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Autore: Manny_chan    14/05/2015    3 recensioni
La guerra è finita.
Gli angeli hanno vinto, i demoni sono stati reclusi.
E' in questo scenario che, questi ultimi, cercano di adattarsi ad una nuova vita.
Marai e Takul sono tra questi, estremamente diversi, ma...
[Spin-Off di "Inospettabile Peccatore"]
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Insospettabili Conseguenze'
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Era duro, scontrarsi con la realtà.

Beltane ci aveva appena sbattuto il muso, con tanta forza da rimanere senza parole per quasi un minuto.

Eccoli lì.

I cinque marchesi, la nobiltà dei demoni, riuniti attorno ad un fuoco come dei selvaggi. Il ricordo delle riunioni ufficiali, delle armature lustre, era svanito, lasciando il posto a quella squallida immagine.

Lasciò scorrere lo sguardo sugli altri partecipanti di quella desolante riunione.

La vecchia Akela, carica di tutti i monili che era riuscita a portare con sé, che si rifiutava di togliere anche un solo anello delirando sul fatto che avrebbero dovuto strapparli dal suo cadavere per averli.

Ethos, il gigantesco guerriero che sembrava già essersi adattato a quella vita e che portava addosso solo un minuscolo gonnellino, di quella che sembrava pelle di cinghiale.

Anche Takul sembrava essersi ambientato abbastanza in fretta. I ricci scuri erano sporchi ed arruffati, ma per quanto riguardava il resto  sembrava essersi dato alla caccia all'orso, usandone la pelliccia per vestirsi.

E infine c'era Marai.

L'ultimo dei marchesi, il più giovane.

Marai era l'unico che sembrava aver mantenuto decenza e compostezza. Per quanto consunti portava dei vestiti degni di tale nome.

Nonostante fossero rammendati e lisi, camicia e pantaloni erano puliti e ordinati, cosi come i lunghi capelli raccolti in una treccia.

Per quanto potesse sembrare una stupidaggine, la compostezza del marchese le diede un minimo di conforto.

"D'accordo", sospirò infine, passandosi una mano tra le treccine, raccogliendole in una coda. Si sentiva sporca, come se avesse addosso una patina di sudore e polvere che non riusciva a togliere.

A tradimento le ritornarono alla mente i bagni bollenti che si concedeva dopo le grandi battaglie. La schiuma, il vapore... e Alasser.

Scacciò con forza quel ricordo masochista, concentrandosi sul fuoco. "La situazione non è delle migliori. Abbiamo un esercito di guerrieri che si stanno scannando l'un l'altro e un pugno di civili terrorizzati senza una guida. Dobbiamo prendere in mano la situazione, perché le cose possono solo degenerare."

"Che cosa dice il sovrano?"

Beltane voltò lo sguardo su Marai, autore di quella pacata domanda.

"Un cazzo", rispose aggressiva. "Mettetevelo bene in testa, il sovrano non è più tale. È passato un mese e non ha fatto nulla, non ha nemmeno messo il naso fuori dal suo rifugio. È evidente che non gliene frega più nulla né di noi né del suo popolo!"

Aveva risposto con troppa veemenza ad una domanda che alla fine era più che lecita, se ne rendeva conto anche lei.

Il marchese però abbozzò un cenno di scusa, con il capo, accettando quasi passivamente quella risposta.

Beltane ringraziò silenziosamente il destino che aveva portato Marai a far parte di quel gruppo; al momento la sua calma quasi apatica era l'unica cosa che riusciva a farle mantenere il controllo.

"Ascoltate, forse un giorno Alasser risorgerà dalle ceneri di questa disfatta e verrà a riprendere in mano le redini del comando, nessuno più di me lo spera, ma nel frattempo non possiamo restare a guardare. Ecco cosa propongo di fare", disse con un sospiro.

"Anche se siamo stati rinchiusi qui siamo comunque le cariche più alte, al momento. Offriamo agli altri la possibilità di unirsi a ciascuno di noi, dividendoli in cinque gruppi sarà più semplice Tenerli sotto controllo..."

"Quattro."

Beltane si voltò verso Ethos. "Come hai detto?", chiese.

Il marchese scrollò le spalle. "Se ognuno di loro sceglierà volontariamente a chi unirsi, dubito che lui si troverà con qualcuno", rispose, indicando Marai con il cenno del capo.

Il demone chiamato in causa gli lanciò un'occhiata vuota. "In tal caso troverò un altro modo di rendermi utile, non temere", rispose poi, pacato.

Beltane ringraziò silenziosamente, per l'ennesima volta, la pazienza del marchese più giovane. Non avrebbe avuto la forza per sedare una zuffa. "Va bene, diamoci da fare", disse. "Non abbiamo canali ufficiali quindi spargere la voce. Abbiamo perso la guerra ma non siamo finiti, possiamo e dobbiamo continuare a vivere. Ci aggiorneremo tra una settimana, nel frattempo cercate di esplorare il territorio, di trovare una sistemazione adatta alle nuove tribù. Più lontane saranno, meno possibilità avremo Che si scannino a vicenda."

 

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Marai, quando la guerriera li ebbe congedati, si incamminò per la sua strada. Non aveva motivo di attardarsi con gli altri marchesi. Si strinse le braccia, l'aria notturna era decisamente fredda, rispetto al caldo torrido del giorno.

Aveva lasciato il fuoco senza molta voglia.

Il fatto che il sovrano li avesse abbandonati... lo feriva, in un certo senso. Era stato l'unico a non trattarlo mai in modo diverso, fin dal loro primo incontro, e già solo per quello provava verso di lui una gratitudine enorme.

Si era aspettato che avrebbe continuato a guidarli, o per lo meno che avrebbe speso due parole con i marchesi.
Con lui, quanto meno, in virtù del fatto che fossero cugini, anche se non ufficialmente.
Ma del resto, se nemmeno con Beltane aveva più avuto contatti, non doveva nemmeno sperarci.

Fortuna che era rimasta lei, a prendere in mando la situazione, pensò, strofinandosi le braccia. Nessuno poteva negare che, nonostante lei e Alasser non si fossero mai sposati, sarebbe stata la migliore regina che avrebbero potuto avere.

Uno strillo interruppe quei pensieri.
Marai affrettò il passo, saltando con grazia l’ultima parte del sentiero e guardandosi attorno.
A pochi metri da lui un demone aveva afferrato per i capelli una giovane femmina e la stava strattonando, per portarla via.
Come una bestia, fu il pensiero del marchese.
Alcuni demoni erano sempre stati violenti e maneschi, ma quella prigionia forzata aveva letteramente esasperato quegli aspetti.
“Ehi”, richiamò la sua attenzione, avvicinandosi. “Lasciala andare.”
Il demone sollevò lo sguardo, le labbra contratte in un ringhio rabbioso.
Marai vide chiaramente, negli occhi aranciati dell’altro, la tentazione di attaccarlo. I muscoli tesi guizzarono sotto la pelle scura, mentre arretrava di un passo, forse per prendere la rincorsa.
Il marchese scosse la testa. “Pensa bene a quello che fai, sai chi sono.”, disse, era una minaccia, anche se il tono era rimasto pacato.
Forse fu quello, a spaventare il demone, più che la sua posizione altolocata.
Si passò una mano tra gli sporchi capelli grigi, sputando a terra in segno di disprezzo, sparendo con un ringhio minaccioso.
Nessuno voleva tirarsi addosso le ire degli altri marchesi e dei reali, attaccandolo.

Marai scosse la testa, avvicinandosi poi alla demone. “Va tutto bene?”, chiese, porgendole la mano.
La femmina sollevò lo sguardo. Quando lo riconobbe però le sue pupille si dilatarono per la paura. Soffocando un gemito strisciò via, per allontanarsi.
“Ehi… sta calma”, sospirò il marchese, ritraendo la  mano. “Non ti tocco, d’accordo? Nessuna sciagura immane si abbatterà su di te o la tua famiglia solo perché ti ho aiutato”, aggiunse, scuotendo la testa ed infilando le mani nelle tasche dei pantaloni. “Vai a casa, prima che quello torni”, concluse, incamminandosi nuovamente.

Non ne faceva un dramma, ormai era abituato alla gente che reagiva a quel modo.
Non era passato molto tempo quando un rumore lo spinse a voltarsi di nuovo.

La giovane femmina lo aveva seguito.

“Che c’è?”, chiese.

La demone chinò il capo. “Io… vi chiedo scusa”, sussurrò, vergognosa. “Mi avete salvato e io… ho reagito come una stupida, mi dispiace.”

Marai incurvò impercettibilmente le labbra. “Non importa, non pensarci. Che cosa voleva quello da te?”
“Quello che ogni maschio vuole dalle femmine, da quando ci hanno rinchiusi qua siamo diventate del bestiame, delle prede da cacciare”, mormorò, rabbiosa. “Siamo… ci siamo nascoste, ma non abbiamo i mezzi per procurarci nulla, senza mettere il naso fuori dai nostri rifugi…”

Marai aggrottò la fronte. “Quello non lo abbiamo considerato”, ammise. Era vero, c’erano i guerrieri che si scannavano tra di loro, ma le poche femmine rimaste erano ancora più importanti. “Fa così, torna al tuo rifugio, senza voltarti indietro. E nei prossimi giorni fai passare la voce…”, disse, spiegandole la suddivisione che Beltane aveva intenzione di fare.

“Vi troverò un posto sicuro dove stare. Davvero sicuro, la zona rocciosa dove ho rifugio io è piena di nascondigli… ed è più accogliente e fertile di quello che sembra.”
La demone annuì cautamente. Non sembrava entusiasta, ma forse non voleva riporre troppa speranza in quella visione. Tuttavia si allontanò, facendo un lieve inchino, prima di sparire.

Marai riprese a camminare. Alla fine, forse Ethos si sbagliava, pensò. Avrebbe avuto il suo bel da fare, nei giorni successivi.


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Di orsi nemmeno l'ombra.

Takul sbuffò piano, che delusione.

