco”. Adesso concentrati Jessie e fai quello che ti dico»

«Ok, Red» risponde.

«Io posso servirvi in qualcosa?»

«Sì. Preparaci dei panini…»

«Vaffanculo, Iye…»

***


Mi metto gli occhiali che ho sulla scrivania e inizio, raggiungendo ben coperto il sito che m’interessa. Falsifico un paio di agganci e cerco di forzare l’entrata seguendo le prove che ho già fatto. Avvio i programmi costruiti da Tizio X e Tizio Y e comincio a falsificare le chiamate d’entrata. So già che utenza cercare e quindi lascio scorrere le dita sulla tastiera con sicurezza. Non ci vuole poco tempo, ma grosse ricerche per tentare i link d’entrata nell’amministrazione dell’e-commerce.

Per un lungo periodo gli unici rumori che si sentono sono i tasti premuti sulla tastiera, i click del mouse di Jessie e il ronzio dei server coperti dietro le nostre spalle. Keigo fuma vicino alla tv, dove un divanetto frontale ospita la sua corporatura da giapponese …palestrato in modo occidentale. Guarda un programma demenziale su un canale che non vedo mai, impigrito dal silenzio e dalla situazione. Ogni tanto lo osservo invidiandolo ma, riportando lo sguardo sul monitor e immergendomi nella consapevolezza di quello che sto facendo, mi sento un dio. O un eroe. Anzi, un supereroe, come mi piace considerare l’intelligenza che possiedo. So di non essere l’unico ad avere questo tipo di capacità, ma mi piace pensare che quello che ho sia qualcosa di speciale. Ho una capacità di concentrazione efficace e una testardaggine che mi spinge in continuazione sempre verso l’alto. Sono drogato della sensazione di vittoria che deriva ogni volta che vinco una battaglia virtuale e mi inebria immaginarmi come l’irraggiungibile Red Allert, promettentissimo hacker di New York.

Cazzo, suona troppo figo!

Ovviamente gli scopi di quello che faccio non sono affatto nobili, quindi non posso considerarmi un supereroe, quanto un villain, ma non importa …quello che conta è il buon risultato.

«Jessie. Oscura l’ultimo passaggio, dovremmo esserci quasi…»

«Sì!» è entusiasta. La guardo, sta sorridendo. La guardo ancora, poi torno allo schermo.

«Ok…» Respiro preparandomi all’ultimo passaggio utile per tentare di “bucare”. Eleverò di livello l’accesso dell’utenza che sto usando e così avrò accesso a tutte le informazioni che mi servono. Attaccheremo da due fronti: uno fittizio, che servirà a distrarli, l’altro più in sordina che sarà quello che realmente c’interessa: non puntiamo alle carte di credito, come lasceremo credere, ma solo ai dati che le compongono. Tutti i dati sensibili di ogni utenza. Quello di raccoglierli è compito mio, il secondo passaggio se lo vedrà Keigo con i suoi agganci nei posti giusti.

Keigo. L’ho sentito alzarsi e sistemarsi dietro di me, appoggiando le dita sul mio schienale. Alzo la schiena, ma non mi giro a guardarlo, tanto si è già avvicinato alla mia spalla controllando uno dei tre monitor che ho sulla scrivania.

«Ci siamo…» sussurra. Socchiudo gli occhi. Di nuovo sento quello strano bisogno che si alza e si sistema vicino alla mia gola, da cui smuove i muscoli dandogli una fortissima scarica. Non mi distraggo, però, mantengo lo sguardo e la mente concentrata sul mio lavoro.

«Jessie, al mio tre. Uno. Due…» faccio una pausa e preparo l’azione. «E tre, buca!»

Andata. La sento digitare in fretta il codice di risposta e la sua chiamata la tengo d’occhio sul terzo schermo. Si accende una spia. L’allarme dell’agenzia scatta, perché si sono resi conto che qualcuno ha forzato il muro dei loro sistemi e stanno tentando di recuperare. «Vai così… trattienili»

«Stanno tentando di buttarmi fuori…» dice Jessie mordendosi parte delle parole e controllando freneticamente il suo monitor.

«Isola l’indirizzo ID, cerca di apparire e scomparire nella traccia di log»

«Aspetta…» digita velocemente con le dita sulla tastiera e invia.

«Sei scomparsa!» dice Keigo, alzando la schiena e guardando Jessie poco più in là.

