Serie TV > Pretty Little Liars
Ricorda la storia  |      
Autore: Phoebus    19/05/2015    3 recensioni
Il liceo di Rosewood è in fibrillazione: quella sera sarebbe stata la gran serata del ballo per i dieci anni dal diploma. Ci sarebbero stati tutti. Alunni diventati ormai grandi, professori malinconici. Musica, drink, atmosfera. E i ricordi.
I ricordi dei compiti in classe, delle lezioni noiose, delle risate tra amici, degli amori passati.
E degli amori che non passano mai.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Emily Fields, Paige McCullers
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Il titolo, come uso fare spesso, è tratto da un’omonima canzone che descrive alla perfezione tutta la storia.
Dedicata all’Amore, quello che non passa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Fotografie della tua assenza
 
 
 
Il sole iniziava ad abbassarsi: l’orizzonte si fece sfumato, di un rosa così acceso che me ne accorsi solo quando lo era già diventato. Non ho mai capito come fa la gente a notare i piccoli particolari, i dettagli, le sottigliezze del momento, mentre io mi perdo nel grande delle cose. È sempre stato così.
Fu proprio così che mi accorsi, sobbalzando, che per una buona mezzora avevo fantasticato seduta sul letto, perdendomi come in un sogno. Fantasticato su quello che sarebbe accaduto quella sera, fantasticato su cosa avrei dovuto indossare per l’occasione, su chi avrei incontrato, su come sarebbe stato.
La festa per i dieci anni dal diploma.
Già dieci anni.
Eppure, se ci rifletto bene, sembra passata una vita. E se non ci rifletto, solo un battito di ciglia.
Da quando, qualche anno fa, ho preso in gestione il Brew non ho avuto molte serate per me: a volte le mie amiche vengono direttamente al bar a farmi compagnia e a spettegolare sulle colleghe dei loro ragazzi. Nel caso di Spencer, del marito.
Che strano effetto mi fa pensarli sposati. Mi viene da sorridere. Devo ammettere che sono meravigliosi con quell’anello al dito; lo sono davvero e si guardano come se si conoscessero da un giorno ma si amassero da sempre. Succede, quando guardi l’altro come se non esistesse niente al di fuori di lui, con tutto l’amore che traspare. Lo vedi davvero. È un po’ come osservare la strada d’estate: puoi vedere l’afa salire dall’asfalto, oltre che sentirla nell’aria e sulla pelle.
Credo che non potrò mai dimenticare l’emozione provata quando Toby, quella mattina di gennaio, venne al bar tutto imbacuccato nel giaccone scuro; fuori faceva freddissimo. Ordinò due caffè, uno per me ed uno per lui e mi chiese di sedermi. Avevo mille cose da fare, ma lui insisté.
“E va bene! Ma fa presto, non ho molto tempo. La ragazza nuova non può essere lasciata sola per troppo tempo al bancone. Non sa ancora fare la schiuma del cappuccino.”
Lui sorrise e fece un giro di parole assurdo; io non riuscivo neanche a seguirlo per paura che qualche cliente iniziasse a lamentarsi. Alla fine mi porse un mazzo di rose bianche e mi chiese di essere la sua testimone di nozze. Fu un bengala nel cielo.
Poi non so cosa accadde: lasciai da parte i clienti, la ragazza e il bar. Lo abbracciai forte, fortissimo e mi congratulai con lui mettendomi quasi a piangere per la gioia. E presi un vaso per le rose.
Ero davvero felice per Spencer e Toby, se lo meritavano. Ero felice per la mia amica e forse ancor di più per lui: era sempre stato un amico sincero, il primo con cui mi sono confidata, il primo a cui dissi di me, uno dei pochi che, quando mi guarda, sa leggermi dentro e non mi giudica. Non se ne trovano molti di ragazzi così.
Di ragazze, forse ancora meno.
Qualcuno bussò alla porta della mia stanza, facendomi ripiombare nella realtà di quella sera d’agosto.