C'era stato un po' di movimento quando aveva dovuto organizzare le cose e assegnare rifugi per la sua nuova tribù, ma finito il periodo di assestamento era tornata la noia più totale, cacciare era l'unico modo per tenersi occupato.

Ad un tratto un rumore attirò la sua attenzione.

C'era qualcosa che si muoveva nel corso d'acqua che costeggiava la macchia d'alberi; a orecchio era piccolo, forse un cucciolo di qualcosa.

Sempre meglio di nulla, si disse, strisciando silenziosamente tra i cespugli, fino ad avere la visuale libera.

In quel punto il fiume faceva un piccolo salto, quasi una cascata in miniatura, raccogliendosi in una polla sottostante, una vasca di pietra naturale, prima di riprendere il suo corso.

Takul sbuffò deluso, era evidente che la figura sotto il pelo dell'acqua non apparteneva ad un cucciolo d'orso.

Stava per tornare sui suoi passi quando il demone riemerse, gettando all'indietro i capelli in un tripudio di schizzi e goccioline.

Diamine, pensò, ecco perché non c’era traccia di animali nei dintorni, con tutto quel rumore!

Era quasi tentato di andare a dirgliene quattro, giusto per movimentare un po' la giornata.

I suoi propositi però svanirono immediatamente quando si rese conto di chi fosse.

Non era difficile da riconoscere, l'unico demone vivente con una anomalia genetica del genere.

Una chimera.

E nonostante lui fosse cresciuto in una famiglia superstiziosa al limite della follia, Marai lo incuriosiva al limite della decenza.

E in quel momento gli dava le spalle, non si era accorto della sua presenza, lasciarsi sfuggire quell'occasione sarebbe stato folle.

Lo osservò, mentre si spostava i capelli su una spalla, avvicinandosi alla riva, prendendo una ciotola e affondando le dita nel contenuto oleoso, iniziando con una pazienza infinita a lisciare e sgrovigliare le ciocche bicolori.

Beh, pensò Takul, se ci perdeva tutto quel tempo capiva perché era sempre impeccabile. Lasciò scorrere lo sguardo sulla schiena, libera dai capelli, dell'altro.

Che fosse esile, già si intuiva,  ma che oltre alle forme aggraziate di una fanciulla ne possedesse anche la pelle serica e liscia, di un delicato color caramello, fu una piacevole sorpresa.

Per un attimo gli venne il sospetto che in realtà Marai fosse una donna, cresciuta come uomo dai genitori che miravano a farla entrare nella cerchia dei reali.

Poi scosse la testa, no, si disse, era una idea assurda, per quanto delicato il marchese aveva un timbro di voce decisamente mascolino. E soprattutto niente tette, pensò, annuendo tra sé e sé, se ne sarebbe accorto altrimenti. Aveva molta fiducia nella sua capacità di rintracciare seni femminili.

Restò a fissarlo, seguendo il movimento ipnotico delle dita affusolate che con meticolosa precisione separavano le ciocche candide da quelle dorate. Probabilmente era quello il modo con cui Marai combatteva l'apatia di quella prigionia che si prospettava eterna, un po' come lui si era dedicato alla caccia e a scuoiare bestie.

Sì, decisamente non ce lo vedeva il delicato marchese ricoperto di sangue di orso.

Di nuovo il suo sguardo indugiò sulla schiena, ora parzialmente coperta dalle ciocche lucide, rimpiangendo il fatto che l'acqua arrivasse abbastanza in alto a coprire la desiderabile rotondità del didietro dell'altro.

Desiderabile.

Takul sbatté le palpebre, l'aveva pensato sul serio?!

Nah.

Desiderabile per lui erano un bel paio di tette enormi. O anche il bel posteriore muscoloso di un guerriero.

Non aveva mai provato nessun tipo di interesse nei modi apatici e delicati di Marai.

Eppure in quel momento si rese conto di volerlo; forse per sfida, forse perché era qualcosa di unico e raro, ma lo voleva.

Voleva possederlo con una brama selvaggia...

Con un sospiro rammaricato si rese conto che sarebbe stato più complicato convincere lui che tutti i suoi partner precedenti.

Però nel giro di pochi secondi era diventato un chiodo fisso.
Improvvisamente attento si sporse appena, guardandolo uscire dall’acqua, dopo essersi sciacquato i capelli sotto la piccola cascata. Sfortunatamente gli dava ancora le spalle, non riuscì a trovare risposta alla domanda impertinente che lo attanagliava dalla prima volta che lo aveva visto: di che colore era là sotto?

Marai si sedette su una delle rocce della riva, strizzando i capelli e con calma raccogliendoli in una treccia.
Takul avrebbe voluto avvicinarsi, ma temeva di farsi scoprire. Si accontentò di seguire i suoi movimenti mentre prendeva i vestiti,  probabilmente lavati in precedenza, stesi al sole e se li infilava, incamminandosi.

Magari poteva cominciare a parlarci, chi lo sa?
Rimase nascosto, seguendolo, curioso di sapere dove si rifugiasse. Contrariamente agli altri marchesi, infatti, non lo vedeva mai in giro, quella era la prima volta.

 

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Marai si fermò.
Gli era sembrato di sentire un rumore.

Ed era già la terza volta nell’arco di cinque minuti.

La prima volta poteva anche essere una qualche bestia.

La seconda anche.
Ma se per la terza volta il suo istinto gli diceva che c’era qualcosa di strano, allora forse non era solo paranoia.

"Chiunque tu sia", disse. "Inizio a stancarmi di questo gioco. Vieni fuori prima che decida di venirti a prendere."

Vedendosi scoperto Takul sbuffò, raddrizzandosi ed uscendo dai cespugli in cui si era nascosto. "Vieni fuori prima che decida di venirti a prendere?", gli fece il verso. Scese il ripido pendio fino a raggiungiungerlo, sentendo su di sé il peso dell'inquietante sguardo bicromatico dell'altro marchese. "Scusa ma detto da te non fa molta paura", sbuffò, fermandosi di fronte a lui.

Marai fece istintivamente un passo in dietro, coprendosi il naso e la bocca con una mano, quando percepì l'odore del demone che aveva davanti.

Un misto acre di sudore e bestiame... morto da almeno un paio di settimane.

"Che cosa vuoi?", chiese, reprimendo un conato.

Takul lo guardò, inarcando un sopracciglio. Non era esattamente la reazione che sperava di suscitare, ma non si perse d'animo. "Sì, dunque, fare due chiacchiere, essenzialmente. Ed ero curioso di sapere dove andavi ad infilarti dopo le riunioni. Insomma è praticamente un anno che siamo rinchiusi qui e ti ho visto solo tre volte alle riunioni..."

"E non ti è venuto in mente che forse non ho alcun interesse a socializzare?", fu la sarcastica risposta di Marai, che fece cautamente un passo indietro.

"Guarda che non ti mangio mica", lo prese in giro Takul, fraintendendo il motivo di quel gesto. "Possiamo avere più cose in comune di quello che pensi..."

"Ne dubito fortemente", fu la fredda risposta del marchese, che si voltò, riprendendo a camminare.

Roteò gli occhi nel notare che l'altro aveva ripreso a seguirlo. "Lasciami in pace", sospirò, senza fermarsi. "Sto benissimo così."

"Ma dai... Abbiamo un'eternità da passare qua dentro, che vuoi fare, diventare un eremita?"

"La prospettiva non mi dispiace.

"Sicuro di non voler approfondire la nostra conoscenza?”
“L’unica conoscenza che ti consiglio di approfondire è quella con la tua igiene personale.”
“Oh, ehi! Questa era cattiva!”
“Non più del tuo odore. Ora se vuoi scusarmi…”

Takul si fermò, lievemente offeso. Certo che non le mandava certo a dire...

"Cazzo, ti ha mai detto nessuno che sei acido come il latte cagliato?", sbottò. "Probabilmente è il fatto che non puoi scopare che ti rende cosi malmostoso."

"Posso scopare tanto quanto te."

"Eh?"

Marai si fermò, lanciandogli un'occhiata da sopra la spalla. "Ho detto..."

"Sì, sì, ho sentito che cosa hai detto", lo interruppe Takul. "Ma io pensavo...  cioè che quelli… insomma, si diceva che quelli come te fossero impotenti."

“Sterili”
“In… che senso?”

Marai sospirò, esasperato, voltandosi e tornando indietro. “Nel senso che non posso avere figli, razza di trogrlodita. Non centra niente con l’essere impotenti, sono due cose diverse”, disse, battendogli il dito sul petto. “Ma i caproni ignoranti non colgono la differenza”, concluse. Senza dargli tempo di ribattere si voltò, prendendo la rincorsa e scalando, con pochi aggraziati movimenti, lo scosceso pendio roccioso che avevano di fianco, raddrizzandosi sul bordo di esso e osservando l’altro, che lo guardava dal basso, a bocca aperta. Pochi erano a conoscenza della sua agilità, doveva fare un certo effetto, pensò, con un guizzo di compiacimento. “Voglio proprio vedere come farai ora a seguirmi”, disse, allontanandosi e lasciandolo lì. Per lui non era altro che una seccatura avere a che fare con gli altri.
Un eremita?
La prospettiva era meravigliosa…

 

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Sei mesi.
Il tempo tra un incontro e l’altro scorreva fin troppo velocemente, secondo Marai.
Era stata una serata insopportabile.
Prima quel Takul che aveva cercato di sedersi accanto a lui, offendendosi poi quando  giustamente gli aveva fatto notare che puzzava come una capra in decomposizione.

Ethos che aveva avanzato il dubbio che stesse mentendo, quando aveva detto che si era trovato un piccolo gruppo di persone che aveva scelto di stare sotto la sua guida.

Perché nessuno sano di mente, aveva detto, si sarebbe unito ad uno scherzo della natura come lui.
Non era tanto le insinuazioni di Ethos, a quelle ci era abituato, quanto per il fatto che era stato chiaro che anche gli altri quattro avevano avuto il medesimo pensiero.

Era frustrante.
Quello era il motivo per cui stava benissimo da solo, perché non c’era nessuno a ricordargli quanto fosse diverso, anomalo e strano...