«Eccola» dico, quando sul monitor ricompare il suo ip fasullo, riconoscibile perché completamente straniero. Jessie fa l’occhiolino a Keigo e lui le sorride, subito dopo incrocia il mio sguardo e sorride anche a me. Guardo altrove. Alle volte sono veramente stronzo con lei.

«Rimani così. Saltella da un ip a un altro, non riusciranno a prenderti. Io posso già entrare nelle loro liste utenti…»

«Ok»

***

Procediamo così per qualche minuto e io ho già raccolto dati sufficienti per riuscire a risalire a una grossa quantità di informazioni. Li giro coprendo le tracce direttamente su uno dei nostri server e li nascondo nel modo classico con cui agiamo. Una volta fatto, avvio la procedura di distacco.

«Inizia a mollare la presa, Jes» le dico, guardandola di sfuggita.

«Va bene, Red»

«Sei stata brava…»

«Più che brava!» mi interrompe Keigo e io alzo lo sguardo verso di lui, ruotando il viso al di sopra della mia spalla. Ma che cazzo…?

Lei ride. Ed ecco di nuovo la magia negli occhi di Keigo. Sospiro. Stavolta mi ha dato fastidio.

«Jessie, concentrati. Il distacco senza lasciare tracce è più difficile. Sei riuscita a ritrovare lo stesso punto d’accesso?»

«Cazzo…» digita sulla tastiera qualcosa e io mi concentro su di lei. «Cazzo… non-…»

«Non mi dire che non hai lasciato aperta la via di fuga»

«No…»

«L’hanno chiusa?»

«Credo di sì…»

Credo di sì”? Ma porca puttana! Ok. Mi alzo impassibile e mi allontano dalla scrivania, raggiungendo quella di Jessie. Una volta lì mi piego e recupero la sua tastiera, rubandogliela sotto il naso. Ok, il codice è pulito, ma ho bisogno di qualche minuto per orientarmi. Mi muovo attraverso le stringhe e non trovo la via d’uscita, l’hanno chiusa. Mi mordo l’interno della guancia e penso a quanto sia stata avventata. È brava quanto ti pare, ma non sa pararsi il culo. Esattamente come la prima volta che l’abbiamo scovata fino a casa sua: sa penetrare ovunque, ma non sa difendersi.

«Mettiti alla mia postazione. Finisci il recupero e allontanati. Ho già impostato tutto. Qui ci penso io…» le dico e la mia voce è controllata, senza sbalzi, anche se effettivamente mi rode. Lei balbetta un “” e va alla mia scrivania, mentre io mi piazzo alla sua postazione. La lascio lavorare ed evito di sollevare lo sguardo e ascoltare quello che Keigo le sta dicendo per tranquillizzarla. Sussurra qualcosa, ma non mi ci concentro volutamente, escludendo il mondo e immergendomi nel codice.

Preparo un’altra via di fuga in alternativa, ma le tracce sono tremendamente più evidenti, tant’è che mi bloccano subito la strada. Sospiro. So già che l’unica alternativa possibile è andarmene da dove sono entrato con l’utenza fittizia. Di sicuro non l’hanno vista, ma questo significherà far scoprire la ricerca nella zona di classificazione utenti.

Che errore grossolano…

Non ho altra scelta e alla fine decido per questa opzione. Mando l’utenza di Jessie in quella zona e oltrepasso il buco del codice per poi richiuderlo di mio pugno. Basteranno poche ore e capiranno che tutto quello che abbiamo fatto è stato un diversivo.

Che palle. Non che comporti chissà che, ma dovremmo stare molto più attenti nel muoverci. E non solo. Forse solo tra qualche mese, quando si sentiranno più al sicuro, riusciremo a utilizzare quei dati.

Sbuffo. Mi butto indietro sullo schienale della sedia e appoggio i gomiti sui braccioli. Guardo Jessie e lei mi guarda con le guance arrossate. Lo so che ha capito cosa ho dovuto fare e riabbassa lo sguardo mortificata, mordendosi il labbro convulsamente. Non le dico niente, probabilmente basta il mio sguardo.

Keigo invece ci guarda senza capire niente. «Che è successo, quindi?»

«Abbiamo i dati» rispondo, alzandomi e togliendomi gli occhiali. Li chiudo usando il petto e li appoggio sulla mia scrivania. Non mi fermo lì da loro, ma mi dirigo verso il divanetto e lo occupo per metà con il corpo, tenendo le gambe verso il basso. Appoggio un braccio sullo schienale e tamburello le dita mentre maneggio il telecomando per lo zapping.