“Em ci sei? Sei pronta?” – senza nemmeno attendere, Aria superò la porta semichiusa e mi guardò incredula.
“Non credo di aver detto avanti.” – la rimproverai.
“Io invece credo che tu abbia proprio bisogno di me! – si fece più vicina – Guardati! Sono le otto passate e tu sei ancora in queste condizioni?! Dovresti essere già pronta, la festa è tra nemmeno un’ora! Forza, fammi vedere cos’hai qui.”
Senza attendere altro, come per il mancato avanti, si precipitò oltre il mio letto e spalancò l’armadio. Io ero ancora seduta e la lasciavo fare: volevo andare alla festa, volevo andarci davvero, avevo bisogno di divertirmi, di staccare la spina e non pensare ai pagamenti, agli orari e alla routine per una sera. Ed ero tranquilla per il bar, lo lasciavo in buone mani.
Eppure…
Eppure c’era qualcosa di strano in me. Nell’aria. Nel vento che tirava piano. O in qualche altra cosa, ma c’era. Era evidente, lo sentivo.
“Trovato niente?”
Aria riemerse dopo interminabili minuti di apnea in un mare di vestiti succinti e abiti eleganti.
“Ecco, ci sono! Aspetta un attimo, sì. Indosserai questo.”
E mi porse il risultato. Proprio quello che io avrei scartato senza pensarci due volte.
“Cosa?! Ma sei impazzita? Non devo mica rimorchiare qualche prof!”
“So bene che non puoi rimorchiare qualche professore, a limite qualche professoressa. Dalla quarantina in giù.”
“Aria.”
“Che c’è? Dicono che le persone mature, specie le donne, sanno il fatto loro.”
“Aria!”
Lei rise, sinceramente divertita dalla mia reazione. E mi faceva piacere vedere come, finalmente, riusciva a scherzare sull’età; fino a qualche anno fa non l’avrebbe fatto con tanta leggerezza. Forse davvero le cose tra lei ed Ezra stavano virando nel verso giusto.
“Emily, per favore, rifletti!”
“Su cosa dovrei riflettere.”
“Da quanto tempo sei single?”
“Cosa? Beh, da qualche anno.” – risposi e presi le scarpe nere col tacco alto che già avevo preparato. Ero sicura che lei avrebbe notato il mio tentativo di evasione.
“Non qualche anno. Sono quattro anni che Alison ti ha lasciata.”
Ecco lo sapevo.
“E con questo? – risposi facendomi seria – E poi sono io che l’ho lasciata. Ed ho avuto le mie storie anche dopo Alison. E, sai, continuo ad averle.”
“Bene, allora il bar da i suoi benefici.” – disse Aria mentre, con sguardo complice, mi porse l’abito nero, con un’ampia scollatura in raso e schiena scoperta. Per di più era molto corto: due mani sopra il ginocchio.
“Aria, non penserai mica che io…”
“Sì, penso proprio che indosserai questo. Direi che è perfetto.”
“Aria, io direi che questo sarebbe troppo anche per andare nel locale più gay che conosca. Figuriamoci a scuola!”
Lei rise a crepapelle e poi mi mise il vestito davanti, come a voler immaginare come mi stesse.
Si fece un po’ più seria, mi strizzò l’occhio con fare ammiccante e mi ordinò di indossarlo e di non metterci troppo dato che eravamo già in netto ritardo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Ricordami perché ti ho dato ascolto.”
“Emily, scusa, mi reggi un attimo la borsetta? – Aria era incantevole nel suo vestito rosso e, prima di entrare a scuola, volle darsi un’ultima sistemata all’acconciatura. Qualcuno captò la sua attenzione.
Proprio in quel momento, il portone si socchiuse appena e ne uscì un ragazzo. Doveva avere quasi trent’anni, ma ne mostrava qualcuno in meno. Ed aveva sempre quell’aria da bambino vispo.
Il mento era coperto da un sottile strato di barba lasciata incolta. I capelli, lunghi e castani, gli sfioravano le spalle; non era molto alto, ma aveva un bel portamento.
