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Autore: emotjon    18/05/2015    2 recensioni
«Ehi, uomo ragno...», lo chiamò Anna strofinando appena il naso contro il suo. Non riusciva a staccarsi da lui, nè dai suoi capelli che erano davvero morbidi come aveva sempre immaginato. Gli sorrise contro la pelle, prima di arrossire violentemente e succhiargli il labbro inferiore, lasciandolo col rumore dello schiocco nelle orecchie e sulla pelle.
«Ehi, piccola Gwen», mormorò lui di rimando, facendola ridere mentre lo abbracciava, col viso nascosto nell'incavo del suo collo. Come quella notte. Come forse sarebbe successo anche la notte seguente, e quella dopo, e quella ancora successiva. «Passavo di qui, sai, per andare al negozio di fumetti... cercavo giusto qualcuno da salvare».
«Io aspettavo solo qualcuno che mi salvasse», ammise la ragazza con un sorriso.
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9230 parole.
Partecipa al contest "may 23rd" di silverchains.
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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*questa one shot partecipa al contest "may 23rd" organizzato da silverchains.*

*ad A piace dipingere, ma non ci riesce senza B, compagno di stanza, che nel frattempo legge i fumetti della marvel*


 
 
Aracnide e acrilico.


 
 
Il cielo a quell'ora era rosso. Rosso come le fragole. Rosso come le guance di chi si imbarazza. Rosso come un cuore che batte all'impazzata. Dalla loro finestra si vedeva il mare, in lontananza, e il cielo sopra di esso sembrava essere stato dipinto dal più abile dei pittori, col sole che di secondo in secondo scivolava sempre di più nel mare - tendendo l'orecchio lo si poteva quasi udire sfrigolare - e le nuvole colorate di rosa e arancio, così come il mare stesso, prima che sfumasse nel suo solito blu. Ma più che altro era rosso, tanto rosso da non poter evitare di posarci lo sguardo. Tanto rosso da far male. Tanto rosso da riuscire a mettere tristezza e allegria in un solo sguardo.
Quel tramonto era rosso come la luce riflessa nei suoi occhi neri. Rosso come le sue labbra struccate ma lucide e umide di saliva. Rosso come il reggiseno di pizzo che indossava - visibile attraverso quella maglietta bianca un po' trasparente e che non era nemmeno sua, ma che le piaceva troppo, anche perché era impregnata del suo odore e lei non riusciva a farne a meno. Rosso come le piccole gocce di pittura che le avevano macchiato il collo e la maglietta e che erano schizzate fino alle piastrelle bianche, imbrattandole di quel tramonto dipinto che stava riproducendo su tela con gli occhi socchiusi dalla concentrazione.
Quel tramonto era una bomboletta di vernice spray, spruzzata apparentemente a caso nel cielo giusto per vedere cosa ne sarebbe potuto venire fuori. E a mano che i minuti scorrevano sembrava che ci fosse un pittore in equilibrio tra un'onda e l'altra, pronto a scurire il rosso fino a farlo diventare rosa come la sera e poi blu come la notte che stava arrivando. Quel tramonto era come una lacrima solitaria sulla guancia rossa di qualunque ragazza; era la tristezza di un giorno che si preparava a volgere al termine, e scorreva rapido proprio come una lacrima bollente avrebbe fatto sulla pelle di chiunque.
Quel tramonto era rosso come la sua anima.
Rosso come colei che dipingeva e come colui che in sua presenza leggeva.
E rosso come il costume da Spiderman che se ne stava gettato ai piedi del letto di lui, senza che avesse alcuna voglia di mettersi almeno seduto per raccoglierlo. Quel pezzo di stoffa in quel momento somigliava terribilmente alle macchie di pittura che erano schizzate inavvertitamente dal pennello di lei senza che riuscisse a fermarle prima che toccassero terra; quel pezzo di stoffa era - esattamente come la pittura - un puntino di colore in mezzo a tutte quelle piastrelle terribilmente bianche.
Un puntino di colore. Un puntino di disordine. Colore nel disordine, da un certo punto di vista; il ragazzo non sapeva cosa fosse, l'ordine. Non era mai stato ordinato, nemmeno quando viveva coi genitori, figuriamoci ora che conviveva con una ragazza che sembrava sopportarlo a stento in un appartamento che rasentava il minuscolo.
Lui era il puntino di disordine, il caos, le magliette buttate sulla sedia o sul pavimento e le lenzuola ridotte ad un groviglio in fondo al letto; lui era quel cuscino gettato a terra e quel pacchetto di sigarette vuoto lasciato sul comodino e quella sveglia rovesciata malamente quella mattina per farla smettere di suonare; lui era la parte del piccolo appartamento che sembrava esser stata vittima di un tornado - tranne forse per la piccola libreria, in cui regnava l'ordine più sovrannaturale, coi fumetti tenuti come reliquie sacre di chissà quale religione.
Lei era colore che combatteva altro colore. Ma era metodica, ordinata, disciplinata, una patina di bianco a stemperare il rosso di quel costume gettato sulle piastrelle fredde.
Lei era quel letto quasi sempre rifatto e quei pennelli disposti ordinatamente sul comodino e quei vestiti piegati e riposti nell'armadio; lei era la parte di quel piccolo appartamento a sembrare davvero tale - anziché la scena di una rapina. Persino la sua scrivania - che a tratti somigliava ad un campo di battaglia - in quel momento era stranamente in ordine, senza carboncini ovunque o fogli da disegno pieni di bozze che non aveva mai tempo di finire.
Lei era colore nonostante l'ordine. Una punta di follia, anziché di disordine. Aveva sedici anni la prima volta che si era tinta i capelli di blu - la prima volta che i suoi genitori avevano minacciato di cacciarla di casa, la prima ma purtroppo non l'ultima; aveva sedici anni, e da allora non aveva più smesso; aveva cambiato tonalità, provato con le mèches e comprato una parrucca a caschetto per i giorni in cui si sentiva in vena di capelli corti ma non aveva il coraggio di tagliare i propri. Ora che ne aveva venti, di anni, i capelli blu le erano rimasti come parte di se stessa impossibile da estirpare. Lei era il mare dentro al quale quel sole si tuffava ogni sera ed era quel cielo che diventata rosso tutte le sere al tramonto.
Rossa era la sua anima. Blu era lei, soprattutto i suoi capelli. In quel periodo era nella fase delle treccine, di una tonalità appena più scura, sparse in qua e in là tra un ciocca e l'altra, e chiunque la vedesse coi capelli lunghissimi lasciati sciolti sulla schiena si lasciava sfuggire un sorriso, prima o poi - anche se ad un primo impatto la guardavano tutti come fosse chissà quale aliena proveniente da chissà quale pianeta. Blu era lei, l'avrebbe detto chiunque l'avesse guardata negli occhi neri vedendoci il più blu degli oceani. Blu era lei, con un tumulto dentro da far invidia al più profondo e glaciale dei mari.
Lei era follia comunque si ponesse, dai capelli blu al piercing al labbro con quale giocava in continuazione, dalle magliette scollate - o trasparenti - che non lasciavano quasi nulla all'immaginazione allo stemma di Batman tatuato dietro al collo. I suoi jeans strappati sulle cosce erano folli. Le catenine che non toglieva mai, erano folli. La sua passione per la musica e per la lettura e per l'arte e per i supereroi e per i cartoni animati della Disney... quelle erano cose un po' folli, che andavano oltre i limiti del normale - visto quanta musica ascoltava, quanto leggeva e quanto tempo passava a dipingere. Ma facevano parte di lei, non ci si poteva fare nulla.
E poi, a qualcuno tutta quella follia poteva piacere.
