Libri > Hunger Games
Ricorda la storia  |      
Autore: EmmaStarr    16/05/2015    4 recensioni
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
* * *
Da quando sono qui, va tutto male. Le ombre e il sangue sono tornati tutti insieme a tormentare le mie notti, come prima, quando erano appena finiti gli Hunger Games ed ero a pezzi, a pezzi. Ma ai tempi, quando mi svegliavo annaspando nelle lenzuola, cercando di soffocare le urla, c'era Finnick.
Adesso è morto, e qua è come se non fosse mai esistito. Anche gli Hunger Games, gli Ibridi, i morti, il sangue. Qua non esiste niente a parte questa stanza, e io ci sto annegando dentro.

* * *
{Annie Cresta {Death!fic
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Annie Cresta, Finnick Odair
Note: AU, Nonsense | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.

-Cesare Pavese

 

 

Death will come

{with green eyes to see}

 

 

 

 

La morte è il mistero più affascinante e allo stesso tempo quello più terribile della Terra.

Una volta, quando ero piccola, credevo che le persone morte fossero semplicemente tanto, tanto stanche. E che si fossero addormentate. Prima o poi, mi dicevo, si sveglieranno. Busseranno sui coperchi delle loro bare e la gente sarà pronta a tirarli fuori. Altrimenti, perché vanno sempre tutti ai cimiteri?

Avevo sette anni quando la mamma di un mio compagno di classe morì. Sono stata al funerale, ma non capivo perché piangessero tutti. Immagino che qualcuno provò a spiegarmelo, ma non volli nemmeno tentare di capire.

Mai era una parola troppo difficile, per me.

 

* * *

 

Tiro su col naso e allungo un braccio verso il comodino, cercando a tentoni il mio bicchiere d'acqua. O almeno, credo che sia acqua.

Non mi piace, questo posto. La gente indossa continuamente delle maschere e ho paura di guardare il soffitto, perché potrei rivedere quelle immagini.

Da quando sono qui, va tutto male. Le ombre e il sangue sono tornati tutti insieme a tormentare le mie notti, come prima, quando erano appena finiti gli Hunger Games ed ero a pezzi, a pezzi. Ma ai tempi, quando mi svegliavo annaspando nelle lenzuola, cercando di soffocare le urla, c'era Finnick.

Adesso è morto, e qua è come se non fosse mai esistito. Anche gli Hunger Games, gli Ibridi, i morti, il sangue. Qua non esiste niente a parte questa stanza, e io ci sto annegando dentro.

 

* * *

 

Non avevo mai pensato alla morte come a un crudele scherzo del destino, oppure come a un qualcosa contro cui urlare e inveire. Bisogna morire per forza, no? Sarebbe meglio che fosse il più tardi possibile, certo, ma alla fin fine abbiamo tutti all'incirca venticinquemila giorni su cui contare: detto così suona spaventoso, e allo stesso tempo, in qualche modo, stranamente rassicurante.

Mi trovavo sulla scogliera: il cielo era grigio scuro e il mare ruggiva a gran voce la sua forza scagliandosi addosso alla terra, ed io pensavo alla morte. Mi piaceva stare lì, dava molto l'idea della bellezza della vita: il vento che scombina i capelli, gli scogli umidi e scivolosi, le nuvole pesanti e il mare blu, quasi nero... Forse era proprio per questo che pensavo a come sarebbe stato morire. Me lo immaginavo dolce, un po' amaro, un po' malinconico, ma non per forza doloroso. Mi veniva da ridere: io ero felice della mia vita, e forse proprio per questo non avrei avuto problemi se mi fosse stata strappata. Certo, volevo continuare a vivere, volevo continuare a vedere il mondo e diventarne parte, però avrei accettato il mio destino, qualunque esso fosse stato.

Il giorno seguente -tra l'orrore di una consapevolezza sin troppo forte e la disperazione di un'infinità di cose a cui non volevo rinunciare-, fui estratta come Tributo per i settantesimi Hunger Games.

