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Autore: Nymeria90    17/05/2015    1 recensioni
Tutti conosciamo la storia del comandante Shepard, ma della persona che era prima di diventare il paladino della galassia e dell’umanità sappiamo ben poco. La mia storia si propone di ricostruire le origini di Shepard prima che diventasse comandante, dalla nascita fino al suo arrivo sulla Normandy SR1.
“ La notte calò sul pianeta Akuze. Una notte senza stelle, illuminata solo dalla flebile luce di una piccola luna, lontana e stanca. Nel silenzio assoluto di un pianeta senza vita giacevano i corpi di chi, quella vita, aveva tentato di portarcela.
Cinquanta uomini e donne erano arrivati sul pianeta alla ricerca di gloria e conquista, di loro non rimanevano che i corpi spezzati sparsi per il deserto.
[...]. Erano morti tutti. Tranne uno.”
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Stazione Arcturus, 2183
 
Era strano ritrovarsi sulla stazione Arcturus dopo tanto tempo; erano passati anni dall’ultima volta che vi era stata e molte cose, troppe, erano cambiate da allora.
All’inizio aveva creduto che il dolore della perdita l’avrebbe tormentata per sempre, impedendole di sopportare l’idea di tornare in quei luoghi in cui aveva vissuto tanto intensamente per troppo poco tempo.
Invece, contro ogni previsione, il dolore lentamente era sfumato e il ricordo delle cose perdute si era trasformato nel flebile eco di una vita ormai sbiadita.
Rimorso e nostalgia non se ne sarebbero mai andati, questo lo sapeva bene, simili a una spina conficcata troppo a fondo nella carne, che ogni tanto ti ricorda che è ancora lì. Ma, come una spina, le facevano male solo se andava a tormentarli.
Aggiustò la crocchia serrata che tratteneva i suoi capelli rossi e poi incrociò le braccia al petto, aspettando che l’ascensore aprisse le sue porte. Era molto tardi e il centro di addestramento dell’Alleanza era praticamente deserto, eppure non aveva nessuna intenzione di ritirarsi nelle sue stanza.
Le porte dell’ascensore si aprirono e lei vi scivolò dentro con un fremito d’impazienza: mancavano poche ore e poi si sarebbe imbarcata su una nave.
Non una nave qualsiasi, ricordò a se stessa, tamburellando le dita contro un pannello metallico: sarebbe stata il secondo ufficiale a bordo della nave più veloce della galassia, la Normandy SR-1.
Quando Anderson le aveva proposto d’imbarcarsi sotto il suo comando  aveva accettato al volo, senza pensarci due volte. Era la sua occasione, forse la sola occasione che avrebbe mai avuto, per tener fede al giuramento fatto sulla tomba di Alex. A bordo della nave più innovativa della galassia finalmente avrebbe avuto gli strumenti per pagare il suo debito con la vita … e con la morte.
Chiuse gli occhi, appoggiando la fronte contro la parete fredda: più di ogni altra cosa era l’idea di non essere più sola a farle accelerare i battiti del cuore, in un misto di ansia e impazienza. Negli ultimi sette anni era rimasta isolata dal resto della galassia, rifuggendo qualsiasi coinvolgimento emotivo, limitando i suoi contatti alla semplice formalità. Aveva combattuto al fianco di molti altri soldati e addestrato innumerevoli reclute, ma dalla morte della “33” non aveva più avuto una squadra o amici che le coprissero le spalle.
Ora, con la prospettiva di tornare ad avere, finalmente, una squadra, si rendeva conto di quanto si fosse sentita sola in quegli anni.
Sorrise, raddrizzando il capo e aprendo gli occhi: era tempo di farsi una famiglia, di nuovo.
Si chiese come sarebbe stata la sua nuova squadra e se, da qualche parte, ci fossero altre persone che, come lei, cercavano disperatamente qualcosa che ancora non riuscivano a trovare: amici cui affidare incondizionatamente la propria vita, una causa per cui combattere, un luogo da chiamare casa.