«Beh, è quello che ci serviva, no?» ritenta Keigo «Sei riuscito a riaprire la via d’uscita?»

«No…» ma risponde Jessie per me. Io ignoro la situazione, continuando a guardare la tv. «Ha dovuto sfruttare la via di fuga che aveva creato dalla sua parte. Avranno associato i due interventi…» la sua voce è bassa e mi fa piacere che lo sia. Almeno significa che ha capito la sua cazzata. Mi fa anche piacere che si senta una merda. Odio quando la squadra non fa quello che dico e mi fa “perdere”. Ecco perché ho sempre preferito lavorare da solo.

«Cazzo. Questo significa…»

«Sì, mettiti l’anima in pace, Kei. Se ne riparla tra un paio di mesi» rispondo io e il mio tono è molto controllato.

«’Fanculo!!!» e Keigo invece no. Lui sbotta. E lo fa anche spesso. «Fanculo! Avevo fatto dei calcoli su quei soldi e ora tutto è andato a puttane!» Jessie si stringe nelle spalle e si rannicchia sulla sedia. La osservo con la coda dell’occhio, guardando Keigo girovagare per la stanza con le mani alzate.

In poco tempo il garage si riempie di parolacce e bestemmie e vola anche qualche portapenne, lanciato chissà dove verso la piccola cucina. Lo lascio sfogare, mentre io tiro fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni una bustina contenente l’erba del mafiosetto del New Jersey, delle cartine e del cartoncino. Sistemo tutto sul tavolo e prendo una sigaretta dal pacchetto. La apro, spacco il tabacco e ci trito dentro l’erba. Con il mignolo schiaccio tutto nella cartina e dopo aver rollato, lecco la lunghezza della canna, richiudendola. Ecco. Me ne faccio una per conto mio, mentre alla voce sbraitante di Keigo, si è unita anche quella di Jessie. Ora stanno litigando pesantemente e stanno volando insulti dietro le mie spalle, che io ignoro senza problemi. In fin dei conti non mi ero fatto alcun calcolo con quei soldi e so che comunque arriveranno, quindi mi tiro fuori dalla scena. Anzi. Standomene qui, non si attiva l’irrefrenabile voglia di dire a quella ragazzina che è ancora un’incapace a fare quel tipo di lavoro. È una fottuta attaccante, ma come tutti gli attaccanti è spesso avventata e non ha idea che per essere veramente “grandi” bisogna saper comprendere anche cos’è la difesa.

Rilasso le spalle sullo schienale e la canna accesa mi riempie completamente le narici e la gola. La respiro e mi sento già meglio, molto meglio. Soffio e il sapore è buono, liberatorio, anche se brucia in gola.

***

«Keigo, sei una testa di cazzo! Ti ho detto che mi dispiace, che altro devo fare? Mettermi in ginocchio?»

«Potresti imparare a fare il tuo cavolo di lavoro! Devi essere affidabile, Jessie!»

«Ma io lo sono! Diglielo Iye!» non mi giro. Mi piace il sapore della canna che ho in bocca. L’aspiro piano, la tengo e poi la rilascio allargando le labbra. Vedo la nuvoletta di fumo alzarsi nell’aria, partendo dalla mia bocca. La trovo luccicante.

«Iye!» Mi chiama Keigo e io mi volto.

«Uhm?» li guardo entrambi e entrambi mi stanno osservando a pochi metri dalle mie spalle.

«Stai fumando?» Keigo mi guarda come se fossi scemo.

«Sì. E quindi…?»

Lui lancia un suono esasperato, alzando nuovamente le braccia e affondando le mani fra i capelli.

«Iye…»

«Red» la correggo.

«Red!» risponde Jessie esasperata «Non farmi sentire una merda, almeno tu… spiegagli che mi impegno. Tappa la bocca a questo stronzo maschilista!»

«Stronza» risponde Keigo come un ragazzino.

Io cerco di riformulare quello che mi ha appena detto Jessie. Ci metto un po’. Gli occhi mi si sono appannati e ho l’incredibile bisogno di fumare ancora. Aspiro il più possibile dal filtrino, poi ributto fuori il fumo, di nuovo con quella grande boccata. Non lo faccio apposta, Jessie. Non mi guardare con gli occhi lucidi. La canna è buona. Che altro dovrei fare?