 

* * *

 

Ci sono delle brave persone, in questo posto, e alla fine capita spesso che non sia tutto così male come sembra.

A volte parlo con alcune ragazze che vengono dal Distretto 4 come me, e sono molto gentili. E poi, Johanna passa almeno una volta a settimana. Parliamo tanto di Finnick, e lei mi dà sempre consigli sul bambino: col fatto che sua sorella ha già due figli, sa un sacco di cose sull'argomento. Ogni tanto passano anche Katniss e Peeta: lui è sempre molto dolce, e dice che tra poco mi faranno uscire.

Devo resistere ancora un po', per il bene del bambino. La cosa più nostra che io e Finnick potremo mai avere, l'unica che lui non vedrà mai.

Spero solo che abbia i suoi occhi.

 

* * *

 

La morte aveva tutta un'altra faccia, laggiù. Io me l'ero sempre immaginata scura, quasi blu: potente ma discreta, avvolgente come il mare. Intendiamoci, non è che non guardassi gli Hunger Games in televisione: semplicemente, non avevo idea che dal vivo sarebbe stato così rosso. E l'odore, oh, nessun video avrebbe mai potuto prepararmi all'odore della morte, così viscido e ferroso, quasi dolciastro. Impregnava l'aria e rimaneva addosso. Ho visto morire Simon, il mio compagno di Distretto, proprio di fianco a me: la testa si è staccata dal corpo con un movimento elegante, fluido, così veloce da non lasciarmi il tempo di dire niente, niente.

E sapevo che era stupido, ma non ho potuto fare a meno di ricordarmi di quando, da bambina, mi aspettavo che i morti, prima o poi, si sarebbero svegliati: scossi Simon, chiamai il suo nome con la voce rotta e le mani sporche di sangue, ma lui non si alzò più. Poi arrivò l'Hovercraft, e mai divenne il concetto più spaventosamente reale di tutti, tanto orribile da farmi urlare a squarciagola.

Fu allora che la morte assunse la sfumatura rosso sangue che tanto mi terrorizza: quando colsi il senso di quel mai che mi ero rifiutata di conoscere, quando sbirciai nella vertiginosa immagine dell'eternità.

Feci l'unica cosa che avrei potuto fare: chiusi gli occhi.

 

* * *

 

Anche quando era vivo, qua Finnick non è mai stato preso in considerazione. Eppure, dovrebbe essere la persona più influente del Distretto 4! Ma, per quanto si lamentasse col sindaco, non era mai riuscito nemmeno a farmi spostare in un'altra stanza.

Le persone, in questo posto, sono vuote e spente come una tela ancora da riempire. Fanno domande strane e si aspettano risposte ancora più strane, stringendo le labbra e fingendo di sorridere.

Mi manca Finnick, mi manca più dell'aria che respiro: la sua morte è l'unica che non riesco ad accettare. Ma so benissimo che, anche se provassi a dirlo, nessuno capirebbe.

Pazza. Pazza. Pazza. Non fanno altro che ripeterlo, qui. Qui è tutto diverso, il cielo non è cielo e l'aria non è aria.

Qui la morte è bianca e fredda, non fa rumore quando arriva, e quando se ne va lascia tutto pulito: un letto in ordine, un comodino vuoto, un muro spoglio.

Ho paura. Ho quasi più paura di questo bianco che del rosso dell'Arena.

 

* * *

 

Sfiorai la morte per la seconda volta quando venni estratta per l'Edizione della Memoria dei settantacinquesimi Hunger Games. Fu quando Mags si offrì volontaria al mio posto.

Onestamente, non ce l'avrei mai fatta a sopravvivere a un'altra edizione, un'altra Arena, un'altra incessante serie di morti da rivedere nel sonno prima di una morte che sarebbe stato impossibile evitare. E, cosa più importante, non avrei mai sopportato un'eventuale morte di Finnick, magari per proteggere me. Mai.