Si passò una mano sul viso, fermandosi alla piccola cascata dove faceva il bagno di solito, avvicinandosi con cautela, cercando di non bagnarsi, per bere un po’ d’acqua.

Chi glielo faceva fare di unirsi agli altri?

Si era trovato un rifugio perfetto, vicino all’acqua e alla foresta.

Per non parlare della sua piccola tribù che poco lontano da lì, in una piccola valle protetta da picchi di roccia, prosperava. Si erano unite praticamente tutte le femmine che erano sopravvissute ed alcuni giovani demoni, ancora in grado di pensare con la testa e non con l’istinto di caccia.

Era un bel gruppetto e, stranamente, non lo infastidiva fare loro visita per controllare la situazione.
La gratitudine verso di lui sembrava aver cancellato quasi ogni traccia di superstizione esistente.
Si sciacquò il viso, facendo un passo indietro per tornare sui suoi passi: fu in quel momento che qualcosa di grosso e pesante lo colpì alle spalle, facendogli perdere l’equilibrio e finire in acqua.
Riemerse tossendo ed annaspando, cercando di mettere a fuoco chiunque fosse stato a colpirlo.

Accucciato sulla riva stava un grosso demone bruno, che lo fissava, gli occhi aranciati sembravano ardere nella semioscurità.
Ancora tu?,fu il pensiero di Marai, che non ebbe però tempo di fare altro perché contrariamente alla volta precedente, il demone lo assalì, spingendolo di nuovo sott’acqua.
Era stato più furbo di quel che poteva immaginare, lo aveva messo in condizione di inferiorità.

Agitò le braccia scompostamente, cercando disperatamente di guadagnare la superficie.

Mentre l'altro continuava a tenergli la testa sott’acqua, senza il minimo sforzo, l’ultimo pensiero vagamente sensato di Marai fu che aveva ben ragione ad odiare gli incontri con gli altri marchesi.
Poi divenne tutto un ammasso indistinto, mentre l’acqua gelata gli riempiva i polmoni e la vista gli si annebbiava.
Percepì solo marginalmente l’allentarsi della presa del demone e due braccia forti che gli circondavano la vita, tirandolo fuori dall’acqua con uno strattone e trascinandolo sulla riva.

Tossì con violenza, annaspando alla ricerca di ossigeno; cercò scompostamente di alzarsi, ma tutto quel che riuscì a fare fu voltarsi su un fianco e vomitare una boccata di acqua e bile continuando a tossire.
Qualcuno gli diede dei colpi decisi sulla schiena, strappandogli un mugolio sofferente. “Fa piano…”, ansimò, non appena i conati si furono calmati.
“Oh, prego eh, non ringraziarmi per averti appena salvato la vita.”
Conosceva quella voce.

Marai aprì un occhio, osservando il viso preoccupato di Takul sopra di lui.
“Ah, sei tu…”, boccheggiò. “Avrei dovuto capirlo dall’odore.”

“No ma tranquillo, continua pure a ringraziarmi", sbuffò Takul. "Comunque, spero non fosse amico tuo", disse, con un cenno del capo.
Marai seguì il suo sguardo; il demone che lo aveva aggredito galleggiava a faccia in giù nella polla d'acqua, con un coltellaccio piantato nella schiena.
Aggrottò la fronte. Doveva aver rimuginato sull’offesa di avergli portato via la sua femmina ogni giorno, in quei mesi, per arrivare ad attaccarlo così.
Quanto ci sarebbe voluto perché i guerrieri iniziassero a fare lo stesso, rimuginando su ogni minima offesa e scannandosi come cani?
"Non ne sentirò la mancanza", sospirò infine, battendo i denti e rendendosi improvvisamente conto del gelo che sentiva.

Passato lo shock il freddo della sera, con i vestiti bagnati, lo stava facendo tremare come una foglia.
Takul fece per prenderlo in braccio. “Veni, ti porto al tuo rifugio.”

Marai, digrignò i denti, scostandolo bruscamente. "Lasciami stare... Ce la faccio da solo", disse, alzandosi e facendo qualche passo malfermo, prima di accasciarsi di nuovo a terra, vomitando altra acqua.
Aveva decisamente sopravvalutato le sue condizioni.

"Vedo", rispose pacato Takul, prendendolo per la vita, sollevandolo e infilandogli l'altro braccio sotto le ginocchia come se fosse una fanciulla, stupendosi di come non pesasse praticamente nulla. "Allora, visto che ti ho salvato, mi merito un premio; voglio che mi mostri dove vivi."

Marai gli lanciò un'occhiata di sbieco, ma era troppo stremato per mettersi a questionare o divincolarsi. Sollevò un braccio, indicandogli una direzione, lasciandolo poi ricadere ed appoggiando la testa contro la spalla dell'altro. "Puzzi come un caprone", sospirò stancamente.

Takul scoppiò a ridere, mettendosi in marcia. "Sei sempre così gentile tu. Ecco perché non hai nemmeno un amico", rispose a tono quella volta.
Iniziava a farci il callo ormai agli insulti dell’altro.

"Potrei dire la stessa cosa del tuo odore, animale", fu la pacata risposta del marchese, che aveva chiuso gli occhi, troppo stanco per poter far altro che abbandonarsi completamente alla prepotenza dell'altro.

Takul ridacchiò, scuotendo la testa. "Stai davvero insultando la persona che ti ha appena salvato la vita?"

"Sto solo dicendo la verità."

"Beh, verità per verità, sei uno stronzo arrogante, antipatico e scostante. E sei pure fradicio, mi stai bagnando i vestiti. Come la mettiamo ora?"

Marai aprì gli occhi, guardandolo vacuo. "Mi è stato detto di peggio", disse pacato. "Per quanto riguarda i tuoi vestiti, una lavata non può fargli altro che bene."

Takul fece per ribattere, ma qualcosa lo bloccò.

Aveva parlato di getto, solo per cercare di farlo tacere, senza pensare realmente a quel che diceva.

E tutto ad un tratto erano arrivati i sensi di colpa.

Sapeva perfettamente che non era certo per il suo carattere che Marai non aveva nessuno. Vedeva benissimo come gli altri demoni lo guardavano, tenendosi alla larga.

Gli altri marchesi ormai avevano imparato a conoscerlo e a superare quella istintiva repulsione inculcata loro fin dall'infanzia, quell'ancestrale vena di superstizione che tutti, chi più chi meno, si portavano dietro e si limitavano a trattato con cortese freddezza.

A parte Ethos.

Ethos non aveva mai fatto mistero della repulsione che provava per lui.

"Di là."

Takul si riscosse da quei pensieri, abbassando lo sguardo. "Come?"

Marai sbuffò piano, sollevando il braccio ed indicando una direzione. "Ho detto, di là."

La direzione indicata dal marchese era un sentiero ripido e stretto, seminascosto  tra le rocce.
“Stai scherzando vero?”
“Assolutamente no.”

Sbuffando e imprecando Takul si inerpicò per il sentiero. "Dimmi che non è in cima alla montagna", mugugnò. "Potrei morire."
"Buono a sapersi."
"Certo che tu e la simpatia proprio..."
Marai non rispose. Socchiuse gli occhi, strofinando si le braccia, iniziava a non sentire più le dita. “Cosa ci facevi lì?”, chiese.

Il moro sospirò, scrollando le spalle. “Ero abbastanza incazzato con te”, ammise. “Non so nemmeno cosa volessi fare, in realtà, forse dirtene quattro, ecco. Quell’uscita davanti a tutti sulla capra in decomposizione potevi anche risparmiartela.”
“Ho solo detto la verità.”
“Tu brutto… senti, fa come ti pare, nulla di quel che dici mi scalfisce.”
Marai scosse piano la testa. “Non si direbbe”, disse, guardandosi intorno per capire dove fossero arrivati.
"Là", disse infine, indicando quella che a prima vista sembrava una crepa nella roccia ma che, guardandola bene, si rivelava abbastanza grande da far passare una persona.
Takul lo guardò, perplesso, avvicinandosi e incuneandosi per passarci in mezzo. Per un attimo temette di rimanerci incastrato, ma sorprendentemente la roccia si allargava dopo nemmeno due passi, lasciando il posto a un'ampia volta di pietra. O meglio, non esattamente una volta; era come se ci fossero tanti spuntoni di roccia, uno accanto all'altro, che si fondevano creando un tetto naturale. Non si congiungevano però al centro, terminando un attimo prima e lasciando un piccolo scorcio del cielo stellato.

"Potresti, cortesemente, mettermi giù prima che soffochi a causa del tuo olezzo?"
La voce di Marai lo riscosse da quello stati contemplativo. "Oh, non sia mai", sbottò, acido, mettendolo giù con malagrazia.
Poi si guardò intorno.
La prima cosa che lo aveva colpito di quel posto era il profumo.
Non profumo nel vero senso della parola, più un odore gradevole di erba e fiori secchi. Lo stesso gradevole effluvio che aveva sempre addosso anche Marai.
Negli angoli erano addossati alcuni canestri intrecciati, fatti di giunchi, pieni di frutta e bacche essiccate. Alcune stuoie, sempre intrecciate, ricoprivano il pavimento, per smorzare la durezza della pietra.
Riportò lo sguardo sul marchese che, seduto su una di esse stava ravvivando la fiamma di un braciere di pietra, gettandovi dei mazzetti di quella che sembrava paglia. Era evidente che stesse morendo di freddo, labbra e dita erano livide, cianotiche quasi.
"Guarda che non va bene quella", suggerì. "Brucia troppo in fretta, tempo mezz'ora e sarai di nuovo al punto di partenza."
Marai gli lanciò un'occhiataccia. "Grazie per avermi illuminato con la tua infinita sapienza", disse sarcastico. "Ma purtroppo non ho altro, non avevo in programma di farmi affogare, sai com è..."