Si chiese se la Normandy sarebbe diventata la sua casa e se i membri dell’equipaggio sarebbero stati per lei una famiglia … scosse il capo, ridendo di se stessa e dei suoi vaneggiamenti eccitati. Eppure, nonostante tutta la sua buona volontà, non poteva impedire alla sua mente di divagare. 
Dopo tanti anni di apatia, finalmente ,ritornava alla vita.
Sospirò, decidendo che un po’ di esercizio fisico l’avrebbe aiutata a tenere occupata la mente.
Le porte dell’ascensore si aprirono sull’atrio deserto e, invece di uscire nell’opaca notte artificiale della stazione, imboccò la breve rampa di scale che portava alla palestra.
Negli spogliatoi si tolse la giacca e fece passare delle garze di cotone attorno alle nocche, per non ferirsi le mani contro il sacco da allenamento.
Entrò nella palestra piacevolmente silenziosa ma non si stupì quando vide uno dei sacchi oscillare sotto i pugni di un altro soldato dell’Alleanza.
Inconsciamente aveva sperato di trovarlo lì, nel punto esatto in cui sapeva l’avrebbe trovato.
Lo salutò con un breve cenno del capo, prendendo posizione al suo solito posto. Fece partire il primo pugno contro il sacco paracolpi davanti a lei e, mentre caricava un sinistro, si ritrovò a lanciare un’occhiata obliqua al suo silenzioso compagno.
Come lei, anche il soldato amava allenarsi negli orari più improbabili, quando gli altri andavano a dormire o facevano la coda in mensa. Senza volerlo erano diventati compagni di allenamento, i tonfi sordi dei loro pugni che si davano reciprocamente il ritmo. Eppure, nonostante si vedessero quasi ogni giorno tra gli attrezzi immobili della palestra deserta, non si erano mai scambiati una parola. Si salutavano con un cenno quando uno dei due arrivava o se ne andava, poi lasciavano che fossero i loro pugni a parlare e, di tanto in tanto, uno dei due sorprendeva l’altro a guardarlo di sottecchi. Come stava facendo lei in quel momento.
Analizzò con occhio professionale il modo in cui alzava la guardia appena prima di liberare un gancio, il peso che si spostava leggermente in avanti, i muscoli che guizzavano sotto le pelle quando le nocche impattavano contro il sacco.
I suoi colpi erano precisi e puliti ma anche imprevedibili: non ripeteva mai lo stesso schema e la velocità dei colpi variava continuamente. Sasha non poté fare a meno di approvare il suo modo di combattere dicendosi che non le sarebbe dispiaciuto averlo come compagno di squadra. Pensò che avrebbe potuto fare il suo nome ad Anderson, poi si ricordò che non sapeva il suo nome.
Avrebbe potuto chiederglielo, ma qualcosa la trattenne. L’idea d’interrompere quel loro rituale, d’incrinare la sintonia dei loro gesti con una domanda ad alta voce la fece sentire a disagio.
Gli occhi scuri del soldato intercettarono il suo sguardo e Sasha si sentì avvampare stupidamente; maledicendo la sua goffaggine tornò a concentrarsi sul suo allenamento.
Eppure, suo malgrado, nel corso dell’ora che trascorsero nella palestra silenziosa, i suoi occhi tornarono molte volte a posarsi sul suo misterioso compagno. E scoprì di non essere più interessata solo alle sue abilità di lottatore.
Era bello, notò per la prima volta.
Anche Alex era stato bello, ricordò, ma di una bellezza più brutale e selvaggia. Il viso di Alex sembrava cesellato nella pietra, con linee dure, profonde. Non c’era traccia di durezza, invece, sul viso di quello sconosciuto. Alex era stato arrogante, lui, invece, sembrava solo ostinato.
Si chiese cosa l’incuriosisse tanto in quel ragazzo tanto diverso da tutti quelli che aveva conosciuto, fu solo quando lui alzò nuovamente gli occhi su di lei che ebbe la sua risposta: era il suo sguardo ad affascinarla.
Ricordava gli occhi azzurri di Alex, la prima volta che li aveva incrociati: erano innocenti e spavaldi, ma soprattutto ingenui. Era di quell’ingenuità che si era innamorata, ancora prima di conoscere l’uomo che indossava quello sguardo.