Seguii quei pochi giorni di sangue e urla col cuore stritolato in una morsa d'acciaio, aggrappandomi ai manici del divano ogni volta che Finnick rischiava la vita. Quando Mags rimase indietro in quella orribile nebbia, gridai. Eccola di nuovo, quella morte rossa e rovente, ingiusta e accecante come un incendio che non lascia scampo, riducendo tutto in cenere.

Pensai che sarei dovuta esserci io, al suo posto. Io avrei saputo correre più velocemente, Finnick avrebbe portato Peeta e ce l'avremmo fatta.

Era colpa mia se Mags era morta, e non c'era niente che potesse farmi cambiare idea. Mi odiai dal profondo del cuore per non averla fermata. Quando, poi, quell'Hovercraft immenso e completamente fuori controllo si prese Finnick, portandolo chissà dove, lontano da me, percepii distintamente il mondo sbriciolarsi davanti ai miei occhi.

Quando vennero a prendermi, divise nere e armi da fuoco dall'odore di plastica, metallo e sangue, non opposi resistenza.

 

* * *

 

Ho sempre sentito di essere in debito con la morte, in qualche modo. Dopotutto, le sono sfuggita già tre volte: i miei primi Hunger Games, l'estrazione dell'Edizione della Memoria, la Rivolta. E in ogni occasione sono morte delle persone che amavo: Simon, Mags, Finnick.

Mentre ero imprigionata a Capitol City ci pensavo spesso, al fatto di essere in debito con la morte. Lì mi torturavano, e a volte arrivavo a pensare che fosse giusto, che dovessi semplicemente smettere di oppormi. Dopotutto, non sapevo nemmeno se Finnick fosse ancora vivo.

Qui invece è diverso. Nessuno mi tortura, non fisicamente. Ma so per certo che Finnick è morto, che non verrà a salvarmi, che se voglio continuare a vivere dipende solo da me.

Mi piacerebbe rivedere il mare. Forse mi sentirei più vicina a Finnick, forse semplicemente mi darebbe l'impressione di essere tornata a casa. Ma da qui non si vede niente, solo case e cemento.

So benissimo di essere in debito con la morte, so che manca poco. Il fatto è che ho troppa paura di questo bianco. Se devo morire, voglio che sia diverso. Diverso dal blu che immaginavo prima che tutto si rovinasse: non va bene, il blu sa di solitudine, di prigionia. Onestamente, non so come vorrei morire. Forse non c'è una risposta. Prima, però, devo tenere duro per lui, per il bambino.

E comunque, non posso morire adesso: anche se da dove sono io non si vede, è appena iniziata la primavera.

 

* * *

 

Non sono nemmeno andata al funerale: non ho potuto, perché non hanno mai ritrovato il corpo.

Immaginare Finnick dilaniato e irriconoscibile in un sotterraneo crollato come un castello di carte sotto il peso di un'esplosione è troppo, troppo orribile.

Quando me l'hanno detto, credevo di morire. L'hanno riferito con le facce a metà tra il dispiaciuto e l'annoiato di chi ha già dovuto dare troppe volte una notizia del genere. Se n'è andato, non tornerà più, fattene una ragione. Tutto qua, per favore, non insistere: abbiamo altro a cui pensare. Non mi hanno nemmeno detto come, ho dovuto farmelo raccontare da Peeta.

Non mi è mai piaciuto pensare al momento della sua morte, ma sono sicura che non è stata rossa, né sicuramente bianca. Forse blu, blu come il mare. Magari, mentre quegli esseri lo facevano a pezzi, si è sentito come sprofondare nell'immensità dell'oceano. Spero che sia stato in pace, e che non si sia sentito troppo solo. Spero che mi abbia pensata.

Anche a distanza di mesi, quest'idea ha continuato a bruciare in un angolo del mio cervello. Se io muoio, chi si ricorderà di lui?