Takul roteò gli occhi. “Dovresti almeno cambiarti, o metterti addosso una coperta.”
“Se hai finito con la fiera dell’ovvio ti farei notare che non ho altri vestiti se non questi che ho addosso.”
“Non hai…?”
“E nel caso te lo stessi chiedendo, vedi forse una coperta?”, aggiunse sarcastico il marchese, avvicinando le mani alla piccola fiamma.
Takul scrollò le spalle. “Ci sono un sacco di altre cose che potresti fare per scaldarti… e senza vestiti addosso”, aggiunse divertito.
Si dovette abbassare di scatto perché Marai gli aveva lanciato una ciotola di legno.
“Vattene, razza di lurido troglodita”, disse, a bassa voce. “Sei esattamente come tutti quelli che vogliono guardare e deridere la bestia rara. Tu vuoi farci sesso, ma solo perché è qualcosa di unico. Una tacca  speciale su un bastone, li conosco quelli come te. Beh sappi che non mi lascerei toccare da te nemmeno sotto tortura, mi fai così ribrezzo e puzzi così tanto da farmi venire il vomito.”
Takul sentì il viso farsi improvvisamente caldo, stava arrossendo per la vergogna di essere stato colto in fallo e per l’umiliazione. “Io… mi dispiace, hai ragione…”, ammise. “Non sono stato onesto ma… ”
“No. Ma, nulla”, fu la secca risposta di Marai. “Senti, fammi un grosso favore e vattene, starò benissimo non appena la tua molesta presenza sarà lontana.”

Takul aggrottò la fronte. “Fa come ti pare…”, mormorò alla fine. Non riusciva davvero a capire per quale motivo lo trattasse con così tanta durezza, era vero, aveva ammesso le sue intenzioni poco oneste, ma la sua offerta di aiutarlo era sincera.
Si voltò, raggiungendo l’apertura da cui era entrato ed andandosene, senza voltarsi indietro.

Finalmente solo Marai si rannicchiò sulla stuoia, avvicinandosi più possibile al braciere. Nascose il viso tra le braccia, soffocando un singhiozzo stremato. Sperava che l’alba giungesse presto, stava davvero congelando…
Era passata forse un’ora quando un notevole trambusto lo costrinse ad aprire gli occhi. Sentiva le palpebre pesanti e dolenti, quasi fossero foderate di sabbia.
C’era solo una persona che conosceva il suo rifugio.

"Non ci credo", mormorò voltandosi verso l’entrata. "Sei ancora qui?!"
Takul si strinse nelle spalle, appoggiando un sacco di tela sul pavimento. "Ti ho portato della legna e qualcosa da mangiare", disse, ignorando le parole dell'altro. "E una coperta", aggiunse, gettandogli vicino una pelliccia, di qualche bestia ignota, arrotolata su sé stessa. "E... Mi sono fatto un bagno", mugugnò. “Così la mia vicinanza non ti farà venire i conati di vomito, come hai gentilmente detto prima.”
Marai sollevò lo sguardo, vagamente sorpreso. Effettivamente i ricci scuri di Takul erano bagnati. Li aveva raccolti in una piccola coda alla base della nuca. Il suo odore era vagamente sopportabile, in quel momento.

"Perché?", fu l'unica cosa che riuscì a chiedere, afferrando la coperta. Lo aveva allontanato e coperto di insulti come faceva con tutti, eppure lui continuava con una pazienza infinita a cercare di essere gentile.
Takul si strinse nelle spalle, prendendo alcuni ciocchi di legna e gettandoli nel fuoco. "Perché sei uno stronzo", disse infine. “Io invece sono molto paziente, ma sono anche vendicativo,

per tua sfortuna. Quindi, visto che sono vendicativo e che per te è così fastidioso avermi attorno, ti starò attaccato al culo per pareggiare tutti gli insulti che mi sono beccato da, ma visto che sono anche buono e paziente, lo farò aiutandoti."
Marai inarcò un sopracciglio, scuotendo poi la testa e slacciando i bottoni della camicia, ancora fradicia. "Come ti pare… ora però voltati", disse.
A malincuore Takul ubbidì, concentrandosi sulla carne. Aveva preso un bel cinghiale giusto quella mattina, quindi il marchesino raffinato non avrebbe potuto nemmeno lamentarsi che non fosse fresca. Sfilò il suo coltello da caccia, tagliandolo a pezzetti ed infilzandoli su uno spiedo rudimentale, mettendolo sul fuoco per cuocerla.
Azzardò poi a lanciare uno sguardo all'altro, che si era seduto di nuovo sulla stuoia, avvolto nella  pelliccia che gli aveva portato. Aveva ripreso visibilmente colore.
Accennò un sorriso, era vero che di stronzi come lui non ne aveva mai incontrati, ma era anche vero che a volte riusciva a vedere oltre quell'atteggiamento indisponente.

E ciò che vedeva gli sembrava estremamente fragile.

Nonostante cercasse in tutti i modi di cacciarlo, l'unica cosa che il delicato marchese riusciva a fare era soltanto risvegliare in lui un violento istinto di protezione.
Gli porse lo spiedo con la carne, non appena fu cotto.

"Che c'è?", chiese esasperato quando lo vide arricciare il naso. "È buona, ed è fresca, che diamine c'è che ti disturba ora?"
Marai sospirò, stringendosi nella pelliccia. "Il coltello che hai usato per tagliarla è lo stesso che stava conficcato nella schiena di quel tizio alla cascata, vero?"
Ci fu un attimo di assoluto silenzio.

"L'ho lavato, giuro", uggiolò infine Takul, maledicendosi. "Non ci ho pensato, scusami io..."
"Non importa."
"... Come?"
Marai roteò gli occhi, prendendo lo spiedo con delicatezza. "Ho detto che non importa, è evidente che l'acqua fredda con cui ti sei lavato abbia notevolmente ristretto la sede in cui è locato il tuo cervello, quindi non posso nemmeno prendermela troppo."
Ci fu un nuovo attimo di silenzio.
"Era un insulto, vero?"
Le labbra di Marai ebbero un lieve guizzo, l'impercettibile incurvarsi di un sorriso. "Scoprirlo da solo", disse morbidamente, addentando la carne.

Ah, poco importava da dove arrivasse, era un sacco di tempo che non mangiava qualcosa di sostanzioso, essendo assai poco propenso ad avere a che fare con la caccia e i cadaveri.
Takul lo guardò in silenzio; quello era un sorriso.

Lieve, impercettibile, ma era stato indubbiamente un sorriso.

Ed era stato bellissimo.
Marai stesso era di una bellezza rara; se si riusciva a guardare oltre le asprezze della sua anomalia ci si rendeva conto che era una creatura davvero bella.
Rimase in silenzio, mentre l'altro finiva di mangiare e, sempre avvolto nella coperta si rannicchiava sulla stuoia, chiudendo gli occhi, stremato.
Forse era il caso di andare, si disse, lanciando un'ultima occhiata a Marai che nel giro di pochi secondi si era addormentato profondamente.

Tentennò un attimo, solo un secondo.
Il marchese era nudo, sotto quella coperta.

Per un attimo solo fu tentato di sollevarla e dare una sbirciatina lì sotto.

Poi scosse la testa.
No, se voleva dimostrare di essere migliore di quel che Marai aveva insinuato, allora doveva cominciare a dimostrargli che poteva fidarsi di lui.
Gli lasciò il sacco con il cibo e la legna, ravvivando il fuoco prima di andarsene.

 

✖   ✖   ✖   ✖   ✖

 

Takul si rigirò il coltello tra le dita, raschiando il fondo dell pelliccia su cui stava lavorando da quasi tre ore.

Si alzò, allontanandosi per controllare se ci fossero punti da ritoccare.

Era passata quasi una settimana -non era certo dello scorrere del tempo da quando erano rinchiusi lì- ormai, da quando aveva tirato Marai fuori da quella pozza d'acqua.

Lo stringerlo e il sentirlo tremare contro il suo petto aveva risvegliato una sensazione strana, una sorta di possessività mista ad un insano senso di protezione.

Voleva davvero essergli quantomeno amico, se proprio non c'era speranza di soddisfare quella voglia più profonda e animalesca che gli scatenava, ma sapeva di doverci andare con i piedi di piombo.

Per quello si era limitato a gironzolare nei dintorni del suo rifugio, senza avvicinarsi o farsi vedere, per controllare come stava senza però assillarlo...

Stava per rimettersi al lavoro quando un lieve bussare lo distrasse. All'entrata di quella specie di recinto a cielo aperto che era il suo rifugio stava Marai.

Per un attimo pensò di avere un'allucinazione.

"Ehi...", disse, sorpreso. "Cosa ci fai qui?"

Il marchese scrollò le spalle, accennando al fagotto che aveva tra le braccia. "Ti ho riportato la coperta", disse in tono neutro.

Takul sembrava aver seri problemi ad articolare frasi di senso compiuto, ma del resto non si aspettava di vederlo tanto presto. "Non dovevi", disse. "Cioè non era necessario. Era un regalo."

"Un regalo?"

"Sì, un regalo, guarda, ne ho talmente tante..."

Marai si guardò intorno, effettivamente c'erano pelli in abbondanza negli angoli di quella sottospecie di recinto il cui unico spazio coperto era sopra un cumulo di pellicce su cui l"altro problailmente dormiva. "Ah...", disse solamente.

Ci fu un lungo istante di silenzio.

"Allora è meglio che vada...", sospirò, voltandosi.

"No, no, aspetta!", esclamò Takul, forse con un po' troppa veemenza. Se lo avesse lasciato andare aveva il sospetto che si sarebbe bruciato la sua unica possibilità di avvicinarlo. "Resta, per favore!", esclamò, rovistando tra le pellicce e tirando fuori quella che gli sembrava più pulita, stendendola sul terreno. "Ecco, siediti pure."

Marai guardò prima lui, poi la coperta. "Perché?", chiese. Non capiva il motivo per cui l'altro gli stesse chiedendo di rimanere.

Takul si grattò la nuca. "Non lo so, mi farebbe piacere un po' di compagnia."

"Un po' di compagnia...?"

"La tua, compagnia."

Marai sbatté le palpebre, colto alla sprovvista. "Se lo dici tu...", disse, scuotendo la testa e accontentandolo, andando a sedersi sulla pelliccia, incrociando le gambe e guardando l'altro come a voler dire. E adesso?