La giacca grigia gli cadeva a pennello. Il ragazzo sembrava cercare qualcosa nelle tasche, forse il cellulare. Lo trovò subito.
Poi alzò lo sguardo, ci vide e sorrise.
“Ragazze!” – Caleb lasciò da parte il telefono e ci venne incontro, salutandoci con un caloroso abbraccio. Gli anni su di lui avevano uno strano effetto: lo facevano sembrare più giovane, ma allo stesso tempo era evidente la sua maturità. Adesso lavorava come programmatore e, a causa delle molte ore che passava davanti ai computer, portava gli occhiali.
“Caleb, ciao! – Aria lo squadrò con finta autorevolezza e poi si complimentò con lui per la scelta della tonalità di grigio. Merito di Hanna, rispose il giovane – A proposito, lei è già dentro?”
“Sì, non ha saputo resistere. Tornare al liceo è davvero…strano! Almeno per me, lei l’ha trovato elettrizzante.”
“Tipico di Hanna!” – dissi, ridendo. Riuscivo ad immaginarla indaffarata nei giudizi sugli abiti delle altre prima ancora di averla vista.
“Ehi, bellezza. – qualcuno dalle mie spalle mi sorprese poggiandomi una mano sul fianco. Mi urtai talmente tanto che stavo per voltarmi e prenderlo a schiaffi senza nemmeno guardare, quando… - Non dirmi che volevi colpirmi, Em!”
“Toby! – lo abbracciai mentre lui ancora rideva di gusto a mie spese – La prossima volta faresti meglio a palesarti prima, se non vuoi rischiare! Non mi piacciono le sorprese, lo sai! Quando mi hai detto che ti sposavi mi stava per venire un infarto. Non ho avuto quel batticuore nemmeno nelle finali di nuoto, tanto per rimanere in tema liceo!”
I ragazzi risposero a tono e la serata si preannunciava davvero divertente; ne avevo bisogno, lo capivo solo stando con loro. I miei amici. Quelli che ci sono stati sempre e che ci saranno, nonostante tutto. La famiglia che scegli.
Hanna e Spencer erano già dentro: ogni ex alunno doveva tornare nell’aula di letteratura del suo ultimo anno, così si sarebbero ricreate le classi. Ogni alunno al suo banco. Gli attuali docenti avrebbero fatto un breve discorso di apertura, poi ci sarebbe stato l’intervento del preside e poi nei corridoi e in giardino si sarebbe tenuto il rinfresco con la musica.
Era richiesto l’abito: elegante per le donne, giacca per gli uomini. In fondo, era un ballo.
Il ballo dei dieci anni dal diploma.
Aria chiese ai due ragazzi un’accurata descrizione di chi fosse già arrivato: l’attrattiva di un’anteprima era troppo allettante.
“Praticamente tutti.” – rispose Caleb.
Fu poi la volta della domanda per eccellenza: cosa indossavano.
“Questo credo che dovrai domandarlo ad Hanna. È lei l’addetta alla descrizione del vestiario di ogni ex alunno, uomo o donna!”
“Specialmente donna.” – intervenne Toby, supportato da un cenno d’assenso dell’amico.
“Già, forse hai ragione. – convenne Aria – Allora che aspettiamo? Entriamo. Siamo già in ritardo per i primi scoop!”
“Sì, andiamo. Voglio proprio vedere Hanna! Sfoggerà un abito da urlo!” – presi sottobraccio la mia amica e salimmo i primi gradini dell’ingresso.
“Oh, puoi scommetterci!”
Quanto tempo sono dieci anni?
Quante esperienze, sensazioni, lutti, speranze amori e ricorrenze sono?
Quanta vita può passarci attraverso in dieci anni?
Mentre salivo gli scalini, mi sembrarono un’eternità. Era cambiato tutto: eppure tutto era ancora uguale a come lo avevo lasciato. Quegli scalini erano sempre gli stessi. La loro altezza, la loro profondità. Salirci produceva sempre un senso di appartenenza e un leggero ticchettio.