Era grata ad Alex per quello che le aveva dato, per averle insegnato a combattere per la speranza invece che per la vendetta. Tutto quello che era lo doveva a lui. Ma adesso non aveva più bisogno di innocenza e speranza: era finito il tempo in cui aveva sognato anche lei di combattere contro i mulini a vento.
Quello di cui aveva bisogno, adesso, era qualcuno che conoscesse la profonda solitudine in cui era sprofondata: qualcuno che capisse ciò che era, ciò che aveva passato, ciò che aveva fatto, senza porre domande.
E quel ragazzo aveva occhi che le ricordavano i suoi. Occhi che mai avevano conosciuto ingenuità e innocenza; occhi che avevano affrontato l’odio e la rabbia; occhi che avevano subito l’abbandono e lo spregio; occhi che erano stati accecati dal terrore e dall’amore e che, in nome di entrambi, avevano visto compiersi azioni che mai avrebbero voluto vedere né compiere.
Ma erano occhi che mai si erano chiusi, che avevano visto tutto quello che c’era da vedere, che avevano affrontato tutto quello che c’era da affrontare: avevano subito ogni genere di ferita eppure non avevano mai smesso di guardare, consapevoli di qual’era il loro dovere.
Malinconia … ecco cosa dominava quello sguardo e malinconia era ciò che leggeva nei suoi stessi occhi ogni mattina davanti allo specchio.
Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e si deterse il sudore dalla fronte, anche lui si fermò, le labbra sottili si piegarono in qualcosa che forse era un sorriso, ma, più probabilmente, fu solo una sua impressione.
Ricordò a se stessa che era la sua ultima occasione per dirgli qualcosa, qualunque cosa: nel giro di poche ore lei si si sarebbe imbarcata sulla Normandy e non avrebbe più rivisto quel soldato dagli occhi tristi di cui non conosceva il nome.
Le parole le si impigliarono in gola e lui fece un cenno impercettibile con il capo, come a dire che non c’era bisogno, che conosceva già ciò che nemmeno lei sapeva di volergli dire. Lo guardò allontanarsi con la sua camminata leggermente ondeggiante, senza osare muoversi, trattenendo persino il fiato, e solo quando lui fu ormai lontano dalla sua vista e il suo nome perduto per sempre, le venne in mente tutto ciò che avrebbe voluto dirgli.
“Grazie”, gli avrebbe detto, “grazie per il tuo silenzio, per non aver mai chiesto il mio nome, per non aver riconosciuto il mio volto e, se lo hai fatto, per aver finto che io fossi solo un soldato come tanti altri. Grazie per il modo in cui mi guardavi quando credevi che non ti avrei visto. Io ti ringrazio per avermi ricordato cosa si prova ad essere viva e avermi risparmiato l’imbarazzo di dirlo ad alta voce.”
Fermò il sacco che oscillava placidamente davanti a lei, si tolse le garze intrise di sudore che aveva avvolto attorno alle nocche e le gettò, raggiunse gli spogliatoi e si rivestì.
Le luci si spensero dietro di lei quando si richiuse la porta della palestra alle spalle, salì lentamente gli scalini, desiderando imbattersi nel soldato senza nome in cima le scale eppure, quando arrivò in cima e trovò l’atrio deserto, non poté fare a meno di sentirsi sollevata.
Guardò l’ora proiettata sul muro di fronte a lei e maledì il tempo che scorreva sempre troppo lento o troppo veloce.
Mancavano sei ore al suo imbraco e non aveva idea di come trascorrerle. I suoi bagagli già l’attendevano al molo e l’idea di tornare nel suo appartamento la faceva inorridire. Preferiva presentarsi ad Anderson con la divisa sgualcita e intrisa di sudore piuttosto che rinchiudersi in quel loculo troppo simile a quello in cui Sasha Red aveva trascorso i momenti migliori della sua vita.
Scosse il capo, stringendo la mano attorno alla sua medaglietta “Shepard.” ricordò a se stessa “Comandante Sasha Shepard”.
Lasciò che fosse l’istinto a guidarla e in un attimo si ritrovò fuori, in quella notte artificiale senza luna.