Takul non era mai stato timido, ma con lui... andava nel panico!

Con un sospiro andò a prendere una specie di rotolo di cuoio, che conteneva una serie di coltelli più fini, per terminare quel che stava facendo.

"Sai", disse infine, per spezzare il silenzio. "Io non ce la farei a vivere come fai tu", ammise. "Sempre solo, sempre al chiuso..."

Marai lo osservò, senza rispondere. Lasciò correre lo sguardo sulla palizzata che li circondava, che si interrompeva in una apertura senza la minima porta o chiusura. "Tu non sei cresciuto come me", disse infine. "Non hai vissuto la mia vita e soprattutto non ti porti dietro la consapevolezza che buona parte della gente che incontri vorrebbe darti fuoco ma non lo fa solo perché sei figlio dello zio del sovrano", era un dolore quasi fisico pronunciare quelle parole, tuttavia la sua voce rimase piatta, tranquilla, come se stesse parlando del tempo. Era diventato bravo ormai a nascondere a tutti, spesso persino a sé stesso, quel che provava.

Takul aveva sollevato la testa per guardarlo.

Quelle parole, per quanto pacate, gli avevano fatto l'effetto di un pugno nello stomaco. Continuava a dimenticarlo, a dare per scontato che l'altro fosse solamente stronzo perché aveva un pessimo carattere. Dimenticava che la sua infanzia non doveva essere stata idilliaca, al contrario di lui, cresciuto sì con un padre che era un gran bastardo, ma comunque tra gli agi del palazzo, in quanto il suo posto tra i marchesi già dovuto. "Mi dispiace", mormorò, rimettendosi al lavoro. “Sono stato indelicato."

"Come sempre", fu la pacata risposta di Marai, che si allungò per prendere uno dei coltelli. "Posso?", chiese.

Takul inarcò un sopracciglio. "Se non lo devi usare per cavarmi gli occhi prendilo pure", disse infine. Seguì i suoi movimenti mentre sceglieva la lama e si alzava, per andare a prendere un ciocco di legno dalla catasta, prima di tornare a sedersi. "Non pensavo lavorassi il legno, con quelle mani così fini", disse, quasi divertito.

"Non lo faccio spesso", fu la sintetica risposta di Marai. "Ma non c'è altro da fare qui e a me non piace stare senza fare nulla. Almeno se lavoro riesco a non fare caso all’fetore di questo posto."

Fu l'inizio di una giornata alquanto strana.

Alla fine Takul aveva smesso di lavorare e aveva messo ad arrostire della carne. Ogni tanto azzardava un inizio di conversazione, nonostante venissero tutti costantemente spenti dalla freddezza con cui l'altro rispondeva.

"Ho finito", disse ad un tratto Marai, porgendo a Takul una ciotola di legno.

Il moro la prese, sorpreso. "Per me?"

"Esatto, così siamo pari per la coperta."

"... Ti ho detto che era un regalo, non dovevi darmi qualcosa in cambio."

Marai scosse la testa, risoluto. "Non mi piace avere debiti con nessuno, quindi prendila e sta zitto", disse, alzandosi e spolverandosi i vestiti dai trucioli.

Takul la prese, sospirando. Era fatta sorprendentemente bene, pensò, passando il dito sul bordo levigato. Non ci avrebbe scommesso nulla, e invece i marchesino ci sapeva fare. Chissà quali doti nascoste aveva.
“Stai andando?”, chiese, vedendolo prendere la coperta che aveva riportato.

“Sì, credimi, ho un limite di sopportazione e questo posto puzza come una stalla”, fu la fredda risposta di Marai, mentre si spolverava la camicia del più piccolo granello di sabbia di quel posto.
Takul roteò gli occhi, poi prese la pelle che aveva appena finito di conciare e la infilò in una sacca, porgendogliela. “Tieni”, disse, divertito dal suo sguardo perplesso. “Quei vestiti non dureranno ancora a lungo, ti servirà.”
Marai lo guardò, in modo quasi inquietante. “Così sarei di nuovo in debito”, disse, caustico.
“Lo so”, rispose il moro con un gran sorriso. “Così ti sentirai in dovere di tornare, domani.”
Dopo un attimo di riflessione il marchese allungò una mano, afferrando la sacca ed infilandoci anche la coperta che aveva sotto braccio, poi si voltò, allontanandosi. “Io non credo tu abbia ben chiaro su che terreno ti stai inoltrando.”
“Forse invece l’ho chiarissimo.”
“Io non credo.”
“Dammi una possibilità”.
Il marchese sospirò. “Secondo te perché sarei qui, se non avessi deciso di dartela?”
Takul rimase per un attimo interdetto. Non se lo aspettava. “Allora… resta a mangiare”, esclamò, anche se già conosceva la risposta.

Forse aveva osato troppo.
Marai gli lanciò un’occhiata da sopra una spalla.
Per un lungo istante non rispose.
“Magari domani”, disse infine, allontanandosi.
Takul accennò un sorriso. “Cercherò di dare una ripulita a questo posto, allora!”, esclamò, ridendo sommessamente e tornando al suo cibo...

 

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“Sei ancora arrabbiato?”
Marai sollevò la testa da quel che stava facendo. “Secondo te?”, commentò, in tono neutro. “Non fare domande di cui conosci già la risposta.”
Takul sbuffò, tornando a spaccare legna. “Secondo il mio modesto parare non ho fatto nulla di male”, mugugnò.

Anche se, effettivamente, forse qualcosina aveva fatto.
Era passato un anno ormai, da quando Marai, che teneva conto del tempo con straordinaria precisione, aveva preso l’abitudine di venire da lui. Aveva tracciato confini ben precisi però, e posto condizioni molto restrittive. Veniva a trovarlo due volte a settimana, senza mai sgarrare, e si fermava per quasi tutto il giorno, e poi tornava al suo rifugio. Rifugio che gli era precluso.
Non doveva andare a importunarlo per nessun motivo e non doveva assillarlo.
O così, o saltavano gli accordi, era stato tassativo.
Per quanto a volte gli sembrassero assurdi, Takul aveva deciso di rispettarli. Un po’ perché gli sarebbe mancata l’acida compagnia dell’altro e un po’ perché ormai lo vedeva più spontaneo e, oltre agli insulti, riusciva a parlarci normalmente. Si era rivelato un compagno sorprendentemente piacevole, quando non era impegnato a criticare qualcosa.

“Senti”, sbuffò. “Non mi va giù che Ethos ti parli a quel modo. Gli ho solo dato un pugno in faccia, che sarà mai?”

Marai sospirò, alzando gli occhi dal suo lavoro. “Prima però non lo hai mai fatto”, rispose, acido. “E poi non hai visto la faccia di Beltane, caprone che non sei altro?”, sbuffò esasperato. “Quella poveretta sta cercando di far filare tutto liscio da quasi due anni, nonostante la metaforica sberla che le ha dato Alasser abbandonandoci tutti, una rissa durante le riunioni è l’ultima cosa di cui ha bisogno.”
Takul fece una smorfia. Effettivamente era vero, di tutti loro Beltane era quella che ci soffriva di più. “Scusa”, borbottò.
“Non è solo a me che dovresti farle.”
“Le farò anche a lei… Ma comunque non trovo giusto che tu mi stia ancora tenendo il muso per esserti venuto a cercare.”
Marai socchiuse gli occhi. “Ah no? Le regole erano chiare”, disse, tornando a raschiare l’osso che aveva in mano con una lama. “Il mio rifugiò è sacro, non voglio che degli orsi in preda al panico vengano a disturbare la mia quiete.”
“Ma dovevi venire da me quel giorno, Marai! Quando non ti ho visto o avuto paura che ti fosse successo qualcosa!”
“E il sospetto che fosse per il casino che hai combinato all’incontro non ti ha sfiorato, vero?”
“Avresti dovuto dirmelo…”, sbuffò Takul, calando l’ascia su un ciocco di legno con rabbia.
Quello era il primo giorno, dopo due mesi, che l’altro si faceva vedere. L’aveva punito severamente per quell’invasione di territorio. “Sul serio, se non vuoi venire, non farlo, ma dimmelo. Dimmi Takul, sei un fottutissimo caprone imbecille e per questo passerai le prossime due settimane in solitudine a riflettere sulle abnormi cagate che hai fatto!, lo accetterò e non mi metterò a piangere, giuro.”

Avvertì un piccolo sbuffo, a metà tra un ansito ed un singhiozzo lievissimo. Non poté fare a meno di sorridere, voltandosi ad osservare Marai, che si era appoggiato le dita alle labbra, scuotendo la testa.

Non rideva, non lo aveva mai sentito ridere, Ma quel suono che trovava adorabile era la cosa che più ci si avvicinava. E per quanto ne sapeva, lui era l’unico fortunato ad averlo mai sentito. “Oh, allora non sei poi così arrabbiato”, esclamò, lasciando l’accetta e raggiungendolo, sedendosi sulla pelliccia accanto a lui.
Marai arricciò il naso. “No… Ma questo non giustifica il tuo avvicinarti con questa zaffata di sudore che ti porti dietro”, disse, sarcastico. Poi allungò una mano per mostrargli quello a cui aveva lavorato. “Guarda”, disse.
Takul inarcò un sopracciglio, prendendolo con cautela. “Che cos’è?”

“Un bottone.”
“Un… a che servono i bottoni? Ci vestiamo di pelliccia, cuci assieme quattro pezze e siamo a posto!”
Marai roteò gli occhi, riponendolo in una scatola di legno in cui conservava anche un lungo ago d’osso, a cui aveva lavorato per settimane. “Quando tu andrai in giro vestito come Ethos con un gonnellino dal quale spuntano entrambi i testicoli ad ogni minimo movimento, e io avrò dei vestiti degni di tale nome, ne riparleremo.”

Takul ridacchiò divertito, scuotendo la testa e dandogli un bacio a tradimento sul capo. “Va bene, verrò a chiederti la carità allora”, disse, ignorando le proteste dell’altro sul fatto che avrebbe dovuto lavarsi i capelli.
Poi ad un tratto avvertì un rumore.
Il rumori di passi che correvano nella loro direzione ed un respiro ansante e spezzato che purtroppo conosceva bene. “Ancora…”, disse, amaramente, alzandosi e andando ad affacciarsi all’entrata del suo rifugio, giusto in tempo per prendere al volo un ragazzo, che si era catapultato dentro. “Ehi, ehi… tranquillo”, mormorò, facendo sedere il giovane, che singhiozzava con violenza, il viso nascosto tra le mani.
“Che sta succedendo?”
Takul si voltò verso Marai, che si era alzato, guardando entrambi, teso. Imprecò mentalmente, sapeva che al marchese non piacevano le novità. “Penso che tu conosca Ahuriel…”, sospirò.
“Il princi…?”
“Lui.”
Marai lo guardò con aria critica. Sì, aveva addosso dei vestiti che per quanto logori erano di ottima fattura, come i suoi. Ma per il resto era scarmigliato, impolverato. I lunghi ricci castani un groviglio di nodi. “Lui sarebbe il motivo…?”, si morse il labbro inferiore, trattenendo le parole che istintivamente gli erano salite in gola.
Quello era il motivo per cui lui era un semplice marchese e non uno dei principi dell’apocalisse.

Quando il precedente signore della guerra era morto in battaglia c’era lui, per quanto non riconosciuto da suo padre, come ultimo discendente dei reali. E invece la quarta moglie del re aveva dato alla luce il figlio del sovrano e tutte le sue speranze erano sfumate per colpa di un bambino.

Si passò una mano sul viso. “E cosa ci fa qui?”, chiese.
Takul lo aveva guardato, serio.

Sospettava cosa gli stesse passando per la testa. “Guarda”, disse soltanto, avvicinandosi al ragazzo ed afferrandogli i polsi, forzandolo ad abbassare le mani.

Ahuriel si arrese, lasciandoglielo fare e tenendo lo sguardo basso. Aveva un occhio talmente tumefatto da faticare a tenerlo aperto, le labbra spaccate in più punti e graffi da sfregamento su tutto il viso.
Marai aggrottò la fronte, avvicinandosi e piegando le ginocchia, allungando una mano per spostare i ricci castani dell’altro. La metà del viso nascosta da essi era anche peggio. “Chi è stato?”, chiese lugubre.

Per quando avesse aspirato a diventare uno dei reali, doveva a tutti loro rispetto e devozione. Persino a quel ragazzo.
Takul si passò una mano tra i capelli. “Suo fratello, Tamriel.”
Ahuriel riprese a singhiozzare piano, balbettando qualcosa sul fatto che non aveva idea di cosa avesse fatto stavolta.
“Tu non hai fatto un cazzo! E’ quello che è un fottuto stronzo manesco e frustrato che si sfoga su di tè solo perché non puoi reagire, ecco cosa!”, sbottò il moro, irritato, riuscendo solo a farlo piangere più forte.

Marai serrò le labbra, sospirando. “Fa una cosa utile”, sbuffò. “Vai a prendere dell’acqua, muoviti”, ordinò, tornando poi a guardare il giovane. Non faceva poi una bella vita nemmeno lui, a quanto sembrava.
Takul non si azzardò a ribattere, ubbidendo e portando tutto quello che il marchese gli chiedeva man mano, poi rimase ad osservarlo, mentre con movimenti delicati e precisi dava una ripulita a quel poveretto, medicandolo molto meglio di quanto avrebbe potuto fare lui.
Era… sorpreso.
Si era aspettato quantomeno una protesta. Era pronto persino ad affrontare il fatto che Marai avrebbe potuto levare le tende.
E invece…

“Sai”, gli disse, quando ebbe finito. “Non pensavo.. Insomma, non prenderla a male”, mise le mani avanti, osservando Ahuriel che, stremato, si era addormentato su una delle pellicce. “Insomma, con lui, pensavo gli portassi…”
“Rancore?”, gli venne in aiuto Marai, in tono neutro. “No. Sarebbe stupido. Non ha certo deciso lui di nascere, o di farlo nella famiglia reale”, sospirò. “Non sono una persona così meschina.”
“No, no, assolutamente”, si affrettò a dargli ragione il moro. “Non intendevo quello, sai che faccio sempre casino quando cerco di esprimere un concetto.”
“Tristemente vero.”
“Scusami.”
Marai scrollò le spalle. “Non fa nulla”, sospirò. “Succede spesso?”, chiese poi, accennando ad Ahuriel.
“Abbastanza”, commentò asciutto Takul. “All’inizio era peggio. Ora sembra essersi calmato. Quasi”, borbottò rabbioso. “Conosco Ahuriel da quando era un bambino, praticamente. E’... è la dolcezza fatta persona, mi fa venire una gran voglia di scalare la montagna e spaccargli il muso a quell’animale!”, ringhiò.

Marai non rispose, si limitò ad osservarlo.
Per la prima volta avvertì un improvviso senso di protezione. Nonostante avesse sgridato Takul per aver preso a pugni Ethos, ripensarci gli dava una bella sensazione.
Era così, protettivo verso le persone a cui teneva.
Aveva improvvisamente realizzato di farne parte...

 

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Agitazione.

Irrequietezza.

Sdraiato su una delle pellicce che gli aveva regalato Takul, Marai fissava lo scorcio di cielo che si vedeva tra le rocce, cercando di dare un nome a quella smania che lo perseguitava.

Era cominciato tutto la sera prima, all'ultima riunione.

Takul aveva fatto tanto rumore per nulla, come al solito, e si era beccato una ramanzina con i fiocchi.

Quello era uno dei giorni in cui sarebbe dovuto andare da lui, ma dopo la riunione gli aveva detto di scordarsi di vederlo per le due settimane successive.

Nulla di strano.

Se non fosse stato per il fatto che quella volta era lui a trovare snervante quell'attesa.

Voleva andare da Takul, voleva sedersi e lavorare a cose che l'altro reputava inutili, lamentarsi del suo odore e fare velate illazioni sulla sua scarsa intelligenza.

Diamine, pensò infine.

Era lui a decidere lì.

Si alzò, raccogliendo i capelli in una coda e uscendo.

La strada per raggiungere il rifugio di Takul non era poi così lunga, per qualcuno svelto come lui, non ci volle molto a raggiungere la zona della foresta in cui l'altro si era accampato.

Non riusciva a pensare ad altro che alla reazione che avrebbe avuto l'altro nel trovarselo davanti.

Sperava in un'espressione di piacevole sorpresa.

Non lo avrebbe mai ammesso nemmeno sotto tortura, ma amava vederlo sorridere.

Così come amava il modo in cui lo guardava.

Era quasi tentato di affrettare ancora il passo, ma non voleva arrivare trafelato.

Voleva dare l'impressione di essere lì solo per fargli un favore.

Era a pochi passi dalla palizzata, quando un gemito interruppe i suoi pensieri.

Si fermò di colpo colto alla sprovvista.

Cosa...?

Un secondo mugolio, seguito da un inequivocabile ansito, ruppe il silenzio del bosco.

Lentamente Marai si avvicinò ai tronchi, appoggiandovi il viso e guardando all'interno da una delle fessure tra essi.

Takul non era solo, come aveva sperato fino all'ultimo -diamine quanto ci aveva sperato che si stesse dando da fare in solitaria- , ma c'era Ahuriel con lui, impegnato in un minuzioso lavoro di suzione.

Va via.

C'era una voce, nella sua testa, che gli stava urlando di andarsene.

Va via! Perché sei ancora qua?!

Ma non ci riusciva, era come se le sua gambe avessero deciso di mettere radici lì.

Seguì il movimento della mano di Takul, che con delicatezza si infilava tra i ricci castani del giovane, stringendoli e tirandoli dolcemente per fargli sollevare il viso, prendendoglielo con entrambe le mani e baciandolo rudemente.

Fu quello a far scattare qualcosa.

O a romperlo.

Lentamente arretrò fino a sbattere con la schiena contro uno degli alberi, poi si voltò, correndo via senza fermarsi finché non fu di nuovo solo, nell'accogliente sicurezza del suo rifugio.

Una piacevole sorpresa.

Beh, la sorpresa l'aveva avuta lui, ma non era stata piacevole.

Ecco perché voleva essere avvisato; altro che preoccupazione! Non sia mai che perdesse l'occasione di scoparsi qualcuno...

Faceva male.

Non riusciva a trovare la forza di reagire o di farsi scivolare tutto addosso come faceva sempre. Si sdraiò sulla pelliccia che gli faceva da giaciglio, stringendola tra le dita.

Perché, per quale motivo si era illuso di poter davvero, per una volta, contare qualcosa per qualcuno?

Si morse il labbro inferiore, soffocando un singhiozzo. Era stato un suo errore, si era illuso, e in quel momento soffriva come un cane per quello.

Che gli servisse da lezione.

Mentre le lacrime, che mai per nessuno aveva versato, inzuppavano la pelliccia scura, si ripromise di non cascarci più.

Takul aveva giocato con lui, gli aveva fatto credere di essere importante.

Non sarebbe più successo...

 

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Due nuovi nati.

Di cui una femmina.

Dopo aver passato tre settimane a cercare inutilmente di riemergere dallo stato catatonico in cui era, Marai aveva deciso di andare a controllare come se la cavava la sua tribù.

Quella notizia gli aveva aperto uno spiraglio di luce.

Mentre le altre tribù diminuivano di numero, la sua prosperava.

Iniziava a vedere quella prigionia come una vera benedizione...

Rientrando nel suo rifugio andò a sbattere contro qualcuno che invece stava uscendo.

"Marai! Allora stai bene!"

Il marchese si irrigidì, sollevando lo sguardo. "Mi sembrava di averti detto che non ti volevo vedere qua attorno", disse, aggirando l’intruso ed entrando.

Takul sospirò, seguendolo. "Lo so, ma avevi anche detto due settimane, ne sono passate tre, ero preoccupato",

"Oh, certo", rispose sarcastico Marai. "Beh, come vedi sto benissimo. Vattene."