Ero eccitata all’idea di rivedere i miei compagni di scuola, di fare con loro quelle chiacchierate, quei discorsi da liceali passati. Magari qualcuno mi avrebbe parlato del suo matrimonio; sapevo che tre ragazze che nuotavano in squadra con me ora avevano figli; un’altra era già divorziata per colpa della famiglia del suo ormai ex marito. Non avevamo nemmeno trent’anni, ma la vita scorreva. Stava scorrendo. E ci aveva cambiato, in bene o in male. Ci aveva cambiato per sempre.
Ci aveva cambiati tutti.
Il tempo non risparmia nessuno.
Ed io avrei detto loro di me: avrei detto che gestisco un bar, che ne sono entusiasta, che vivo da sola e che è da un po’ che non mi innamoro. Magari, su quest’ultimo punto avrei sorvolato.
Volevo godermi la serata, volevo godermi quest’onda di spensieratezza. Volevo rientrare al liceo e pensare che, per una sera, mi sarei rivista com’ero. Mi sarei risentita come a diciotto anni.
Poi tutto si bloccò: i miei ragionamenti, la mia voglia d’evasione, i miei tentativi. Toby mi afferrò il polso, obbligandomi a fermarmi sull’ultimo gradino.
“Cosa c’è? Tu non entri?” – gli chiesi, mentre Aria continuava ancora a parlarmi del vestito di quella secchiona in storia.
Lui sembrava serio e ci mise talmente tanto a rispondere che anche Aria si accorse che forse qualcosa non andava.
“Emily, posso parlarti un secondo?”
“Sì, certo. – non so perché, ma capii subito quello che voleva dirmi – Aria, tu va’ pure. Ti raggiungiamo tra un momento.”
“Ok, ma non rubarmela Toby. Ho bisogno di lei per i commenti più audaci! Ci vediamo dentro ragazzi.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
L’avevo capito subito, ma Toby me lo disse chiaramente solo quando ci appartammo in un angolo del giardino dove si sarebbe svolta a breve la festa. Non so dire cosa provai in quel momento: forse tutto quello che si può provare, tutto quello che un cuore può contenere.
Una cosa è certa. Da quando Toby mi disse di lei, non pensai a nient’altro.
Mi venne voglia di andarmene e, allo stesso tempo, di rimanere.
Volevo rivederla ancora una volta e volevo dimenticarla per sempre.
Si possono volere queste cose contemporaneamente? Si può, in un momento, cambiare tutto ciò che si pensa e ricominciare qualcosa che si credeva finito, morto? Si può?
Non lo so.
So solo che presto l’avrei rivista e che non ero pronta. Non lo si è mai.
Io non lo sono mai stata con lei.
Non ero mai stata all’altezza di quello che lei era e di tutto l’amore che mi aveva dimostrato quando stavamo insieme.
“Tengo molto a te, Em. Perciò ho voluto che tu lo sapessi prima di entrare e, magari, prima di ritrovartela di fronte all’improvviso. L’ho vista poco fa e pensavo fosse meglio fartelo sapere.”
“Grazie…” – dissi, prendendolo sottobraccio e poggiandomi un po’ a lui.
“Come stai? – era preoccupato per me. I suoi occhi lo dicevano – Posso fare qualcosa?”
“Sto bene. È vero, è tanto che non la vedo ma non è un problema.”
“Non devi fingere con me.”
“Dico sul serio, Toby. Stasera la rivedrò e… - feci una leggera pausa guardandolo - …starò bene. Davvero.”
Una voce metallica ci impedì di proseguire e subito alzammo gli occhi verso l’altoparlante che capeggiava sul portone del giardino. Era sempre allo stesso posto di dieci anni prima, con lo stesso suono.
“Gli studenti sono pregati di entrare e prendere posto. A breve inizierà la festa nel giardino sul retro. Vi ricordiamo che anche i corridoi sono addobbati per balli e banchetti. