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Autore: Nanek    19/05/2015    10 recensioni
E da sciocco credo sia anche una buona idea prendere un pezzo di carta, una penna e fingermi come la mamma, piccoli miei, fingermi scrittore e non compositore, fingermi autore di questa storia che chissà se mai vi verrà voglia di conoscere, di leggere.
Io la scrivo lo stesso, forse perché mi sento troppo ispirato, forse perché ora capisco cosa prova la mamma quando dice di dover sfogare su carta quello che le frulla in testa.
E pensare che tutti non ci avrebbero scommesso un dollaro su di noi.
E pensare che doveva finire nell’arco di qualche mese.
E pensare che era considerato tutto impossibile.
Perché, dai, chi crede che un cantante famoso possa innamorarsi perdutamente di una fan?

Una tra mille, milioni, una che non la distingui neanche dalla folla, una che è lì e ti sembra uguale a quella accanto.
Solo una fan in mezzo ad un mare di volti che cantano le tue canzoni, volti sempre diversi.
Dai, chi ci crede che questo possa funzionare davvero?
Beh, io e la vostra mamma lo abbiamo fatto.
~
Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=kLzoGYhAfeE
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Luke Hemmings, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lune's Love'
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1. Enchanted
 
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And it was enchanting to meet you
All I can say is I was
enchanted to meet you
 
 
E non mi scorderò mai quel momento, quell’incontro.
Quella ragazza con la frangia, gli occhiali neri, i capelli così biondi che la si poteva notare a chilometri di distanza.
E quegli occhi blu poi, quegli occhi che ti squadrano dall’alto al basso come se avessi qualcosa fuori posto, chi se li scorda?
Sicuramente non io, che mi sono guardato i pantaloni e la camicia nel tentativo di trovare la macchia di pomodoro fresca sul tessuto, dato che ero appena uscito dal ristorante.
Perché la mamma è sempre così, non trovate?
Non lo fa di proposito, non lo fa con cattiveria, ma la prima cosa che fa appena ti incontra è fissarti, è guardarti intensamente, per poi focalizzarsi solo sui tuoi occhi, o sulla tua bocca.
Quella sua mania di leggere le labbra, inizialmente non capivo perché lo facesse, mi sembrava quasi strano, assurdo, bizzarro.
Ma, con il tempo, sono riuscito anche a dare una risposta a questo dubbio.
E quella voce poi.
Quella voce che si è rivolta a me con un tono più alto.
Un accento particolare, un inglese per niente masticato, per niente suo, come se le facesse addirittura schifo usarlo per parlare con me.
E poi, la soluzione più che logica, dato che mi trovavo a Milano.
«Sono italiana, odio l’inglese ma per te parlerei anche turco» e quella confessione detta con quel sorriso, quella confessione che mi ha fatto andare il sangue in faccia: mi sono sentito un po’ spiazzato, un po’ imbarazzato, tanto da abbassare ancora lo sguardo.
«Scusa, non volevo offenderti» e la mamma si scusa sempre, anche quando non dovrebbe.
Quel gesto timido, quella mano che ha spostato una ciocca di capelli dietro l’orecchio, i nostri occhi di nuovo a fissarsi, i nostri sorrisi timidi, quel cellulare dalla cover gialla a forma di pinguino, quella foto che lei conserva ancora da qualche parte, la prima di una lunga serie.
«Ti piace? Io lo adoro questo pinguino, e adoro il giallo, se non si fosse notato dai capelli e dallo zaino» e io non parlavo, non trovavo il coraggio necessario, non trovavo le parole giuste da dirle.
Lei era solo una fan, era una tra tante, era solo un viso nuovo, un viso che avrei scordato nel giro di cinque minuti.
«Mi chiamo Vanessa, comunque, per quanto possa importare» e ho notato quella nota amara nella sua voce, ho notato quella delusione che ha velato appena quel blu, l’ho notato quel sorriso tirato che mamma fa sempre quando non è felice.
«Posso… Beh, sarò sincera: ho fatto una scommessa» e la mamma non dice mai “no” ad una scommessa «Se ti incontravo… beh, ho giurato di lasciarti il mio numero… non devi farci niente ma… beh, questo è tutto» e quasi balbettavo: chi l’avrebbe mai detto che una così timida fosse anche così… così diretta? Così sicura? Così menefreghista?
«Good girls are bad girls» ha sorriso, mentre mi mettevo quel pezzo di carta in tasca, mentre lei trovava il coraggio necessario a chiedermi un’ultima cosa.