Il moro restò a fissarlo, sorpreso.

Quella era l'ostilità dei primi tempi, che cosa aveva fatto per far regredire a quel modo il loro rapporto tutto ad un tratto?

“Ehi… che cosa ti prende?”, chiese, prendendolo per un braccio per costringerlo a voltarsi.

"Non mi toccare, lurido maiale schifoso!", sibilò Marai, liberandosi con uno strattone. "Non sto scherzando. Vattene!"

"Perché?"

"Perché questa è casa mia! Se ti dico di andartene tu lo fai. Punto!"

Takul aggrottò la fronte.

Lurido maiale.

Tante gliene aveva dette l'altro, caprone, troglodita... Ma mai era arrivato ad un simile livello di cattiveria.

"Certo che stronzo eri e stronzo sei rimasto", commentò caustico.

"Senti chi ha parlato", sbottò Marai in risposta. "Dovresti essere contento, avrai tutto il tempo che vuoi per fartelo succhiare dal principino, perché non metterò più piede in quel porcile schifoso per il resto della mia vita!"

Un attimo di assoluto silenzio seguì le sue parole, rotto solo dal suo respiro affannoso.

Takul era rimasto spiazzato. "Sai di Ahuriel?"

"Certo lo so."

"Quando?", lo incalzò. "Quando sei venuto?"

Marai si morse con forza l'interno della guancia. "Il giorno dopo la riunione."

"Avevi detto che non saresti passato."

"Ho cambiato idea. È proibito?!"

Takul socchiuse gli occhi. "Quindi questa è una scenata di gelosia?", chiese.

Non ricevette risposta.

"Rispondimi, Marai!", ripeté rabbioso, alzando la voce. "Mi stai facendo una fottuta scenata di gelosia?!"

Digrignò i denti, quando l'altro per tutta risposta gli voltò le spalle.

"Ti avverto, Marai, la mia pazienza è tanta, ma tu sei riuscito ad esaurirla. Se non la smetti di fare lo stronzo e non parli chiaro giuro che ti prendo a schiaffi."

Il marchese si voltò, squadrandolo da capo a piedi. "Se sai risolvere i problemi solo con la violenza è un problema tuo, troglodita, non mio. Non..."

Non riuscì a terminare la frase perché, insospettabilmente, Takul mantenne fede alle sue minacce, mollandogli un violento manrovescio. "Vuoi provare a rispondere di nuovo?”, ringhiò.

Marai serrò le labbra con forza, massaggiandosi la guancia colpita. "Ti rigiro la domanda, vuoi continuare a picchiarmi finché non sentirai la risposta che vuoi sentire per gonfiare ulteriormente il tuo già smisurato ego?"

Rimasero a guardarsi, come due tigri, finchè Takul non scosse la testa. “Lascia stare, non serve che mi rispondi”, disse. “Perché la risposta è evidente. Sei geloso, sei maledettamente geloso, è questa cosa è morbosamente malata. Hai messo una serie di picchetti e di restrizioni assurdi, non fai che lamentarti del mio odore, ti allontani se mi avvicino, non posso nemmeno sfiorarti senza che tu ti metta a menarla sul fatto di doverti fare un bagno al più presto, quindi è evidente che non vuoi in alcun modo approfondire la nostra relazione, e mi sta bene!”, sbraitò. “Ma che ora te ne salti fuori con queste assurde scenate… no! Non so quale malata mania di controllo tu abbia, ma io ho dei bisogni fisici abbastanza frequenti e…”, si fermò, stremato dall’impassibilità dell’altro. Non aveva mosso un muscolo durante tutta la sua sfuriata.

"Sai una cosa? Ne ho abbastanza! Io speravo davvero di... di... non so nemmeno io di che cosa",  si arrese infine. "Ma con un... un vegetale senza emozioni è evidentemente impossibile avere un rapporto sano", sbottò. “Restatene qui, in questo buco, a marcire da solo, non voglio più avere nulla a che fare con te!”, esclamò, voltandogli le spalle e facendo per andarsene. Non era mai stato così meschino, ma la sua pazienza non era infinita e l’altro ne aveva decisamente abusato.

Aveva fatto però solo due passi quando un lieve singhiozzo lo spinse a fermarsi e a voltarsi di nuovo.

Marai si portò una mano alle labbra, cercando di calmarne il tremito e di soffocare quel suono, inutilmente.
Di nuovo, era andato tutto in pezzi.

Non voleva che l’altro se ne andasse.

Non così…
"Forse hai ragione, su gran parte delle cose che hai detto. Ma sai... il fatto che non mostri quel che provo non significa che sia incapace di provarlo", mormorò infine con un filo di voce. "Non vuol dire che non amassi il tempo che passavo con te... non vuol dire che non provi rabbia o frustrazione. Non vuol dire che non stia soffrendo ora..."

Takul aggrottò la fronte, cercando quello sguardo che sfuggiva al suo.

Di nuovo quella morsa all'altezza del petto, quell'insano senso di protezione.

Ah, affanculo tutto!

Lo raggiunse, spingendolo contro alla parete di roccia, prendendogli il viso con una mano e baciandolo rudemente.

Ignorò il singulto del marchese ed il debole tentativo di spingerlo via. Che non provasse a fermarlo, dopo avergli dato la conferma che non era solo lui a volerlo.

Marai voltò il viso di scatto, cercando di liberarsi. “Asp… Aspetta…”, mormorò. “Non…”
“Non dire di no, che lo sento che lo vuoi anche tu…”
“Nh… aspetta… ti prego…”
A quelle parole Takul lo lasciò, allontanandosi di scatto.

Ti prego.

Non erano parole che si sarebbe aspettato di sentir pronunciare da Marai, sicuramente non con quel tono.
Lo guardò, preoccupato. “Perché?”, chiese. Non riusciva più a capire, lo confondeva. “Ascolta, dimmi, qual’è il tuo problema? Mi hai mentito e non è vero che non puoi fare sesso?”
“No, non mentivo…”
“Cosa allora? Sei una donna? Perché mi andrebbe bene se lo fossi, non sarebbe un problema.”
Marai lo guardò, serio. “Una donna?”, chiese. “Sul serio, hai il sospetto che sia una donna?”

Takul deglutì, grattandosi la nuca. “Non… no… era per dire”, sbuffò. “Marai...ascolta bene...", sospirò infine. Gli afferrò la mano, facendogliela appoggiare sul proprio inguine e tenendocela sopra, ignorando le sue flebili proteste. "Questo è il maledetto effetto che mi fai, quindi o mi dai una più che valida ragione per andare a farmi una sega in solitudine, o per il cielo e la terra, scopiamo come se non ci fosse un domani", sbuffò, lasciandolo andare.

Marai voltò lo sguardo. “Una buona ragione…”, mormorò, stringendosi le braccia. “Va bene, ti do la mia buona ragione…”, si arrese infine.

“Sai la mia storia, sai che  quando nacqui l’allora principe della guerra disse chiaramente che lui non poteva in alcun modo aver generato un simile… aspetta, credo che scherzo della natura fossero le sue esatte parole. Così si liberò di me e di mia madre, relegandoci a vivere in città, lontani dal palazzo. E alla fine non era nemmeno tanto male. Sono nato in un periodo in cui ancora le cose andavano abbastanza bene, sembravamo sul punto di vincere la guerra. A parte mia nonna che rinfacciava a mia madre di non avermi affogato quando poteva e lei che continuava a ribattere che un giorno le sarei tornato utile per tornare agli agi del palazzo, non me la passavo male.”

Riprese fiato. Non era abituato a parlare così tanto, era stancante. “Poi un giorno, così, senza nulla che lo lasciasse presagire, mentre camminavo per andare non ricordo dove mi trovai davanti un demone, un guerriero. Era cominciato da poco uno di quei periodi di calma tra una battaglia e l’altra. Una bonaccia…
Questo guerriero, lo avevo visto già altre volte in giro, non ci feci caso, pensai di passare oltre, ma lui non era della stessa idea perché… beh, lui e i suoi due amici erano lì per guardare la bestia rara, la chimera”, disse, con un filo di amarezza nella voce. “E non si sono accontentati di guardarla”, aggiunse, lugubre, senza più aggiungere altro.

Takul lo aveva ascoltato in silenzio. Strinse di scatto i pugni quando il marchese improvvisamente tacque. "E... ti hanno...?"

"Secondo te?", lo interruppe Marai, senza inflessione alcuna nel tono. "Sono agile. Sono veloce. Ma quanto a forza...", sospirò, scuotendo la testa. Era la seconda persona a cui lo raccontava, in tutta la sua vita. Forse avrebbe dovuto dirglielo prima, pensò, si sarebbe risparmiato un sacco di malintesi probabilmente.

Takul prese a camminare avanti e indietro, cime una tigre in gabbia. “Forse ti devo delle scuse”, ammise infine.”Ho dato per scontate troppe cose io…”, esitò, consapevole di stare per fare una domanda abbastanza delicate. “Insomma… quindi non hai più fatto sesso da allora?”
Marai inarcò un sopracciglio. “Sesso?”, chiese, sarcastico. “Stolto”, disse stancamente. “Non è il sesso. Non è mai stato il sesso il problema. Come pensi che avrebbe fatto, altrimenti, uno come me, ad occupare un posto tanto in alto se non cercando appoggio tra la gente che contava, in cambio di favori?”, ammise, accennando un vago sorriso nel vedere l’altro strabuzzare gli occhi. “No…”, riprese. “Il problema è l’odore. L’odore di quei tre che mi sono sentito addosso per mesi. Puzzavano di alcol, di sudore, di terra e bestiame…”, serrò le labbra con forza, scuotendo la testa. “E’ un odore che sento ovunque, da quando siamo rinchiusi qua dentro, e mi fa impazzire. Non è il sesso e non sei tu…”, mormorò. “Ma quando mi stai vicino, se solo chiudo gli occhi, è come essere di nuovo in quel vicolo…. e non riesco a sopportarlo.”