Eppure, a volte è tutto semplicemente troppo difficile.

 

* * *

 

La stanza era così bianca da sembrare finta, in quello sperduto angolo di periferia. Quasi a voler dire che, se pure tutto intorno non funzionava, almeno c'era qualcosa di solido a cui appoggiarsi.

«Io non so più cosa fare, con lei». La donna camminava avanti e indietro, nervosamente. «Dove ho sbagliato?»

«Capisco che la situazione non sia facile» commentò l'uomo. Indossava un camice bianco, immacolato, tanto che quasi si confondeva con la parete dietro di sé. «La ragazza ha sviluppato una sindrome rarissima, pare che non siamo nemmeno in grado di dire a che livello di profondità quelle... idee si siano radicate nella sua mente».

«E pensare che all'inizio l'abbiamo persino incoraggiata!» si lamentò la donna, passandosi le mani tra i capelli. «"Un amico immaginario? Davvero? Che carino, Annie, brava! Ah, vivete vicino al mare? Bene, spero che vi divertiate, insieme!" Come potevo immaginare che...»

Il dottore sorrise, un sorriso accondiscendente, il sorriso di chi ha sentito troppe volte la stessa storia. «Signora, non poteva certo immaginare. Se non fosse avvenuto l'incidente, immagino che la cosa si sarebbe semplicemente fermata lì. Certo, veder morire tutta quella gente... Un autobus intero, giusto?»

«L'unica sopravvissuta su ventiquattro» confermò la donna, mordendosi il labbro. «Ma aveva già quindici anni, aveva quasi smesso di pensarci, a quel... a quel... com'è che si chiamava, il suo amichetto?»

«Finnick» la aiutò l'uomo, dopo aver dato una veloce scorsa al fascicolo che teneva sulla scrivania.

«Ecco, quel Finnick! E invece, appena ripresa dall'operazione, ecco che se n'è uscita con tutta questa storia» esclamò la donna con veemenza.

Il medico si sistemò gli occhiali sul naso. «Vediamo... un intera nazione, addirittura! E divisa in Distretti. E -ah!-, questo sì che è strano...»

«Hunger Games» scandì la donna con aria disgustata, come se si fosse trattato della peggior parolaccia del mondo. «Ventiquattro partecipanti, un solo vincitore. Continuava a ripetere questa frase come... non so, una cantilena mistica, un mantra o roba del genere. Non mangiava, non dormiva, invocava quel suo... Finnel, Fillik, o che ne so io. Si è inventata tutta una schiera di amici immaginari: una vecchia, una stronza pervertita, una coppia in crisi... E non riusciva a ricollegarsi con la realtà, era allucinante!»

L'uomo annuì con aria concentrata. «E l'avete portata qui...»

«Quasi tre anni fa, ormai. All'inizio sarebbe dovuto essere un periodo di prova, ma poi, dopo alcuni esami...»

«Capisco. E per il dosaggio?»

«Ah, di quello si occupano i medici, non intendo impicciarmi» fece subito lei, tirando le mani indietro. «L'importante è che non s'ammazzi: mi hanno riferito che parla così spesso di morte, ultimamente...»

Il medico corrucciò le sopracciglia. «Questo, a quanto pare, a seguito della presunta morte dell'innamorato, dico bene?» domandò. «E com'è successo?»

La donna alzò gli occhi al cielo. «Beh, nessuno si decideva a fare qualcosa, così io e mio marito abbiamo tentato un metodo più... drastico, ecco. Gliel'abbiamo detto, forte e chiaro: questo tuo... come si chiama, Finn-qualcosa, se n'è andato. Non tornerà più. Fattene una ragione. Non gli abbiamo detto che era morto, solo che... se n'era andato, ecco. Ma poi, quella, non soddisfatta, ha “chiesto a un suo amico di raccontargli tutto nei dettagli”, e... beh, la sua fantasia ha davvero del macabro. Dilaniato da dei... cosi, come dei grossi cani geneticamente modificati. Dopodiché si è addirittura inventata che non è potuta andare al funerale perché è andato tutto distrutto da un'esplosione» spiegò lei, raccontando tutto molto in fretta, le labbra strette. Ovviamente, avrebbe preferito parlare di tutto tranne che di quello.