Camminò senza una meta precisa, lasciando che il tempo fluisse attorno a sé, mentre davanti ai suoi occhi luci e ombre danzavano indistintamente, accompagnate dai suoni confusi della notte. Passò davanti alle luci dei locali, non si fece tentare dalle risate e dalla musica che proveniva dall’interno, passò in punta di piedi attraverso le vite di decine di persone, senza soffermarsi in quella di nessuno.
Quando le luci artificiali della stazione si fossero accese, seguendo il ciclo di quel sole che nessuno di loro poteva vedere, la sua vita, quella vita che così faticosamente aveva vissuto, sarebbe terminata.
Era la fine di ciò che era sempre stata, come il bruco che si racchiude nella sua crisalide in attesa che giunga la sua fine e che una nuova vita inizi.
Per lei era giunto il momento di uscire dal suo bozzolo e dispiegare le ali verso l’inizio di qualcosa che poteva essere straordinario o terribile.
Percorse i moli lentamente, finché non giunse davanti alla forma allungata e sinuosa di quella nave che sarebbe diventata le sue ali. Sorrise mentre osservava il boccaporto aprirsi e Anderson uscire sulla piattaforma, per nulla stupito nel vederla già lì, ben prima dell’orario stabilito.
Il capitano le fece cenno di salire e lei obbedì, sentendo la gola secca e il cuore in tumulto, le sembrò che la passerella fosse lunga chilometri eppure in un attimo fa dall’altra parte, accanto ad Anderson.
Fece un impacciato saluto militare, mentre il suo sguardo percorreva rapito gli interni di quella nave: le parve di non aver mai posato gli occhi su nulla di più bello.
Anderson non disse nulla e fu grata del suo silenzio: le parole non avrebbero fatto altro che rovinare la magia di quegli istanti. Fece un passo incerto e in un attimo si ritrovò fuori dalla sua crisalide e ali immaginarie le spuntarono sulle spalle; l’incertezza si trasformò in determinazione e i suoi passi si fecero sicuri mentre i piedi la guidavano lungo quel ponte sconosciuto che sembrava plasmato dalla sua stessa coscienza. Passò davanti alla mappa galattica e il navigatore le fece un leggero cenno del capo, per nulla stupito della sua presenza, come se vedere quella sconosciuta dai capelli rossi aggirarsi sulla tolda della nave fosse la cosa più naturale del mondo.
Si scordò di Anderson che la seguiva con un sorrisetto compiaciuto stampato sulle labbra e si diresse a passo deciso verso la cabina di pilotaggio, colpita da un presentimento che forse era una premonizione.
Prima ancora che il sedile del pilota si voltasse seppe di non essersi sbagliata: c’era solo un uomo nell’intera galassia che poteva sedere su quella poltrona.
Il miglior pilota dell’Alleanza fece ruotare la sua poltrona con una semplice torsione del polso: sotto il berretto blu il suo volto non tradì alcuna sorpresa né parve riconoscere in quell’ufficiale dai magnetici occhi verdi il soldato con la testa rasata che lo aveva aiutato a trasportare una cassa di munizioni, tanto tempo prima.
- Comandante Shepard …- esordì Anderson - … ti presento il tenente timoniere Jeff Moreau. Lui è …-
- Il pilota più dannatamente bravo della galassia: ecco chi sono.- concluse il pilota, sfoderando un ghigno irriverente – Lieto di averti a bordo, comandante.-
Sasha ammiccò – Lieta di vederti seduto su quella poltrona, miglior pilota.-
Jeff fece ruotare la poltrona, come se non sopportasse di stare lontano dai comandi per più di una manciata di secondi – Me la sono sudata questa poltrona, fortuna che ora ho una tipa tosta a coprirmi il culo.-
Anderson le rivolse uno sguardo interrogativo ma Sasha si limitò a stringersi nelle spalle con aria evasiva.
- Capitano …- s’intromise una voce pacata alle loro spalle - … siamo pronti per il decollo.-
Sasha si voltò verso il nuovo venuto e, per un istante, le parve che la nave fosse appena decollata in verticale. Dovette ricorrere a tutto il suo autocontrollo per reprimere un’esclamazione di sorpresa: davanti a lei c’era il suo soldato senza nome.