Qualcuno quella follia avrebbe potuto amarla.
Aveva i capelli spostati tutti sulla spalla sinistra, col collo lungo libero di essere guardato e il capo inclinato leggermente da un lato. Una macchia di acrilico arancio le macchiava il collo dove si era grattata qualche minuto prima, incurante delle mani sporche o del pennello che le era quasi scivolato tra le dita rischiando che lasciasse la propria scia di colore lungo tutta la maglietta, lungo i jeans e finire sulle piastrelle tingendole di allegria. Aveva posato il pennello tra le labbra rosse, poi, tenendolo in equilibrio tra di esse mentre le sue iridi quasi nere si perdevano nel guardare il sole, il mare e quelle nuvole rosa che avrebbe voluto essere capace di dipingere tali e quali, come una vera pittrice, sulla tela del cielo.
Mormorò qualcosa di poco comprensibile, sfilando il pennello dalla presa delle labbra e sentendo improvvisamente uno sguardo penetrante addosso, un paio di iridi castane che non la mollavano mai quando erano insieme in quella stanza, se non per leggere un paio di vignette del fumetto che teneva tra le dita come un tesoro di inestimabile valore. Ignorò il suo sguardo, fece finta che non esistesse, come faceva sempre. Lo ignorò come faceva ogni volta; lui la guardava apposta per provocarla, la guardava come volesse leggerle dentro, come se gli piacesse davvero tanto quello che vedeva e non riuscisse a staccarle gli occhi di dosso nemmeno volendo. E lo ignorò fingendo che quello sguardo non la sfiorasse minimamente, nemmeno di sfuggita, quando invece le faceva ribollire il sangue nelle vene e lui nemmeno lo sapeva - per fortuna, avrebbe potuto dire.
Continuò a dipingere come se niente fosse. Continuò ad immaginare quel tramonto che stava sfumando dal cielo, fermandolo come un'istantanea nella propria mente e rivivendolo abbassando le palpebre per qualche momento, di nuovo vivido davanti agli occhi come se il sole si fosse fermato, come non stesse tramontando e la notte non stesse prendendo il suo posto nel cielo ora più scuro, quasi notturno. Continuò a far scorrere le setole intrise di vernice contro la tela... almeno finché non lo sentì scoppiare a ridere sottovoce.
Era il genere di risata che, seppur ci fosse abituata, ogni volta riusciva a coglierla di sorpresa. Quel genere di risata che le faceva mozzare il respiro in gola. Quel genere di risata che le faceva fermare il cuore, che fermava il momento, che arrestava il tempo e che sembrava essere in grado di fermare qualsiasi cosa nella stanza, persino la discesa dei granelli di polvere in caduta libera sul parquet di legno scuro. Quel genere di risata che arrivava all'improvviso e non avresti smesso di vederla brillare nell'aria, anche se poi finiva per sparire così com'era arrivata, senza preavviso - ma lasciando sempre una traccia del proprio passaggio, ogni fottuta volta.
La sua era una risata roca, che gli risaliva lungo la gola grattando contro la trachea rovinata dalla nicotina. Era una risata profonda. Sensuale. Unica nel proprio genere. Una risata che la ragazza dai lunghi capelli blu con le treccine avrebbe voluto avere il coraggio di registrare solo per poterla riascoltare in loop ogni qualvolta ne avesse sentito il bisogno, ogni volta che non avesse potuto farne a meno. Era una di quelle risate che riflettevano quel che chi rideva si portava dentro, che fosse rabbia, dolore, egoismo puro o felicità... in fondo non faceva alcuna differenza. Importava solo una cosa, la sua risata le fosse entrata dentro dalla prima volta che l'aveva ascoltata di sfuggita, che le fosse rimasta sotto pelle e non ne sarebbe uscita mai, nemmeno se si fosse lasciata sanguinare a morte.
Quella risata la colse di sorpresa, come sempre del resto.
E in automatico distolse lo sguardo sia dalla tela umida che dal tramonto che le stava morendo lentamente e delicatamente davanti agli occhi. Non poteva continuare a guardare il panorama, non quando aveva poco lontano qualcosa di incredibilmente più bello di un semplice tramonto  sul mare. Guardarlo ridere era sempre una meraviglia, qualcosa di cui non si sarebbe mai stancata, neppure volendolo con tutta se stessa. Guardarlo ridere faceva ridere anche lei; sorrideva con gli occhi per non attirare la sua attenzione e poter continuare ad osservarlo.
Aveva tra le mani non sapeva quale numero di Spiderman e le labbra ancora schiuse e umide per la risata che stava scemando, morendo insieme al tramonto, facendo nascere un sorriso sulle labbra di lei insieme alle stelle figlie della sera. E rideva per qualcosa che avrebbe capito solo lui, di ragni radioattivi o ragazzini che si arrampicano sui muri o chissà cos'altro. Rideva ed era tanto bello da far male, anche tutto spettinato e con la barba incolta e una sigaretta incastrata pigramente dietro l'orecchio, o con il labbro inferiore rovinato dai morsi e dal fumo.
Rideva e la ragazza non riuscì a smettere di guardarlo. Aveva il naso leggermente arricciato e le labbra schiuse e un ciuffo di capelli castani cadutogli sulla fronte. E aveva le unghie rovinate e una vecchia maglietta sgualcita addosso, ma era comunque troppo bello per non essere guardato, troppo bello per non attirare almeno un po' il suo sguardo. Smise di ridere dopo quella che a lei parve un'eternità, ma continuò ad osservarlo come si osserva un panorama mozzafiato o un'opera d'arte esposta in un museo.
La risata gli morì in gola sostituita da un colpo di tosse, e Anna - così si chiamava la ragazza - si ritrovò a scuotere la testa, contrariata. Ormai aveva smesso di chiedergli di smettere di fumare, almeno a parole, ma sembrava continuare a chiederglielo con gli occhi ogni dannata volta che lo sentiva tossire in quel modo, quasi come stesse per sputare un polmone. Non era bello sentirlo tossire così, la faceva preoccupare, e non riusciva più nemmeno a nasconderlo.
«Il cancro è vicino...», borbottò la giovane tornando di malavoglia a posare lo sguardo sulla tela e sul quel tramonto che purtroppo era solo una brutta copia dell'originale. Luca - così si chiamava il ragazzo dai capelli castani appassionato di fumetti - sollevò lo sguardo dal giornalino, al sentire il suono della sua voce arrivargli un po' acido alle orecchie. Sapeva bene quanto lei odiasse il fumo e le sigarette e i colpi di tosse che sembravano lasciarlo senza fiato, ma non poté trattenere un mezzo sorriso, guardandola.
Non poté trattenerlo, quel sorriso, forse perché nemmeno troppo in fondo tutta quella follia e quei capelli blu e il reggiseno rosso fuoco sotto la sua maglietta bianca, gli piacevano, e nemmeno poco, per quanto non l'avrebbe mai ammesso. Non a lei. Tantomeno a se stesso.
Gli piaceva guardarla, a quel punto non era più un segreto per nessuno; gli piaceva osservarla mentre dipingeva, con le treccine sparse su una spalle e macchie di pittura ovunque sulla pelle nuda; gli piaceva guardarla mentre incastrava una ciocca di capelli troppo blu dietro l'orecchio o mentre teneva una matita tra le labbra con le palpebre abbassate, aspettando che l'ispirazione la travolgesse come un'onda. Adorava vederla muovere i fianchi mentre canticchiava qualcosa a mezza voce facendo finta che lui non esistesse, ballando per se stessa, solo per il gusto di farlo - quando in realtà ballava in quel modo solo per vedere il mezzo sorriso che puntualmente compariva sul suo viso, increspandogli le labbra e facendogli brillare di lussuria le pagliuzze dorate che gli ornavano le iridi scure.