«Un abbraccio, poi me ne vado, lo giuro» e quel suo “lo giuro” l’ho sentito ripetere fino all’esaurimento.
Perché giurare su cose così semplici?
Perché giurare ogni volta?
Perché preoccuparsi così tanto?
Lei era solo una fan, le fan possono chiedere qualsiasi cosa, sono nostre fan e vanno accontentate sempre.
Ho annuito come un idiota, mentre l’accoglievo tra le mie braccia.
La sentivo stringermi, sentivo quel suo profumo avvolgermi piano, quell’aroma che ho scoperto essere il profumo di Justin Bieber, e non potete immaginare quante prese in giro si è guadagnata negli anni.
Ho abbracciato quel corpo esile, ho lasciato che le nostre guance si sfiorassero mano a mano che ci allontanavano piano.
Le ho sorriso, mentre le sue guance si tingevano di rosso, mentre quel sorriso prendeva spazio in quelle labbra, mentre mi salutava piano e si allontanava lontana da me.
E quel foglietto è rimasto nella mia tasca per tutta la durata del concerto.
E mentre cantavo, inutile dire che la cercavo.
Ma perché, poi?
Perché questa fissa?
La verità è che non lo so.
Ho solo tentato, sono solo scappato in macchina a fine concerto, mi sono fatto tre rampe di scale in hotel e mi sono pure reso conto di essere nella stanza sbagliata, quella di Michael e Calum.
Ma avevo troppa fretta.
Mi sono lavato in neanche venti secondi, asciugandomi i capelli alla meglio, spruzzandomi il profumo dello zio Michael di fretta, quel profumo che mi ha pure fatto venire mal di testa.
Ho fissato la mia immagine allo specchio: forse, un matto avrebbe avuto un aspetto migliore del mio.
Ho preso quel foglio.
Ho digitato quei numeri.
Ho aspettato e aspettato.
E, finalmente, di nuovo quella voce.
«Pronto?»
E l’italiano ancora non lo capivo bene, neanche ora, ad essere onesti, ma almeno qualche parola la so dire, anche se voi, marmocchi, mi prendete in giro.
«Vanessa?»
Silenzio.
«Vanessa, sono Luke, sono Luke Hemmings» e io stesso ero spaventato dalla mia voce.
Ero completamente andato, ero completamente impazzito.
«Davvero?» e quell’accento inglese era tornato.
«Sì, sono io. Ci siamo incontrati oggi, dai, hai una cover gialla con il pinguino» la prima cosa che mi sono ricordato.
«Scusa, Luke, puoi ripetere? Scusa, ma non capisco bene l’inglese, scusa, lo giuro non sto fingendo» e non mi sono neanche reso conto di aver parlato come un fulmine.
«Merda, scusami tu! Scusa-» un respiro profondo, velocità ridotta «Ti scrivo un messaggio, okay?».
«Okay, Luke. Mi scrivi un messaggio, ho capito» chiamata terminata.
Ho digitato le prime cose che mi sono venute in mente, avevo le dita che si intrecciavano tra di loro, avevo l’ansia nelle vene.
“Vanessa, sono Luke. Sì, sono Luke, ci siamo visti oggi, hai la cover gialla con il pinguino, giusto? Senti, non so se sei ancora qui in giro, ma… ci provo: ti va di vederci? Solo un’oretta? Mangiamo un gelato, basta che mi dici dove sei”
Inviato.
Senza pensare, senza riflettere, senza dubitare di lei e della sua onestà.
Ho aspettato la bellezza di sei minuti e mezzo, prima di veder lampeggiare il suo numero sullo schermo.
“Io… sono qui in zona, sì. Ma sono con mio padre e… beh, ehm. Dovresti fargli vedere che sei tu, perché… beh, crede tu sia un maniaco… e… beh, ci vediamo al Duomo?”
E io che le ho dato piena fiducia, sono passato per il maniaco di turno.
“Va bene, non preoccuparti, ti capisco. Ci vediamo lì tra… dieci minuti?”
“Sì, Luke, ci vediamo lì”
Beh, bambini miei, ho conosciuto il nonno alla tenera età di diciotto anni –dovevo ancora compiere i diciannove- e dire che sono stato fulminato da un paio di occhi come quelli della mamma… è usare un eufemismo.
Bruciato sul posto, squadrato dall’alto al basso, una stretta di mano che a momenti gliela lasciavo lì.