«Nient'altro?» chiese l'uomo con cortesia.

L'altra sbuffò. «Macché, manca la parte migliore. È convinta... è convinta di essere incinta» sibilò, rossa in viso per la rabbia, o per la vergogna, o forse per tutte e due.

Il medico sollevò un sopracciglio, sorpreso. «Incinta con quel suo... Finnick?»

L'altra annuì. «Esattamente! E avrebbe dovuto vedere con che faccia me l'ha rivelato. Anche se, ormai, non credo nemmeno che mi riconosca più. Ma comunque, io non mi preoccuperei troppo per questa storia: può darsi che, un giorno, si sveglierà senza ricordarsi più di essere incinta, o convinta di aver perso il bambino in seguito a, che ne so, una violenza sessuale a opera di un vecchio ubriaco. Tanto, trauma per trauma...»

Il medico annuì, scrivendo un paio di appunti su un block notes. «Vorrei sapere solo questo: il mio collega, il medico che ha seguito sua figlia fino a poco tempo fa, mi ha detto che voi non siete propriamente degli assidui frequentatori della nostra struttura. Avete intenzione di modificare quest'atteggiamento, ora che abbiamo, per così dire, cambiato gestione, o...»

«Senta, dottore. Noi abbiamo un'altra figlia, molto più giovane di lei. Non possiamo perdere troppo tempo dietro ad Annie, capisce? È maggiorenne. Se vuole morire, io... oddio, che cosa orribile. Ma non crede che forse, per lei... sarebbe meglio? Voglio dire, cos'altro avrà mai da offrirle questa vita?»

Il medico non rispose per un tempo interminabile, mentre il silenzio si allungava tra i due come un mare bianco e interminabile. «Forse ha ragione» ammise alla fine. «Forse l'unica cosa che ancora questa vita può offrirle è una morte degna di questo nome» concluse, serafico.

La donna sgranò gli occhi. «Prego?»

«Oh, andiamo» ribatté il medico, chiudendo la cartella clinica e avviandosi verso la porta. «Sua figlia ha vissuto una vita più ricca e più intensa della mia, della sua e di quella di chiunque altro in questo posto. Si merita un po' di pace, non crede? Un degno finale alla storia che sta raccontando a se stessa e a noi da quasi quattro anni».

Senza aggiungere altro aprì la porta e attese che la donna uscisse per prima. Questa rimase immobile per qualche secondo, poi uscì a passo svelto, senza proferire parola.

 

* * *

 

Sono libera.

Questa è l'unica cosa a cui riesco a pensare mentre guardo in alto, sforzandomi per tenere gli occhi aperti. Sono scappata dalla stanza in cui mi tenevano rinchiusa quando mi hanno detto che mio figlio non sarebbe mai nato: aborto spontaneo, così hanno detto. Allora ho deciso di scappare, di uscire, di correre via. Volevo vedere il mare, magari bagnarmi i piedi e ridere quando le onde mi avrebbero solleticato le caviglie.

Alla fine non ce l'ho fatta. La strada fino al mare è troppo lunga, ma va bene lo stesso: è pieno di alberi, qui, e l'erba è fresca e morbida al tatto.

Sono stanca, stanchissima. Ho deciso di scappare molto, troppo tempo fa, e non mi sono mai fermata: non mangio e non dormo da chissà quanti giorni, ma è giusto così. Davvero, io sono felice di finire in questo modo, sfiorata dalla luce che passa attraverso le foglie degli alberi, lo sguardo perso nel verde del bosco che mi ricorda lui.