Gli piaceva guardarla di tanto in tanto mentre leggeva, spostando gli occhi dalle vignette per posarli su di lei. Sapeva che Anna poteva sentire il suo sguardo addosso; lo notava ogni volta, quando lei irrigidiva le spalle ma poi puntualmente le scappava un sorriso che anche se poteva vederlo appena sapeva che fosse bellissimo - come tutti gli altri sorrisi che inconsapevolmente lei gli regalava. Sapeva che lei si accorgeva di quegli sguardi, eppure continuava a guardarla... come se effettivamente non gliene importasse nulla di essere colto in flagrante.
E la guardò qualche altro secondo, prima di chiudere il fumetto con una smorfia distratta e mettersi a sedere con un grugnito soffocato. Ad Anna vennero i brividi lungo la schiena, a quel suono, ma si morse il labbro e provò a concentrarsi di nuovo sulla tela e su quel tramonto che ormai dal cielo era totalmente scomparso. Provò a concentrarsi senza più riuscirci, però, guardandolo con la coda dell'occhio mentre si alzava e si passava una mano nei capelli pieni di gel ma che sembravano tanto morbidi da desiderare di infilarci le dita in mezzo, tra una ciocca e l'altra, tra uno sguardo e l'altro.
Sembrava infastidito da qualcosa. Ma a pensarci bene nemmeno lui sapeva cosa lo irritasse, in quel momento. Forse la propria debolezza verso di lei, forse proprio lei; lei, che sentiva che qualcosa non andava ma che non disse una parola, limitandosi a lanciargli un'occhiata mentre prendeva l'accendino dalla tasca dei jeans e si rigirava tra le dita la sigaretta che aveva tenuto dietro l'orecchio fino a pochi secondi prima; lei, che era stranita quanto lui, che si aspettava che lui dicesse qualcosa, qualsiasi cosa.
Ma ovviamente Luca non disse nulla, nemmeno una parola, nemmeno un grugnito dei suoi. Semplicemente, si limitò a fermarsi pochi secondi alle sue spalle abbassandosi leggermente per poter essere all'altezza del suo orecchio. Si limitò ad osservare il dipinto davanti a loro con l'ombra di un sorriso ad increspargli le labbra portando via almeno un po' del nervosismo che lo stava corrodendo dall'interno. Fece finta di non accorgersi di come Anna trattenne il respiro sentendosi respirare contro la pelle, ma se ne accorse. E forse era proprio quello che lo infastidiva così tanto, era proprio quello che accresceva il suo bisogno impellente di nicotina.
Tornando alla tela, era decisamente troppo bella per essere tenuta nel minuscolo appartamento di due universitari pseudo spiantati. «Brava piccola», le disse in un soffio - e l'irritazione sembrava svanita, a quel punto, o forse la sapeva solo mascherare troppo bene - colpendola col proprio fiato al sapore di tabacco, immergendola in quell'odore dal quale lei dal canto proprio non sarebbe mai voluta riemergere, non senza un motivo pressante almeno.
Quella tela aveva appena assistito ad un sospiro, uscito di soppiatto dalle labbra di Anna, di cui Luca non si accorse nemmeno, troppo impegnato a lasciarle un bacio tra i capelli e a... scappare, in pratica, lasciandola lì ancora con la sua fragranza nelle narici e lo sguardo perso contro la tela ma senza guardarla davvero. Lasciandola in balia del suono della sua risata che ancora le vorticava tra un pensiero poco logico e l'altro, in balia del fantasma di quel bacio che le aveva appena regalato.
E mentre lui scendeva di corsa le scale del palazzo dove abitavano per andare a fumarsi la sua benedetta sigaretta, mentre lui cercava di non pensare ai suoi capelli blu o al modo in cui si era irrigidita sentendolo avvicinarsi o al modo in cui si era rilassata quando aveva sentito quel bacio leggero tra i capelli... lei non sapeva proprio a cosa pensare, decisamente.
Sembrava quasi assente. Come ospite nel suo stesso corpo.
Lasciò perdere la tela, per quella sera.
Si preparò la cena canticchiando come faceva sempre, accendendo lo stereo a lasciando che una voce qualsiasi la cullasse e la distraesse da lui, dai supereroi e dal pacchetto di sigarette che lui lasciava sempre incustodito sul comodino e che lei aveva sempre la tentazione di buttare nel cestino. Mangiò piano e poco, seduta a gambe incrociate sul proprio letto con la finestra lasciata aperta per sentire l'aria fresca della sera sulla pelle e gli appunti di letteratura inglese sparpagliati davanti a sé mentre cercava disperatamente di ricordare tutte quelle date. Il che, nello stato di confusione in cui si trovava, non era così facile come lo sarebbe stato di solito.
Lasciò perdere anche gli appunti, ad un certo punto, non riuscendo a restare concentrata per più di cinque minuti di fila. Passati quei cinque minuti scarsi, i suoi pensieri correvano più veloci della luce ad un paio di occhi color nocciola e alle labbra screpolate di Luca che l'avevano sfiorata in quel modo tanto effimero da farle pensare che l'avesse fatto senza pensare alle conseguenze. O addirittura senza pensare affatto, forse senza nemmeno volerlo davvero.
E più ci pensava e meno lo capiva, quel gesto.
Più ci pensava e più le saliva il mal di testa, coi pensieri che le sbattevano contro la scatola cranica con tanta forza da fare abbastanza rumore perché riuscisse a sentirlo davvero nelle orecchie, e non solo da immaginarlo. Più ci pensava e meno trovava un filo logico a quello che era successo. Più ci pensava e più voleva maledirsi per non aver detto nulla, per non essersi voltata verso di lui per chiedergli cosa ci fosse che non andava.
Più ci pensava e più il tempo scorreva inesorabile.
Tanto inesorabile da fargliene perdere la cognizione. Tanto che non si accorse della porta dell'appartamento che veniva aperta o di Luca che si fermava nel piccolo ingresso per chiudere a chiave cercando di fare meno rumore possibile per non svegliarla - lui non poteva sapere che lei fosse sveglia, e non poteva sapere con quale velocità la ragazza spense l'abat-jour che teneva accesa sul comodino per studiare, e non poteva sapere che lei stesse solo fingendo di dormire, quando entrò piano in camera da letto.
Si fermò all'improvviso dal gettare la propria borsa in fondo al proprio letto, vedendola addormentata. Con gli occhiali da vista ancora sul naso e i capelli blu elettrico legati malamente in una coda ormai sfatta. Con le labbra schiuse e gli appunti di letteratura sparsi sul copriletto e ancora la maglietta sporca di vernice addosso. Addormentata seduta contro la testiera del letto, con la testa inclinata da un lato e un espressione così tenera sul viso che in automatico fece sorridere il ragazzo.
Lui non poteva sapere che lei stesse fingendo di dormire.
Lei, d'altro canto, era troppo brava a fingere di essere tra le braccia di Morfeo.
E non poteva lasciarla dormire così. Per quanto fosse apparentemente senza cuore con tutti, aveva dimostrato poche ore prima che forse a lei ci teneva, forse più di quanto non avesse mai tenuto a nessuno, più di quanto non avesse mai dimostrato. Non poteva lasciarla lì scomposta, anche perché la mattina seguente lei l'avrebbe sicuramente maledetto in qualsiasi lingua conoscesse per averla vista in quello stato e non aver fatto nulla.
In un primo momento pensò di svegliarla. Poi però si rese conto che sarebbe stato davvero un peccato, che era troppo carina per poter pensare di destarla. Così radunò gli appunti e li spostò sulla scrivania. La prese in braccio e la spostò delicatamente sul proprio letto, facendola sdraiare, slegandole i capelli e togliendole gli occhiali di dosso. La coprì col lenzuolo e per un istante gli parve di sentirla sospirare, ma si disse che probabilmente se l'era solo sognato, così si voltò per cambiarsi e sdraiarsi nel suo letto, quando gli venne in mente una cosa.
No, non pensò che lei fosse sveglia, nemmeno per un momento.
E Anna stava per riaprire gli occhi, per osservarlo mentre si sistemava nel proprio letto. Stava per farlo, quando sentì il rumore leggerissimo dei suoi passi riavvicinarsi e percepì il suo odore arrivarle alle narici più forte di quando già non fosse. Già le sue lenzuola erano impregnate di lui e il suo cuscino sapeva del gel che usava sempre per sistemarsi i capelli - era già troppo da sopportare senza sospirare, ma sentirlo addirittura chinarsi su di sé... lo sentì avvicinarsi come se lo stesse vedendo, ne sentì il respiro sulla pelle del viso e lottò per continuare a respirare, per non arrossire e per non riaprire gli occhi.
«Buonanotte, piccola Gwen», mormorò il ragazzo con un mezzo sorriso, posandole poi un bacio leggero sulla fronte, attento a non svegliarla. Indugiò qualche secondo con le labbra sulla sua pelle, rendendosi conto che non sarebbe dovuto scappare in quel modo qualche ora prima, avrebbe solo dovuto parlare con lei, spiegarle cosa gli stava succedendo, cosa lo irritava. «Sono una testa di cazzo, lo so... nemmeno la merito una ragazza come te nella mia vita, ma la verità è che ne ho bisogno». Fece una pausa, allontanandosi per guardarla, nella penombra. «Ho bisogno di te come Peter Parker ne aveva di Gwen Stacy», aggiunse in un soffio, prima di scostarle una ciocca di capelli dal viso e allontanarsi con un mezzo sorriso ad increspargli le labbra - che cercò di nascondere grattandosi la barba soprappensiero.
Davvero non pensava che Anna lo sentisse. Non immaginava che stesse fingendo di dormire. E non ci fece caso, quando la sentì rigirarsi nel lenzuolo e dargli le spalle. Non lo vide, il suo sorriso. Non la vide, la piccola lacrima che impavida le scese lungo la guancia, nel più completo silenzio, rotto solo dai loro respiri.
La mattina seguente Anna si svegliò di buonumore, non disse una parola a Luca riguardo quel che era successo la sera prima e preparò la colazione canticchiando - anche più allegra del solito, in realtà. Stava versando il caffè in due tazze, quando Luca entrò in cucina e rimase a bocca aperta al vederla ancheggiare a tempo con la musica che scivolava via dalle casse dello stereo. In quel momento ripensò alle poche parole che le aveva sussurrato mettendola nel proprio letto, prima di addormentarsi cullato dal suo respiro. Pensò a come quel respiro la rilassasse, a quanto bene avesse dormito avvolto nel suo odore dolce di vaniglia, a quanto fosse bello vederla così allegra e di buonumore. Pensò a quanto fosse sexy in pantaloncini a maglietta trasparente, mentre ballava pensando che nessuno la stesse a guardare.
«Buongiorno», la salutò Luca con un mezzo sorriso passandosi una mano tra i capelli, intenerito dalla sua reazione. La ragazza si fermò all'improvviso, voltandosi verso di lui con gli occhi sgranati e le guance rosse dalla vergogna. Non riuscì a muoversi, mentre lui scoppiava a ridere e le si avvicinava per baciarla su una guancia. «Dormito bene?», aggiunse inarcando un sopracciglio per trattenere un'altra risata.
Benissimo, dormirei nel tuo letto tutte le notti.
«Una favola...», mormorò riprendendo a cucinare, ripensando alla traccia lasciata dalle sue labbra sulla propria guancia quando l'aveva salutata solo qualche secondo prima. Lo sentì sorridere anche senza bisogno di vederlo, prima che prendesse a fischiettare qualcosa di familiare che però non riusciva a riconoscere. «Grazie per avermi messa a letto, a proposito».
Suonava quasi come un ringraziamento di convenienza, come fossero due completi estranei, come se non passassero pomeriggi interi a guardarsi, chi dipingendo e chi leggendo di ragazzi comuni dotati di superpoteri. Anna lo vide  serrare la mascella, in risposta al suo grazie decisamente troppo sostenuto per due che si conoscevano da quella che sembrava una vita; lo vide mordersi un labbro, prendere un croissant e tornare verso la camera da letto, lasciandola con un sopracciglio inarcato e un buco nello stomaco che le fece passare l'appetito.
Che avevano che non andava? Perché semplicemente non si fermavano un momento per parlarne?
La ragazza dai capelli blu sbuffò pesantemente, prima di uscire dall'appartamento senza il coraggio di dire una parola. Ancora con addosso i vestiti con cui aveva dormito, senza nulla nello stomaco e con gli occhi che le si riempivano di lacrime un respiro dopo l'altro. Non voleva piangere, non poteva piangere per lui - che aveva fatto, in fondo? Nulla. Assolutamente niente. Ma forse era proprio quello che la infastidiva, il fatto che lui non parlasse, che non facesse niente per farle capire.
Luca aveva appena dato un calcio al proprio comodino, in compenso. Respirava forte, con una mano ridotta ad un pugno e l'altra infilata nei capelli, a tirali tanto quasi da strapparseli di dosso. Non poteva fare così, e lo sapeva. Non poteva essere dolce come il miele la sera prima e comportarsi come uno stronzo il mattino seguente. Non poteva baciarla su una guancia l'attimo prima e serrare la mascella scappando da lei l'attimo dopo.
Eppure continuava a farlo.
«Tuo fratello è un... pasticcio, ecco... è un pasticcio di ragazzo, cazzo!». Anna stava borbottando nel telefono, seduta con la schiena posata contro la ringhiera, sulla terrazza in cima al palazzo dove abitava con Luca. Aveva composto il numero della propria migliore amica senza nemmeno rendersene conto, mentre la prima di un'infinita serie di lacrime faceva capolino alla superficie dei suoi occhi scuri, in quel momento quasi neri - tanto da far fatica a distinguere l'iride dalla pupilla.
«Mio fratello non è un pasticcio, piccola... è proprio un coglione». Soprattutto quando si tratta di te, avrebbe voluto aggiungere la ragazza, a troppi chilometri di distanza per poter fare concretamente qualcosa. E per fortuna riuscì a far ridere Anna, o avrebbe preso di corsa il primo aereo, per abbracciare lei e riempire di schiaffi lui. «Che ha fatto stavolta?».
«Nulla, lui non fa mai nulla...».
«Anna...».
La più piccola sospirò pesantemente, passandosi una mano tra i capelli per poi finire a giocherellare con una treccina. «Ha detto di avere bisogno di me come Peter ne ha di Gwen», borbottò, sentendo le guance andare a fuoco nel tempo di un battito di ciglia. Udì la migliore amica trattenere il respiro, prima che lo rilasciasse direttamente nel microfono del cellulare. «Ci sei?».
«Mh... ci sono, e sono appena arrivata ad una conclusione...».
«Che sarebbe?».
«Luca non è un coglione, ha solo paura di perderti...».
Ma quelle parole, anche se erano le più vere che esistessero, non cambiarono nulla. Per quanto fosse strano, Luca e Anna tornarono alla loro routine. Come se lei non avesse dipinto quel tramonto o lui non l'avesse baciata tra i capelli; come se lei non avesse finto di essersi addormentata e lui non l'avesse presa in braccio e adagiata nel proprio letto. Come se lei non sapesse di essere la sua Gwen, come se lui non volesse essere il suo supereroe.
Anna continuò a dipingere tramonti e temporali e mari in tempesta. Luca continuò a leggere i propri fumetti e ad uscire per fumare e a tornare a casa tanto tardi da trovarla già apparentemente addormentata. Lei continuò a guardarlo di tanto in tanto e lui continuò ad osservarla tra una vignetta e l'altra. Capitava che alla ragazza dai capelli blu scappasse un sorriso, al quale sorprendentemente il ragazzo dei fumetti non riusciva a resistere, quindi le rispondeva. E si guardavano, si sorridevano, capitava che si baciassero sulla guancia senza che riuscissero ad impedirlo, che si sfiorassero per sbaglio.
E Luca continuò ad uscire ogni sera cercando di chiarirsi le idee e tornando sempre tardi, ad orari improponibili. Anna continuò a preoccuparsi notte dopo notte, restando sveglia fino a che non lo sentiva rientrare, finché non lo sapeva al sicuro nel letto accanto al proprio.
L'unica notte che però Anna si addormentò davvero, fu l'unica in cui Luca ebbe l'idea geniale di bere abbastanza da perdere la cognizione del tempo.
Fu la notte nella cui lei sognò una bambina mora dai capelli ricci e con gli stessi occhi di Luca, con quella strana tonalità di marrone che aveva visto solo lì, in lui e in nessun altro. Fu la notte nella cui lui perse il conto dei bicchierini di vodka liscia che gli scivolarono lungo la gola come acqua. Fu la stessa notte in cui Luca tornò nel piccolo appartamento intorno alle tre del mattino, facendo talmente tanto baccano da farla svegliare di soprassalto.
Sveglia all'improvviso e con la sua risata amara nelle orecchie, Anna quasi non si accorse delle imprecazioni che lasciavano le proprie labbra, almeno finché il rumore di qualcosa che si rompeva non le arrivò alle orecchie e la fece scendere dal letto alla velocità della luce, anche se barcollava come un'ubriaca. Non era lei ad aver bevuto... lui aveva bevuto, lui stava ridendo di se stesso, lui non riusciva a camminare dritto senza far cadere qualcosa al suolo e romperla.
«Piccola Gwen!», la salutò Luca a voce alta - tanto alta, quasi urlando - aprendo le braccia e urtando una lampada posata su un tavolino vicino all'ingresso, ma prendendola stranamente al volo prima che potesse toccare il suolo e distruggersi in mille pezzi. «L'hai toccata tu la lampada? Perché io non l'ho sfiorata... forse è caduta da sola o forse c'è un fantasma che ci perseguita o forse sono gli alieni, Gwenny!». Aveva appena parlato più veloce di quanto non avesse mai fatto in tutta la propria vita, e - al contrario di qualsiasi altro ubriaco - non aveva nemmeno biascicato con le parole. Aveva semplice detto qualsiasi cosa gli passasse per la mente, come se bocca e cervello fossero stati... scollegati, in un certo senso.
«O forse sei ubriaco», gli fece notare la ragazza, anche se ancora mezza addormentata. Represse a malapena uno sbadiglio, guardandolo divertita mentre lui inarcava un sopracciglio e sgranava leggermente gli occhi al vederla in pigiama... beh, in maglietta bianca e slip neri, a dire il vero. «E ora ti metto a letto, okay? Prima che ti vengano strane idee...», aggiunse a bassa voce arrossendo appena sulle guance e sul collo.
«E tu dormi con me?».
Anna scoppiò a ridere, scuotendo la testa, prima di tendergli una mano e guardarlo negli occhi. «Intanto pensiamo a farti bere un bel bicchiere d'acqua a lavarti i denti e a cambiarti...». Sembra che ti abbiano vomitato addosso, avrebbe voluto aggiungere, ma si limitò a ridacchiare mentre lui indicava un punto a caso della cucina e sorrideva come un cretino.
Il castano lasciò che lei si prendesse cura di lui. Forse si fece sfuggire qualcosa su quanto la trovasse incredibilmente bella o su quanto il piercing al labbro inferiore la rendesse sensuale o su quanto i suoi occhi neri gli facessero tremare le ginocchia se ci guardava dentro troppo a lungo. E gli venne da ridere ogni volta che lei arrossiva come un'adolescente, ogni volta che gli occhi le brillavano di divertimento guardandolo, ogni volta che si mordeva il labbro per impedirsi di ridere con lui.
«Ora devi dormire, piccolo Spiderman».
Luca la osservò mentre scendeva da uno degli sgabelli della cucina con un saltello e uno sbadiglio, accorgendosi solo dopo qualche minuto del nomignolo con cui l'aveva chiamato, sorridendo di uno dei sorrisi sbilenchi e con gli occhi che le brillavano che a lui piacevano tanto. La seguì verso la camera da letto, senza perderla di vista mentre ancheggiava, avvicinandosi a lei tanto da poterle sfiorare i fianchi e farla fermare in mezzo alla stanza con un respiro incastrato in gola.
«C-che stai facendo?».
«Dormi con me», le sussurrò piano all'orecchio, avvicinandosi tanto da respirarle sulla pelle, tanto da farle venire la pelle d'oca sulla nuca. Le strofinò il naso dietro l'orecchio, respirandone l'odore e provando per un momento la tentazione di farla voltare e baciarla. Baciarla e basta. E la sua non era una domanda... «Sai, prima che mi vengano strane idee», aggiunse, sentendola sorridere quando riconobbe le sue stesse parole.
«Sei ubriaco...», cercò di opporsi la ragazza, ma nemmeno con troppa convinzione. Le importava davvero che lui fosse ubriaco? Almeno stavano parlando, si stavano guardando senza distogliere lo sguardo dopo dieci secondi scarsi, e lui le stava tanto vicino da non riuscire a ragione, da non riuscire a respirare, quasi.
«Solo dormire, tengo le mani a posto, te lo prometto».
Anna si voltò verso di lui con entrambe le sopracciglia sollevate, trattenendo un sorriso mordendosi il labbro. Poteva fidarsi di un ventunenne ubriaco? No, decisamente no. Ma poteva fidarsi di lui? «Okay, tanto domani non te lo ricorderai nemmeno», borbottò poco convinta delle proprie parole. Non la parte in cui accettava di dormire con lui, cullata dal suo respiro e immersa nel suo odore di sigarette; era poco convinta della seconda parte, quella in cui credeva che lui la mattina seguente non avrebbe ricordato nulla.
Vide i suoi occhi illuminarsi nella penombra, più lucenti di qualsiasi stella si potesse vedere dalla finestra aperta, più della luna che si vedeva appena in quella notte piena di nuvole. E vide le sue labbra tendersi in un sorriso che era il più bello del mondo, in quel momento. Abbassò le palpebre per un istante, per riaprirle di scatto quando sentì le labbra del ragazzo che le piaceva praticamente da sempre... sulla fronte.
«Me lo ricorderò, piccola». Continuava a sussurrare, come se fosse un segreto, come se volesse essere sentito solo da lei. Come se ci fosse qualcun altro oltre a loro. «Ora mi metti a letto?», le mormorò senza allontanarsi, senza riuscire a farlo. Quasi imprimendole il proprio respiro contro la pelle, regalandole in un respiro tutto quel che non era mai riuscito a dire... mai, se non quella notte. Avrebbe dovuto ubriacarsi prima, magari, darsi una mossa qualche secolo prima.