«No, lei è utile. Ma non sa difendersi…» le guance di Jessie diventano bordeaux «le insegnerò come fare. Keigo, se ti servono i soldi, te li alzo io. Mi prenderò la tua parte…» ispiro, fumo e lancio verso l’alto la nuvoletta bianca luccicante. Che bella. «…quando potremmo sfruttare i dati. Intanto lavoreremo a qualcos’altro.»

Keigo da un calcio alla sedia di fronte a quella dove siede e non replica. Jessie invece non sa se guardarmi con gratitudine o tristezza. Io la guardo senza dire una parola, gli occhi sono pesanti e li avverto socchiusi. Fumo ancora e le pupille scivolano sulla capocchia accesa della canna che brucia. È bella anche questa cosa.

«Ok. Ci vediamo domani» farfuglia la ragazzina prima di raccogliere le sue cose e dirigersi verso l’uscita del garage. Si volta a guardare con disprezzo Keigo, che evita accuratamente di guardarla, concentrandosi sui suoi piedi. Io noto tutto con sommo distacco. La canna è buona e torno a fumarmela.

***

Sentiamo il tremolio della persiana, quando Jessie esce finalmente dal garage e Keigo lancia in aria un’imprecazione in giapponese. La capisco. Sono anni che mi insegna a parlarlo, ma non ho il cervello adatto in questo momento per rispondergli nella sua stessa lingua.

«Ti scaldi troppo facilmente con lei»

«Senti chi parla…» mi dice mezzo scandalizzato, anche se divertito.

«Ha fatto un errore, ma non è con noi da tanto tempo. Lascia stare…» alzo una mano e la poso sul ginocchio. Fumo ancora. «…imparerà» cerco di rassicurarlo, ma non mi escono fuori le parole giuste. Il mio cervello non collabora moltissimo, quindi smetto di provarci.

Keigo si siede accanto a me, afferrando il telecomando e iniziando a fare zapping tra i vari canali. «Ci ha fatto perdere un sacco di tempo con questa sua distrazione…» risponde e io lo guardo vagamente. Non mi sta vicinissimo, ma ho le dita stese sullo schienale che quasi arrivano a toccare la sua nuca.

«Lo recupereremo. Non era un colpo grosso, solo una prima parte. Meglio che abbia sbagliato qui, che durante la fase decisiva.»

Keigo grugnisce qualcosa e dopo un momento di silenzio mi ruba la canna dalle dita. Protesto per poco, ma alla fine la mia poca reattività si arrende alla sua. Lo guardo mentre porta il filtro alle labbra e prende una grossa boccata. L’idea che prima l’avevo io in bocca, mi fa cambiare posizione sul divano. Sospiro frustrato. Tutte le volte sempre lo stesso effetto.

«Così la confondi. Prima la tratti bene, poi la tratti male. Andrà a finire che ti odierà…» riprendo il discorso, scavalcando il suo silenzio.

«Non me ne frega nulla» risponde, fumando ancora offeso. So che sta riflettendo sulle mie parole, perciò proseguo.

«Pensaci bene, Kei. Inimicarla non serve a niente. È promettente, capace, reattiva. È riuscita a bucarci il sistema più di una volta e sa imporsi in questo branco di animali che siamo. Non si trovano ragazze così, in giro. Lo sai meglio di me. Perciò… vedi di andarci d’accordo» sono stupito della mia capacità espressiva. Anzi, no. Non lo sono. Ecco una testimonianza di come l’erba non ti frigge il cervello. Oh. Dovrei scriverlo da qualche parte. Invierò un’email al Ministro della Sanità. Magari lo convinco a legalizzarla…

«Quindi?» domando, senza distogliere lo sguardo dal suo profilo, interrompendo da solo i miei pensieri. Ero arrivato a pensare che scrivere al Presidente era più figo.

«Quindi che…?» risponde Keigo, girando il viso dalla mia parte per guardarmi un po’ perplesso. «Non le chiederò scusa!» il fumo esce dalle sue labbra mentre risponde, soffiandolo via con stizza.

«Sei uno stupido orgoglioso» dico senza rancore, anzi, sorridendo anche un po’. Boh. Riesco a farlo più facilmente. Non so se è per la canna o se è per Keigo e la sua famigliarità. La mia testa è molto leggera ed è da prima che sento di poter fare qualcosa di stupido. Tanto le conseguenze sarebbero minime. Non riesco a trovarne molte.

«Ci penso… va bene» risponde Keigo, rassegnato «In fondo lei ci serve. È l’unica che sa tenere il tuo passo. E io ormai ho dimenticato come si fa ad hackerare»

«Non l’hai mai saputo fare in realtà»

«Alcune volte sai essere stronzo, Iye»

«Solo “alcune”?»