Da quando sono uscita lo rivedo in ogni pietra, in ogni strada, in ogni filo d'erba e in ogni goccia d'acqua. Il mondo è un po' diverso da come lo ricordavo: troppe persone, troppe immagini, troppi suoni, troppe cose. Qui, invece, sto bene.

Appoggiata a quest'albero, gli occhi persi nel verde che avvolge ogni cosa, sento che non voglio essere in nessun altro posto al mondo: presto rivedrò Finnick, e Mags, e Simon. Li abbraccerò tutti, e dirò loro che mi dispiace, e che li amo. Stringerò Finnick e lo bacerò fino a togliergli il fiato, piangeremo un po' e tutto sarà perfetto.

Mi viene da ridere: alla fine, la mia non sarà né una morte bianca né una morte rossa, e nemmeno blu! Ssto lentamente cedendo al verde, alla speranza, alla nuova vita che mi si prospetta davanti.

Io lo so, di essere pazza. Non crediate che non lo sappia. Ma i miei sogni sono così belli, così luminosi, che non riesco a farne a meno: ho vissuto come ho ritenuto meglio, come ho ritenuto giusto. E adesso vado incontro alla morte sorridendo, perché non è una brutta morte: è verde, verde, verde.

Questa morte ha il colore degli occhi di Finnick, ha il colore di quello in cui ho scelto di credere.

È il momento: sorridendo, libera come mai mi ero sentita prima d'ora, corro incontro al mio mai che è diventato un sempre.

L'eternità, se ha gli occhi di Finnick, non mi fa più paura.

 

 

 

 

Si dice in giro che sono malato e cosi sia
ma quella luce che vedo nel cuore, non è certo malattia
le mie parole sono figlie del vento e volano via
perché c’è un nesso sconnesso in ogni uomo riflesso
davanti allo specchio della sua follia.

Nesso Sconnesso – Carlo Togni











Angolo autrice:
OKay. No. Non odiatemi. Cioè, in realtà se ve la sentite fatelo pure, perché me lo merito: come mi è venuto in mente di scrivere una cosa del genere, vi chiederete voi?
Questa storia partecipava all'illustre Ultimo Turno del contest "1 su 24 ce la FA" indetto da ManuFury (e a questo punto appare piuttosto chiaro che il mio tributo non ce la farà, ma dettagli). Lo scopo di questo turno era quello di scrivere una storia che avesse a che fare con la morte del Tributo o di un personaggio molto vicino al Tributo (io mi sono portata avanti e ho scritto di entrambe le cose, anche se in realtà Finnick non è mai morto non essendo nemmeno mai esistit- *viene assalita*).
No, quindi davvero, parliamone. Quest'idea angstissima di dire che Annie è così pazza da essersi inventata tutto (gli Hunger Games, Katniss, le rivolte, tutto) ha spiazzato me per prima. Dopodiché ho deciso che, crollasse il mondo, dovevo scrivere una cosa del genere: insomma, il piano era quello di farvi presagire qualcosa dall'inizio, ma senza farvi capire che ci trovavamo in un vero e proprio AU (dunque non l'ho nemmeno messo negli avvertimenti). E questo non per potermi mettere a urlare "ah-ah, ve l'ho fatta!", ma perché, alla fine... voglio dire, qui entriamo nel fighissimo discorso del "qual è la vera realtà?" tu sei più vero di un personaggio immaginario? In cosa è meglio credere? Annie secondo me in qualche modo sapeva che tutto quello che si immaginava non era reale, ma ha deciso di crederci lo stesso. Era libera di farlo, no? E dopotutto, ciò l'ha resa davvero felice.
E quindi niente, spero che questa storia vi sia piaciuta e che non decidiate di venirmi a cercare a casa!
Un abbraccio, vostra
Emma

  
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Hunger Games / Vai alla pagina dell'autore: EmmaStarr