Il mio inglese incomprensibile, il nonno che non lo parlava –e non lo parla tutt’ora-, la mamma che ha tradotto ogni cosa, per tipo cinque minuti, fino a farmi avere la benedizione per quella misera uscita.
A mezza notte meno dieci ho avuto il consenso.
E a mezza notte e mezzo dovevo portarla in hotel, non un solo minuto di più.
Siamo rimasti soli, la mamma che non ha osato guardarmi in faccia per cinque minuti.
«Scusa, davvero, io… scusa e basta. Mi sento così idiota, ridicola, scusa, davvero» cinque minuti di scuse, mentre io tentavo di inoltrarmi in qualche altro argomento.
Cinque minuti di scuse e poi una conversazione normale.
Ho scoperto tante cose, quella sera.
Ho scoperto che la mamma è più grande di me, di ben tre anni, ho scoperto che studiava lingue all’università, ho scoperto che le lingue dei segni sono diverse da paese a paese, ho scoperto che grazie a me si è innamorata degli Sleeping with Sirens, ho scoperto che ama la cover Iris, ho scoperto l’esistenza di Charlie, ho scoperto che ama scrivere e che scriveva tante –troppe- storie su di me.
«E cosa scrivi di me?»
«No, dai… non chiedermi queste cose, mi vergogno»
«Ma almeno dimmi cosa scrivi, nel senso, come mi descrivi nelle tue storie? Sono cattivo? Sono un Mr. Grey mancato?» e quell’ipotesi l’ha fatta ridere.
«In fin dei conti non mi hai mai conosciuto… vorrei sapere cosa ti immagini»
E lei ci ha pensato un po’, prima di rispondere.
«Ti descrivo come un angelo, come l’unica persona al mondo in grado di amare una come me. Sono una povera illusa, tutta colpa di Nicholas Sparks»
Un sorriso amaro.
«Credi di sbagliare?»
Ho deglutito rumorosamente nel porle quella domanda, come se avessi avuto paura della sua risposta.
«A volte… sì.»
E quella confessione mi ha fatto inciampare sui miei stessi passi.
«Perché?»
E volevo a tutti i costi farle cambiare idea, toglierle quel dubbio dalla testa.
«Beh… dai, Luke, lo so come gira il mondo delle star… tanta fama, tanti soldi, tante persone attorno» esitazione «… tante belle ragazze pronte a farsi avanti» e l’ho vista mordersi il labbro.
«Non lasciare che false voci rovinino quello che pensi di me. Quello che immagini tu è bello, è puro, è…»
«Luke, non serve che ti giustifichi, davvero. Non sono una bambina, spegnerò ventidue candele ad agosto, non ho bisogno del paraocchi, lo giuro»
E quel giuramento è stata la sua prima bugia.
Perché io già capivo.
Già sapevo cosa c’era dentro quella mente, già sapevo cosa rimbalzava da un pensiero e l’altro.
E questo mi è servito a perdere il coraggio di prenderle la mano.
Non l’ho fatto, l’ho rimessa in tasca, ho capito che non era quello il momento.
«Beh, ti è piaciuto il concerto?» ho chiesto, mentre un sorriso compiaciuto si è fatto avanti nel viso della mamma.
«Il concerto… è stato meraviglioso, davvero» ha cominciato così il suo mega discorso su quella data del tour: ha parlato di Ashton, delle parole che ha detto e che l’hanno colpita, stupita; ha parlato di Michael, della sua tinta blu, del suo essere così tenero e simpatico mentre si rivolgeva alla folla; ha parlato di Calum, del suo assolo con il basso, dei suoi sorrisi, della sua voce stupenda…
E poi… ha cominciato a parlare dei maxi schermi.
«Ti giuro, un’impresa a farvi le foto! Venivate male, tipo tutti bianchi, ed ero troppo lontana per farvi foto senza guardare lo schermo!» tutta una polemica inutile, che ascoltavo appena, perché volevo solo… sì, volevo sapere i suoi pensieri su di me.
Ma lei sembrava averlo già capito.
«Non mi hai fatto piangere neanche sta volta, sai? Eppure, quando sono a casa, a volte mi scappa una lacrima su alcune canzoni… ma sta sera, non ho pianto»
«Non capisco se la cosa è un bene o un male»
Una risatina.
«Beh… diciamo che… è un bene. Vuol dire che… beh, insomma, eri lì, davanti a me… ti ho sentito vicino a me, ti ho sentito proteggermi in ogni singola parola»
Le sue dita hanno portato una ciocca di capelli dietro l’orecchio, un sorriso sincero mentre i nostri occhi si incontravano.