E Anna avrebbe voluto prenderlo a testate solo perché continuava a chiamarla piccola. Avrebbe voluto essere abbastanza forte da spingerlo via, lontano da sé, almeno quanto bastava da non avere il suo odore così impresso nelle narici. Avrebbe voluto sollevarsi in punta di piedi e lasciarsi baciare sulle labbra, anche, ma in qualche modo lui la faceva sentire così... piccola, che quasi non riusciva a muoversi, quando lui era così vicino.
Non disse una parola, però. E non si sollevò sulle punte per baciarlo. Con un bel respiro profondo riuscì ad allontanarsi di un passo, ma non riuscì a sollevare lo sguardo dalle proprie mani, mentre trovava l'orlo della maglietta e lo sollevava verso l'alto fino a togliergliela e sentirlo ridacchiare. Borbottò qualcosa di poco comprensibile persino alle sue stesse orecchie, qualcosa che somigliava ad un "oh, ma taci", che fece ridere il castano anche più forte di prima.
A lei però la risata in risposta alla sua morì in gola.
Con lo sguardo ancora basso, lontano dal suo viso, si sentì sbiancare e subito dopo arrossire violentemente. Non aveva mai fatto caso a quanti tatuaggi avesse, ma quello... quello l'avrebbe notato anche un cieco. Lei avrebbe dovuto notarlo, era tanto evidente da far male. Poi però si rese conto di averlo sempre evitato quando lo vedeva a petto nudo, o che fosse proprio lui ad evitare di spogliarsi in sua presenza, come se volesse nasconderle qualcosa.
E in quel momento era tutto così chiaro, cristallino, che Anna avrebbe voluto mettersi a piangere.
C'era il suo nome, tatuato sotto al pettorale sinistro di Luca. Ma non era un tatuaggio come gli altri, era più come se lui avesse voluto tatuare proprio lei, sul proprio cuore. Il suo nome era tracciato sulla pelle come fosse dipinto, come una scia di vernice lasciata da un pennello, con proprio un pennello disegnato alla fine della scia.
Era il suo nome. La sua passione.
Era lei. Sul suo cuore. E per quella che le parve un'eternità, le mancò il respiro.
Però non disse nulla. Si lasciò scappare un sorriso, trattenendo le lacrime; non poteva crollare davanti a lui, era ubriaco e la mattina seguente si sarebbe scordato tutto, giusto? Si passò velocemente una mano tra i capelli e sollevò lo sguardo al cielo per fermare il pianto, pensando a quanto fossero strani lei e Luca. Loro non si parlavano, vivevano di sguardi. Loro si nascondevano le cose, poi però non riuscivano a stare l'uno senza l'altra. Loro passavano ore in silenzio nella stessa stanza. Loro... erano loro.
«Devi dormire, forza», riuscì a dirgli con voce stranamente ferma, stampandogli un bacio sulla guancia, abbastanza vicino alle labbra da farlo sogghignare tra sé, stando attento a non farle notare nulla, come faceva sempre. E le diede ascolto, passandosi una mano sugli occhi cercando di spazzare via la stanchezza e la sbornia, ma senza troppo successo. «E meno male che non ti sei fatto pestare», aggiunse con un sorriso amaro la ragazza, evitando il contatto visivo, evitando di mostrargli i propri occhi, la propria espressione, la propria preoccupazione celata.
«Tu la maglietta non te la togli?».
Anna si limitò a scuotere la testa cercando di non ridere. L'avevo detto che ti sarebbero venute strane idee, pensò giocherellando col piercing al labbro. Gli diede una pacca su una spalla, facendolo ridacchiare, prima che sbadigliasse, e lo spinse sul materasso stropicciandosi un occhio. Era - come dire - combattuta. Avrebbe voluto sdraiarsi accanto a lui, eccome se l'avrebbe voluto. Avrebbe voluto... tante cose, in realtà.
«Luca?».
«Mh...?».
«Sarò sempre la tua Gwen, vero?».
Dimmi che ti ricorderai di come siamo stati bene stanotte. Dimmi che continueremo ad essere così anche quando sarai sobrio. Dimmi che potrò ancora dipingere mentre tu leggi e che leggerai ancora mentre io dipingo. Dimmi che...
«Sarai sempre la mia piccola Gwen, lo sei sempre stata».
E dicendolo abbassò le palpebre, mettendo da parte la sbornia e le battute squallide e lo sguardo malizioso che aveva cercato di non rivolgerle, ma che da ubriaco gli veniva naturale, impossibile da fermare. E forse furono quelle parole, o forse fu il suo distogliere lo sguardo da lei, lasciandole il proprio spazio, il tempo di ragionare per qualche secondo, prima di lasciarsi andare.
La ragazza sospirò appena, prima di lasciare un bacio leggero sulla fronte di Luca e sdraiarsi al suo fianco nel letto ad una piazza. Minuscolo, apparentemente. Ma una buona scusa per farli stringere l'una all'altro, del resto. Una buona scusa per nascondere il viso nell'incavo del suo collo e respirare profondamente. Una buona scusa per rilassarsi completamente andando a tempo col battito del suo cuore.
E «Buonanotte, uomo ragno».
Ma lui stava già dormendo.
Ed era troppo carino quando dormiva, con le labbra dischiuse e leggermente protruse all'infuori. Le palpebre abbassate e le ciglia visibili anche nella penombra che gli si adagiavano delicate sugli zigomi e le sopracciglia rilassate, non inarcate come al solito. Non aveva la fronte aggrottata, né la piccola ruga tra le sopracciglia, ma un ciuffo di capelli che gli ricadeva sulla fronte - ciuffo che tentava la ragazza a sfiorarlo, a scostarlo di mezzo, ad infilare le dita tra quei capelli e perdercisi.
Se si addormentò, Anna non se ne rese nemmeno conto. Si ritrovò sveglia con la luce del sole ad illuminarle il viso, bassa, come se appena albeggiando. Allo stesso tempo le sembrava di aver dormito una notte intera, cullata dal battito di cuore su cui il proprio orecchio era placidamente posato, eppure pareva avesse dormito dieci minuti, o che non avesse dormito affatto.
Aprì gli occhi con l'accenno di un grugnito - non riuscendo davvero a mettere a fuoco - sentendo poi un respiro pesante arrivarle tra i capelli come una folata di vento in pieno agosto. E trattenne il respiro, avvertendo poi la presa di una mano stringersi sul proprio fianco. Ricordò la notte prima nel giro di un battito di cuore, Anna. Ricordò la lampada caduta e presa al volo e Luca che aveva bevuto decisamente troppo e i complimenti che le aveva fatto e come era arrossita. Ricordò la loro vicinanza. Le sue mani sui propri fianchi e il suo respiro contro l'orecchio, quasi come in quel momento. Ricordò come l'avesse visto addormentarsi nel giro di pochi secondi, giusto il tempo di posare la testa sul cuscino.
Si ritrovò ad avvampare, quando finalmente si rese conto di stargli sdraiata sopra. E che lui era a petto nudo. E che lei aveva le labbra a pochissima distanza dal suo collo. E che la sua mano era davvero sul proprio fianco, stringendola come se avesse effettivamente avuto paura di perderla da un momento all'altro. Le sfuggì un sospiro che lo fece rabbrividire e sospirare con lei subito dopo, prima che riuscisse a scivolare via dalle lenzuola senza cadere dal letto e senza svegliarlo.
Con la luce soffusa dell'alba, il tatuaggio che aveva solo intravisto la sera prima le parve più nitido e ancora più bello. Le sembrò il gesto d'amore più bello del mondo e sicuramente il più profondo che qualcuno avesse mai fatto per lei. E quasi non poteva credere che Luca avesse fatto una cosa del genere per lei... almeno finché non le tornarono alla mente le ultime parole che le aveva detto in un soffio la sera precedente prima di crollare addormentato.