Anderson non parve notare il suo stupore e appoggiò una mano sulla spalla dell’altro – Bene, comunica a tutti di andare al proprio posto, ma prima voglio presentarti il nostro nuovo Primo Ufficiale.-
Il soldato senza nome accennò un sorriso, impercettibile come quello che aveva intravisto alla palestra – Comandante Shepard.- mormorò, porgendole una mano – È un onore servire con te sulla Normandy, Anderson parla molto bene di te.- Sasha strinse la mano che le porgeva, apprezzando la fermezza della sua stretta – Tenente Kaidan Alenko, ai tuoi ordini.-
Da qualche parte Sasha trovò la lucidità necessaria per apparire perfettamente padrona della situazione, lanciò un’occhiata in tralice ad Anderson – E che cosa dice Anderson di me, tenente Alenko?-
- Che farai entrare questa nave e il suo equipaggio nei libri di storia, comandante.-
Sasha inarcò un sopracciglio, dimenticandosi improvvisamente del suo imbarazzo – Ha detto davvero questo, capitano?-
Anderson fece un cenno di commiato al tenente, obbligandola a seguirlo mentre si avviava lungo il ponte della nave – Un giorno l’intera galassia conoscerà il tuo nome, Shepard, di questo sono certo.- andò a posizionarsi davanti alla mappa galattica che si aprì, fulgida, davanti a lui e le scoccò un’occhiata penetrante – Cosa diranno di te, invece, è ancora tutto da vedere. Dimmi, Shepard, che cosa sei in grado di offrire alla galassia?-
Lei fissò la mappa galattica percorsa dal costante movimento delle innumerevoli stelle e pianeti che la formavano. Da qualche parte in quel vorticoso universo fatto di nebulose e buchi neri c’era la Terra e c’era Akuze.
Sasha prese posto nella postazione del Primo Ufficiale, un gradino sotto la postazione di Anderson, e rispose senza distogliere lo sguardo dall’universo che aveva scelto di proteggerle – C'è una sola cosa che posso offrire: sopravvivenza.-
Non osò alzare lo sguardo su Anderson ma quando lui tornò a parlare seppe di aver dato la risposta giusta – Allora questo è davvero il posto che fa per te, Shepard.-
Sì, lo era. Lo sapeva dal momento stesso in cui aveva posato gli occhi sulle forme sinuose di quella nave che vibrava come una creatura viva sotto i suoi piedi, impaziente di essere liberata nello spazio.
- Quali sono gli ordini, capitano?- domandò, sentendo la sua smania di libertà crescere di pari passo con il fremito dei motori.
- Shepard.- rispose Anderson – Vediamo cosa c’è la fuori.-
Con un sorriso liberatorio Sasha diede l’ordine di decollare e, mentre la nave finalmente si liberava dalle pastoie che l’avevano trattenuta al suolo, capì di essere giunta alla fine.
Chiuse gli occhi mentre la Normandy si avventurava nello spazio e per un istante si sentì fusa con lo scafo di quella nave che pareva plasmata dal suo spirito.
Era la fine, certo, ma anche l’inizio.
Era l’inizio della vita del comandante Shepard e ogni capitolo della sua storia era ancora tutto da scrivere.
 
 
 
 
 
 
 
 
Note
 
Ed è arrivata la fine anche per questa storia.
Ci sarebbero molte cose da scrivere, commenti da fare, ma sinceramente non sono dell’umore giusto e le parole mi sfuggono. So che mi perdonerete.
Perciò mi limiterò a ringraziare tutti quelli che hanno inserito questa storia tra le preferite, le ricordate o le seguite, oltre a tutti i lettori silenziosi che sono arrivati fin qui.
Ringrazio AndromedaShepard, Fedon, Meme_97, NadShepCr85 e Ultrazzurri07 per le loro preziose recensioni.
Ma soprattutto un ringraziamento speciale va alla mia compagna di cella, Shadow_Sea, che mi accompagnato per tutta la difficile stesura di questa storia e, lo ripeto anche a costo di diventare noiosa, senza la quale probabilmente non sarei arrivata fino a quest’ultimo capitolo.
Grazie di cuore, davvero.
Non so se ci sarà un prossima storia, io mi auguro di sì, in ogni caso continuerò a bazzicare per questo sito ancora per un po’.
Buona vita a tutti e, spero, alla prossima!

 
 
 
  
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