Takul aprì la bocca, per dire qualcosa, ma la richiuse un attimo dopo. Non c’era molto, in effetti, che poteva dire. Avrebbe voluto abbracciarlo, forte, ma probabilmente il marchese l’avrebbe castrato, se si fosse avvicinato. “D’accordo. Ho capito”, disse infine. “Ti ho chiesto un buon motivo e tu me lo hai dato, io… tii lascio solo”, sospirò, voltandosi.
Marai dischiuse le labbra. “Takul, aspetta…”, mormorò. “Non… non intendo per sempre.”
“Ah, tranquillo, nemmeno io”, disse il moro, facendogli l’occhiolino. “Torno il prima possibile.”
Il marchese lo guardò andare via, sedendosi stancamente sul pavimento.

Lo voleva.
Lo voleva davvero.
Quando lo aveva visto con Ahuriel si era sentito morire.

Eppure non ci riusciva...

 

✖   ✖   ✖   ✖   ✖


“Ehi!”
Marai sollevò lo sguardo. Takul aveva mantenuto la parola.  “Sai, pensavo che non ti avrei rivisto più”, ammise, alzandosi.

Il macigno che aveva sul cuore si sbriciolò all’istante.

Quanto era felice di vederlo, anche se mai lo avrebbe dato a vedere. “Che cosa hai fatto ai capelli?”, chiese poi, osservandolo critico.
Takul si passò una mano tra le corte ciocche scure. “Non riuscivo a districarli”, ammise imbarazzato. “Ho detto che sarei tornato il prima possibile e l’ho fatto”, disse con un sorriso, poi gli fece segno di avvicinarsi. “Vieni, senti qualcosa?”

Marai lo guardò perplesso, avvicinandosi, poi accennò uno sbuffo, sorpreso. “No”, ammise. “Cosa hai…?”
“Mi sono lavato”, lo interruppe Takul. “Anche se forse lavato è riduttivo. Sono stato a mollo nell’acqua per più di tre ore. Mi sono lavato in posti che non credevo nemmeno di avere. Fidati, mi sono strofinanto talmente tanto che non sono sicuro di avere ancora la pelle addosso, e come se non bastasse ho masticato erba e radici come un fottuto coniglio per più di  un’ora per cercare di avere un alito quantomeno decente e poter fare questo”, mormorò, prendendogli il viso e baciandolo dolcemente.

Marai, colto alla sprovvista, chiuse gli occhi, cedendo docilmente alla pressione delle sue labbra, quella volta, aggrappandosi alle sue spalle. “Sono colpito…”, soffiò, quando si allontanò per respirare.

Takul sogghignò. “E vedrai tra poco”, disse, mordendogli piano la guancia e la mascella. “Se solo tu mi avessi detto tutto questo prima, invece di fare il misterioso…”, sbuffò, spingendolo su una delle pellicce e sovrastandolo, intrecciando le dita alle sue per tenerlo fermo. “Quanti bruciori di stomaco mi avresti risparmiato…”

“Solo di stomaco?”
“Oh, beh, anche un sacco di calli alla mano e di segoni in solitataria.
Marai roteò gli occhi. “Sei il solito animale”, soffiò. “E poi potevi sempre chiamare Ahuriel”, aggiunse, acido. “Si sarebbe precipitato a darti una bocca quanto prima, ne sono certo.”
“Te la sei proprio legata al dito eh?”

“Ci puoi giurare.”
Takul rise, divertito. “Sei tremendo”, sbuffò. “E ti adoro…”, aggiunse, mordendogli piano il lobo dell’orecchio. “Ahuriel non è nulla, pensavo mi detestassi, che non mi avresti voluto mai, nemmeno morto, per quello ho ripiegato su di lui. Ma è solo un ragazzo, tu invece…”, sussurrò, lasciandogli le mani per sollevargli la camicia, scoprendogli la pancia. “Dimmi che non devo usare riguardi, per favore…”, uggiolò. “Perché davvero, aspetto questo momento da così tanto tempo che potrei venire in questo istante senza aver ancora fatto nulla. E sarebbe imbarazzante…”, ridacchiò posandogli un bacio sulla pelle nuda.

Marai appoggiò in braccio sugli occhi, sospirando. “Fa come ti pare, non sono una bambolina di porcellana…”
“Di questo rendo grazie al cielo e la terra”, fu la divertita risposta di Takul, che gli morse un fianco, prima di iniziare ad armeggiare con i bottoni della camicia.
Per diversi minuti.
Sembrava non ricordarsi più come si slacciavano… o  forse era l’agitazione che lo rendeva maldestro.

Alla fine, esasperato, diede uno strattone, sentendo qualcosa saltare via, rimbalzando sulla pietra.
Marai aprì gli occhi, fulminandolo.”Caprone”, sospirò, spingendolo via  e alzandosi. “Ti devo ripetere altre volte che è l’unica camicia che ho!?”, sbuffò, sfilandosela. Poi lo squadrò da capo a piedi. “Spogliati, muoviti”, ordinò, in un tono che a Takul fece ribollire il sangue. “Signor sì signore!”, esclamò, ubbidendo più che volentieri, liberando la propria virilità dalla costrizione dei pantaloni. Poi si sdraiò sulla pelliccia, con un sorriso soddisfatto sulle labbra, in attesa.
Marai lasciò scorrere lo sguardo, senza il minimo pudore. E si vedeva che quel che guardava, gli stava piacendo.

Lentamente si slacciò la cintura, lasciandola scivolare sul pavimento con una calma estenuante. “Chiudi gli occhi”, disse, accennando un sorriso perfido.
“Cosa?”
“Ho detto chiudi gli occhi.”
“N.. no, perché dovrei?”
“Perché lo so cosa stai aspettando. E’ quello che si chiedono sempre tutti, di sicuro tu non fai eccezione.”
Takul avvampò, colto in fallo. “E va bene… lo ammetto”, mugugnò. “Questo vuol dire che non ti farai mai vedere nudo perché ho solo una piccola, innocente curiosità?”

Marai mosse la testa, pensieroso, poi alla fine accennò un sorriso. “Solo perché non ho voglia di stare a discuterne, sappilo”, soffiò, sfilandosi anche i pantaloni e gettandoli sul pavimento, prima di avvicinarsi. “Soddisfatto?”, chiese.
“Ah, non sai quanto”, fu la risposta di Takul, che sogghignò allungando le braccia per afferrargli i fianchi e tirarlo giù, sopra di sé; sfiorò con le dita la rada peluria candida, prima di afferrarne rudemente il membro, strappandogli un ansito. “Anche se, certo, bicolore sarebbe stato più stuzzicante”, ridacchiò, consapevole che l’altro non lo stava massacrando di botte solo per la stretta mortale che aveva sulla sua erezione. “Sei bellissimo…”, aggiunse poi, sollevando l’altra mano per accarezzargli il viso.
Marai serrò appena le labbra, senza dire nulla, ma quell’affermazione lo aveva colpito.

Era la prima volta che qualcuno gli diceva una cosa del genere. Chiuse gli occhi, improvvisamente lucidi. “Oh, smettila con le smacerie e datti da fare”, sibilò, allungando una mano dietro di sè per andare a cercare il membro dell’altro, accarezzandolo. Non aveva bisogno di attenzioni, visto che era già sveglio.
“Sicuro che non vuoi… non so, quella roba oleosa che usi per i capelli magari.”
“Smetti di fare l’imbecille e prendimi, prima che cambi idea!”

“Non sia mai!”, esclamò Takul, fingendosi inorridito e trattenendo una risata solo perché non sarebbe stato piacevole se gli si fosse ammosciato proprio in quel momento.

Strinse i fianchi del marchese, guidandolo sulla propria virilità, lasciando poi che decidesse lui il ritmo.

Lo fece per premura, perché non voleva affrettare i tempi.

Si accorse però, con piacere, che Marai non aveva alcun bisogno di premure. Era una vera belva.
Gemette piano quando, mentre lo portava sempre più vicino all’apice, si allungò per baciarlo, mordendogli le labbra fino a fargliele sanguinare.
Non aveva mai avuto l’esperienza di fare sesso con una tigre pensò, quando raggiunse l’apice.

Un pensiero strano, sfocato.

Non aveva mai fatto sesso con una tigre, ma di certo Marai ci andava vicino…

 

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“Insomma… va tutto bene?”
“Vuoi, per cortesia, smettere di chiedermelo?”

Marai sbuffò, incrociando le braccia sotto al mento, dopo essersi spostato i capelli dalla schiena. “Va bene, va benissimo, alla grande, ora chiudi il becco.”
Takul ridacchiò. “Scusa. Sono solo… beh, sto ancora cercando di capire se sto sognando o sono sveglio”, disse, uggiolando poi di dolore quando per tutta risposta l’altro gli diede una gomitata. “Va bene, va bene, decisamente non è un sogno”, si arrese, sostenendosi la testa con una mano e voltandosi su un fianco.
Lasciò correre lo sguardo sulla schiena nuda di Marai, allungando l’altra mano per sfiorarne la pelle dorata. “Continuo a ribadire che se tu avessi parlato chiaro fin dall’inizio mi avresti risparmiato un bel po’ di sofferenza”, disse.

Marai roteò gli occhi scuotendo la testa. “Sappi che comunque il fatto che ti abbia accettato una volta non ti autorizza a lasciarti andare.”
“No, certo che no, bagno tutti i giorni, sì signore!”
“Esatto. E dovrai anche parlare con Ahuriel.”
Takul esitò. “Vuoi… che gli dica di non venire più?”, chiese, cautamente.
“No, non è necessario. Puoi dirgli di venire da te se cerca un rifugio, solo quello però”, sottolineò il marchese, inarcando la schiena e stiracchiandosi, prima di appoggiarsi completamente al petto dell’altro. “Vuoi restare a dormire?”, chiese.

“Non chiedo di meglio”, mormorò Takul, baciandogli la nuca. “Non chiedo davvero di meglio…”


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Che dire? Certo, Takul ha una pazienza proprio infinita, ve ne siete accorti?
Questa storia copre un arco di ben tre anni!
Spero via sia piaciuta, se volete passare a trovarmi mi trovate qua!
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