Cambia espressione quando gli prendo il polso. Mi avvicino e giro la sua mano verso di me. Tra le dita stringe ancora la canna, l’afferro con le labbra e tiro altro fumo, sfiorando con la bocca parte della suo palmo. Il fumo mi entra in gola e quando mi scosto, incontro il suo sguardo un po’ dilatato dalla droga e da qualcos’altro. Lo stesso che dilata il mio.

«Non puoi tenerla tutta per te» sussurro a una distanza veramente effimera dalla sua mano, tanto che sento tornare indietro il mio stesso respiro.

«Posso invece» ribatte, sfidandomi.

Rimango in silenzio, a lungo, mentre il suo polso rimane ancora incastrato dalle mie dita. La sento cambiare quella famigliarità, lentamente, inevitabilmente: diventa più elettrica, pesante e vischiosa. Probabilmente sostituita da un richiamo più materiale. In quell’assenza di rumore, quello che ci diciamo con le labbra chiuse diventa assordante. Mi avvicino, fanculo! Mi avvicino così tanto che devo socchiudere gli occhi perché non siano infastiditi dal suo respiro. Diventa pesante, così come il mio, mentre inclino il viso e mi abbasso fino a sfiorargli le labbra con le mie. Il fumo dell’erba mi entra nelle narici e si mischia al suo odore, mentre spingendo cerco di approfondire quel contatto. Premo con la lingua per arrivare a toccare la sua e così accarezzarla lentamente, raggiungendo l’intimità che volevo.

Mi piace questo sapore. Mi piace il modo in cui siamo vicini. Mi piace anche come le conseguenze di ciò che stiamo facendo si concentrino in tutto il mio corpo. Sono confuso. In realtà non riesco nemmeno a rendermi conto che una delle mie mani si è mossa e si è sistemata dietro la sua nuca. L’altra la ritrovo sul suo fianco e nemmeno quella so quando c’è arrivata. Il mio corpo si sbilancia contro il suo e la risposta che sento da parte di Keigo mi fa venir voglia di proseguire e proseguire ancora.

Non è la prima volta che lo tocco e non è nemmeno la prima volta che incontro il suo sguardo desideroso del mio. Le dita scivolano lungo il suo addome e lui mi stringe i capelli, tirandomeli non per scansarmi ma per non lasciarmi ritrarre. Proseguo. Le mie dita si fanno più invadenti e cadono sul suo ventre. Poi più in basso, vicino alla sua cintura. Più in basso ancora…

***

Un rumore e qualcuno che trasale ci interrompe. Ci voltiamo verso l’entrata del garage e troviamo Jessie con in mano una sciarpa, evidentemente tornata a recuperare da poco.

Dal suo sguardo allarmato, penso proprio che ci abbia visti. Non dice nulla e noi la guardiamo per qualche secondo in silenzio, prima di sentire Keigo farsi indietro e sfuggirmi. Lo guardo stupito, osservandogli il viso arrossato dall’eccitazione o dalla preoccupazione/vergogna, quel che cazzo è.

Guardo Jessie e Jessie guarda me. E io rimango impassibile.

 



Questa storia è il passato/presente (un po' romanzato) di un mio personaggio, creato per un GDR by chat (il titolo tra le parentesi quadre, per intenderci).
Alcune cose sono vere, altre no, altre ancora mai giocate ma costruite solo da BG. È iniziata come una piccola sfida personale, mischiata alla curiosità di entrare nella testa del mio pg totalmente inespressivo. Alla fine quest'idea si è riempita di capitoli e di pagine, che hanno portato la storia su un piano più profondo e non più di semplice "sfida", perciò eccola qui: pubblicata ancora incompiuta, per il semplice motivo che... il pg lo sto ancora giocando. Ahuahuah!

Ringrazio ovviamente ogni player/pg che ha partecipato alla crescita di Iye (in particolare, per non spoilerare, basterà una *pannocchia* per capire a chi mi riferisco) e anche a chi ha sopportato le mie indecisioni sul mettere online queste righe. Chi si è offerto di correggerle e chi ancora, sospirando, è costretto a sorbirsi tutto questo "yaoi" per farmi contenta. Ahuahuahu.

Non so quanto sarò costante, nel pubblicare... però mi ci metterò d'impegno.
Bon, buona lettura! *_*

n/a: i personaggi all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono utilizzati con alcun scopo di lucro.
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