«Ho urlato le frasi che volevo dedicarti. Le ho urlate così forte che, anche ora, ho la gola che mi fa male. Mi rendi felice con le tue canzoni, la tua voce, la tua musica. Mi rendi felice, migliore, e sono felice di averti trovato, due anni fa, per caso»
Il cuore mi è balzato in gola.
Le ho sorriso di rimando, mentre mi sentivo quasi più leggero, come se la sua presenza fosse familiare, come se stessi parlando con una persona non troppo distante dalla mia vita, dal mio mondo.
Con la mamma, quella sera, mi sentivo già a casa.
A mezza notte e venticinque, eravamo già all’ingresso del suo hotel.
«Mi dispiace per il gelato, ma abbiamo parlato e parlato» mi sono scusato alla meglio, grattandomi la nuca nervosamente, mentre la mamma si limitava a fissarsi le mani.
«Non importa, Luke. Anche solo parlare con te per un po’ è stato perfetto»
E no, bambini, papà non l’ha proprio lasciata andare via così.
«E se volessi rivederti?»
Mai scandito così bene delle parole in vita mia.
«Luke…»
«Non sto scherzando»
«Non devi sentirti obbligato, io sono solo…»
«Senti, io vorrei rivederti, non ti sto chiedendo se sei una fan o la prima persona ad odiare la mia musica, okay? Ti sto chiedendo questo, di rivederti, puoi solo rispondere?»
«Io… Luke, perché? Cioè, io… sto andando nel pallone»
Perché mamma si lascia sempre influenzare da quello che vede, che legge.
«Sì o no, Vanessa, niente altro» e metterla alle strette mi piace troppo, ancora oggi.
«Sì, Luke. Possiamo rivederci, va bene, ora?»
E la mamma mi ha pure negato un sorriso.
Cioè, nel dire quella frase, ha anche avuto il coraggio di restare seria, davanti ai miei occhi, davanti al mio rossore, al mio sorriso.
La mamma sa essere stronzetta, molto spesso.
Ma la amo, bambini miei, la amo così tanto che non ci sono parole per descrivere quello che provo.
Sta di fatto che in quel momento, mi ha negato un sorriso.
Le ho baciato la guancia a mezzanotte e ventinove.
«Ti scrivo»
«Ti rispondo»
E ringrazio le sue amiche, ringrazio quella scommessa, o starei ancora cercando il suo viso nella folla.
 





Note di Nanek
Una settimana tonda tonda, dono fiera di me!
Primo capitolo, insomma.
Voi non avete idea di quanto sto dannando per sta storia :D
La mia beta mi ucciderà quando arriveremo alla fine LOL
Per chi non lo sapesse e notasse questa malformazione professionale: noi al nord tendiamo a raccontare fatti passai al passato prossimo (come si nota in sta storia) e chiedo scusa se suonerà strano, in qualche modo.
Sono così preoccupata per questa cosa che ho pure cercato in internet una soluzione, e ho trovato scritto:
“Usiamo il passato prossimo per esprimere un'azione compiuta o un accadimento che "lasciano tracce" (come diceva Giacomo Devoto) nel presente. Usiamo il passato remoto per manifestare il distacco, e quindi la lontananza, di tali avvenimenti dal momento in cui ne parliamo. Dobbiamo perciò intendere remoto nel suo significato etimologico di "separato", "staccato", "rimosso"; e prossimo come indicante vicinanza o attualità psicologica.”
Sì, vi ho appena citato una pagina web sull’uso del passato prossimo/remoto LOL
In sostanza, mi sono affidata a questa citazione per scrivere sta storia, ossia che il passato di Luke e Vanessa viene raccontato con vicinanza e influenza sulla loro vita attuale, spero abbia senso ciò che ho scritto.
Bene, dopo questa mia perla inutile, vi dico solo: GRAZIE.
Grazie a chi ha letto il prologo, grazie alle recensioni super tenere che ho trovato, grazie a chi sta dando una possibilità a questa storia, GRAZIE perché boh… io ci sto mettendo l’anima e… spero davvero di non deludere le vostre aspettative.
Con questo, vi do appuntamento a settimana prossima <3
Se avete domande, o altro, i miei contatti sono sempre questi:
Twitter: @Vanek5SOS
Ask: Nanek 
Facebook (condiviso con Andysmile): Andysmile Nanek Efp DliffordBemmings
Grazie ancora per tutto <3
A presto!
Nanek
 
 
  
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