«Sarai sempre la mia piccola Gwen, lo sei sempre stata».
Lo sei sempre stata. Sempre.
Il sorriso che le spuntò sulle labbra quasi la stordì. Non era abituata a sorridere in quel modo, tanto da far comparire la bellissima fossetta sulla guancia sinistra; non era abituata ad avere un motivo per cui sorridere così. Felice davvero. Sorriso vero, il più vero di sempre forse. E lo guardò dormire per qualche istante, mentre sorrideva, con l'alba che entrava dalla finestra e le labbra schiuse e il lenzuolo bianco a coprirgli i fianchi.
Ci mise davvero pochissimo a prendere l'occorrente per dipingere dall'armadio. Una tela pulita, i colori ad olio, una serie di pennelli e la tavolozza più pulita che riuscì a trovare mentre continuava a sorridere e sperava che la luce non cambiasse troppo in fretta da rovinare tutto, tutta quella magia che le pareva di vedere guardandolo.
Abbozzò il disegno dopo essersi legata i lunghi capelli blu in una crocchia disordinata e fermata da una vecchia matita. Tracciò i contorni in un lampo - anche più velocemente e in modo più preciso del solito - cullata dal suono del respiro di Luca nelle orecchie; ne disegnò i tratti del viso senza perdere il sorriso ma con espressione concentrata, lo disegnò come se lo stesse accarezzando, socchiudendo gli occhi quando si ritrovò ad immaginare la sensazione che gli dava solo far finta di toccarlo; scese a disegnare la spalle e il petto nudo e una delle due mani che penzolava nel vuoto, quasi a toccare il parquet; scese ancora sui fianchi, sul lenzuolo che lo copriva.
Aggiunse qualche dettaglio, mentre la luce aumentava progressivamente.
Poi prese i colori, controllando che lui continuasse a dormire. Il respiro era sempre regolare, le labbra ancora schiuse, le palpebre ancora abbassate, e le ciglia proiettavano la loro ombra leggera sulle guance. Dipinse su quella tela come stesse immergendo le dita nella vernice fredda e stesse colorando direttamente sulla sua pelle, riproducendo ogni dettaglio, ogni più piccolo neo e ogni tatuaggio. Dipinse il suo compagno di stanza come in una fotografia.
Con un fumetto lasciato aperto sullo stomaco prima di addormentarsi e la maschera di Spiderman, che giaceva da giorni sul pavimento come abbandonata, nella mano che gli penzolava giù dal letto.
Copiò i raggi del sole che lo illuminavano ma senza riuscire a svegliarlo. E copiò qualsiasi altro particolare le capitasse sott’occhio in quella stanza, sentendo le dita formicolarle e gli occhi bruciarle per lo sforzo e soffocando uno sbadiglio dietro l'altro per non svegliare Luca.
Perse la cognizione del tempo, mentre ritoccava la sua espressione sulla tela perché sembrasse il più reale possibile, in modo che sembrasse di star guardando davvero l'uomo ragno che dormiva, in modo che quasi sembrasse di essere dentro il quadro, nella stessa stanza con lui. Se ne poteva quasi sentire il respiro rilassato di chi sta sognando, solo dando un'occhiata alla tela, e...
La ragazza fece appena in tempo a gettare un vecchio lenzuolo sulla tela che aveva terminato giusto un attimo prima di vedere Luca far sfarfallare le ciglia e sollevare le palpebre. Svegliato dalla luce del sole, ore dopo l'alba. E gli occhi castani richiusi dopo qualche istante, infastiditi dalla luce stessa e dal dolore che sentiva alle tempie, conseguenza della sbronza della sera prima.
Quando finalmente riuscì a mettere a fuoco la stanza, mugugnando per il dolore alle tempie, Anna era già sparita. L'aveva lasciato con la tela coperta dal lenzuolo e la propria confusione a battere contro le pareti della scatola cranica; si era rifugiata in bagno mordendosi forte un labbro per non scoppiare a sorridere come una stupida, buttandosi sotto la doccia per provare almeno per un secondo a smettere di pensare.
Le mani smisero di tremarle a mano che l'acqua calda le scorreva contro la pelle, mentre dall'altra parte del muro Luca veniva sommerso dalle memorie della notte precedente. Dai bicchieri di vodka, innanzitutto. Di come fosse tornato a casa in piena notte e avesse quasi fatto crollare la lampada dell'ingresso al suolo. Di come avesse parlato con Anna come forse non aveva mai fatto, sorridendo quando lei arrossiva e provando il desiderio irrefrenabile di toccarla. Ricordò di averla toccata, alla fine, di averla presa per i fianchi e di averle sussurrato qualcosa nell'orecchio - forse le aveva chiesto di dormire con lui, ma non lo ricordava con certezza.
Era immerso nelle proprie memorie confuse, quando lei uscì dal bagno canticchiando, in asciugamano e capelli legati sulla cima della testa per non bagnarli durante la doccia. «Buongiorno...», lo salutò lei con un sorriso, sfiorandosi quasi senza volerlo dietro al collo, dove il tatuaggio col logo di Batman era libero di essere visto. «Ti ho lasciato due aspirine in cucina», aggiunse la ragazza dai capelli blu notando che lui sembrava non riuscire a dire nulla.
Lui deglutì pesantemente, rigirandosi poi nel lenzuolo per nascondere il viso nel cuscino e cercare di attenuare il cerchio alla testa dato dalla vodka. La sentì ridacchiare, mentre si vestiva di corsa, attenta a non farsi vedere nuda. Decisamente non era il caso, per quanto sarebbe stato divertente poter osservare la sua espressione. «Grazie, piccola», mormorò il castano separandosi per un istante dal cuscino per guardarla, lasciando cadere l'occhio sulle sue dita, impegnate a chiudere il bottone dei jeans strappati.
Non la vide arrossire, la sentì solo trattenere il fiato.
«Ce la fai a riprenderti?».
«Il mio senso di ragno dice che ce la posso fare, sì».
Anna scosse la testa divertita, avvicinandosi poi a lui e chinandosi per lasciargli un bacio sulla fronte. Allontanandosi gli scompigliò il capelli già disastrati dalla nottata, incurante della smorfia che vide comparire sul suo viso. «Sono a pranzo con le mie amiche, okay?», aggiunse guardandolo per un attimo negli occhi prima di prendere le chiavi dell'appartamento e la borsa.
Lui annuì, decidendo finalmente di uscire da sotto le lenzuola e stiracchiarsi, ignorando il dolore alla spalla procuratogli indirettamente da Anna che ci aveva dormito sopra. E «Aspetta, cosa c'è sotto il telo?».
Lei esitò per qualche secondo, prima di provare il sorriso più vero che riuscisse a tirar fuori senza sembrare terribilmente nervosa. «L'ho dipinto mentre dormivi... non lo toccare, è ancora umido», mormorò appena, sciogliendosi i capelli e avvicinandosi alla porta, pronta per uscire. Non lo toccare. Non gli aveva detto di non scoprirlo, né di non guardarlo.
Sapeva quanto lui fosse curioso. E sapeva che gli sarebbe un infarto, quando avesse scoperto la tela. Però cercò di non pensarci, mentre scendeva di corsa le scale del palazzo con le treccine che ad ogni scalino le rimbalzavano sulla schiena; cercò di non far caso al peso che sentiva al centro del petto; cercò di non pensare alla reazione che avrebbe avuto lui vedendosi nella tela; e cercò di non far vedere alle proprie amiche quanto fosse sulle spine, anche se se ne sarebbe accorto anche un cieco.
E Luca era davvero tanto curioso, Anna lo conosceva troppo bene. Tanto bene da sapere che lui non avrebbe aspettato nemmeno un attimo in più, prima di scoprire la tela. Tanto bene da immaginare i suoi occhi scuri sgranati e le sue labbra aperte a formare una "o". Tanto bene da poterne quasi intuire il respiro fermarglisi in gola. Tanto bene da poterlo vedere dietro le palpebre mentre correva in cucina a prendere le aspirine e poi infilava un paio di jeans saltellandoci dentro per fare più in fretta, mentre mangiava controvoglia sotto gli sguardi apparentemente non troppo attenti delle amiche.
Ma forse non abbastanza bene da sapere che sarebbe corso a cercarla. Non era il genere di cosa che in effetti avrebbe fatto, non in circostanze normali. Quelle però non erano circostanze normali, se si era appena accorto di star sorridendo come un perfetto idiota davanti ad un dipinto; non erano circostanze normali se non riusciva a smettere di pensare a lei e se sorrideva tipo paralisi facciale ogni volta che lei ridacchiava arricciando il naso o mordendosi il labbro giocando con la pallina del piercing.
Non erano circostanze normali. Lei gli piaceva, e lui era stato tanto stupido da non riuscire ad ammetterlo, fino a quel momento. Pensava che ammetterlo gli avrebbe rovinato la vita, probabilmente, o che avrebbe rovinato la loro amicizia, la loro convivenza. Aveva avuto paura di perderla, era piuttosto ovvio... ma ora c'era quel quadro, e lei evidentemente aveva visto il tatuaggio col suo nome, e che motivo c'era di continuare a negare l'evidenza? Che motivo c'era di far finta che lei non lo calamitasse a sé con un semplice sorriso? Che motivo c'era per evitare di pensare che avrebbe voluto dormire abbracciato a lei tutta la vita?
Si passò una mano tra i capelli, inviando un "dove siete?" ad una delle ragazze che era a pranzo con Anna. Potevano essere in uno qualsiasi dei fast food della città, e lui non poteva permettersi di girare per ore prima di trovarle, prima di trovare lei. Aveva una tale voglia di stringerla a sé che scoppiò a ridere - e poi corse più forte che poté - quando Rachele gli rispose con poche parole e un paio di quelle faccine perverse che facevano presupporre che la ragazza stesse inarcando le sopracciglia con un sorriso malizioso.
Corse, Luca. Più del vento.
Tanto da rimanere senza fiato quando arrivò a pochi passi da lei e la vide rimanere a bocca aperta e occhi sgranati, con la forchetta a mezz'aria e l'altra mano passata in fretta nei capelli per non fargli notare quanto stesse tremando. Si alzò velocemente in piedi ignorando le risatine delle amiche come se non esistessero, troppo concentrata sul suo petto che si alzava e abbassava in fretta mentre cercava di riprendere fiato, concentrata sulla sua mano premutasi sul fianco mentre lo sforzo di aver corso così forte passava.
«Va a fuoco l'appartamento, oddio», esclamò avvicinandoglisi.
Luca rise, tra un respiro strozzato e l'altro. «Non va a fuoco niente», ammise lui guardandola negli occhi e sollevando appena un lato della bocca. Poteva vedere i pensieri e le congetture formarsi dietro quella massa di capelli tinti di cielo notturno, mentre ricambiava lo sguardo e si tratteneva dal mordersi il labbro fino a farlo sanguinare. «Avevo solo bisogno di vederti».
E lei fece appena in tempo ad inarcare un sopracciglio e schiudere le labbra per dire qualcosa. Fece a malapena in tempo a prendere un respiro che sapeva terribilmente di fumo di sigarette, prima di sentire le mani del ragazzo prenderle il viso e le sue labbra posarsi frettolose sulle proprie. Non lo sentirono, l'applauso di metà del ristorante. Non le sentirono, le amiche di Anna che ridevano e commentavano ogni secondo di quel bacio.
Non si accorsero di nulla.
Luca era troppo preso dal sentire le mani di Anna salirgli su per il torace fino a trovare il suo collo e poi perdersi tra i propri capelli. Troppo preso dal suo odore di vaniglia e dal suo sapore di cioccolato al latte. Troppo preso dallo stringere i suoi fianchi per evitare che lei si allontanasse anche solo di qualche millimetro per respirare. Preso dalle sue labbra, dal suo respiro che gli entrava dentro come se quello fosse stato il suo posto da sempre, dalla sua lingua che lo accarezzava come se non avesse voluto fare altro da tanto, troppo, tempo.
E Anna era troppo presa da Luca per accorgersi di qualcosa. Troppo presa dalla sua stretta sui fianchi e dalle sue dita che dopo qualche istante le scivolarono sotto la maglietta. Troppo presa dall'odore della sua pelle e dal sapore delle sue labbra. Troppo presa dallo stringergli i capelli. Troppo presa dal mordergli le labbra e accarezzare la sua lingua con la propria. Presa dal suo respiro e dai suoi capelli e dalla sua pelle e dal sapore di tabacco e menta che sentiva - finalmente - sulla punta della lingua.
La baciò fino a sentire il fiato mancare, lui.
Si lasciò baciare fino a sentire i polmoni bruciare, lei.
Luca era troppo preso dal sentire le mani di Anna salirgli su per il torace fino a trovare il suo collo e poi perdersi tra i propri capelli. Troppo preso dal suo odore di vaniglia e dal suo sapore di cioccolato al latte. Troppo preso dallo stringere i suoi fianchi per evitare che lei si allontanasse anche solo di qualche millimetro per respirare. Preso dalle sue labbra, dal suo respiro che gli entrava dentro come se quello fosse stato il suo posto da sempre, dalla sua lingua che lo accarezzava come se non avesse voluto fare altro da tanto, troppo, tempo.
E Anna era troppo presa da Luca per accorgersi di qualcosa. Troppo presa dalla sua stretta sui fianchi e dalle sue dita che dopo qualche istante le scivolarono sotto la maglietta. Troppo presa dall'odore della sua pelle e dal sapore delle sue labbra. Troppo presa dallo stringergli i capelli. Troppo presa dal mordergli le labbra e accarezzare la sua lingua con la propria. Presa dal suo respiro e dai suoi capelli e dalla sua pelle e dal sapore di tabacco e menta che sentiva - finalmente - sulla punta della lingua.
La baciò fino a sentire il fiato mancare, lui.
Si lasciò baciare fino a sentire i polmoni bruciare, lei.
«Ehi, uomo ragno...», lo chiamò Anna strofinando appena il naso contro il suo. Non riusciva a staccarsi da lui, né dai suoi capelli che erano davvero morbidi come aveva sempre immaginato. Gli sorrise contro la pelle, prima di arrossire violentemente e succhiargli il labbro inferiore, lasciandolo col rumore dello schiocco nelle orecchie e sulla pelle.
«Ehi, piccola Gwen», mormorò lui di rimando, facendola ridere mentre lo abbracciava, col viso nascosto nell'incavo del suo collo. Come quella notte. Come forse sarebbe successo anche la notte seguente, e quella dopo, e quella ancora successiva. «Passavo di qui, sai, per andare al negozio di fumetti... cercavo giusto qualcuno da salvare».
«Io aspettavo solo qualcuno che mi salvasse», ammise la ragazza con un sorriso.
E quel sorriso, insieme al sorriso in risposta che comparve sulle labbra di Luca, fu l'inizio di tutto. L'inizio della ragazza che dipingeva e del ragazzo che si nutriva di fumetti. L'inizio della ragazza dei capelli blu e di colui che avrebbe voluto davvero essere l'uomo ragno.
Il loro inizio, in quel semplice sorriso.

 
   
 
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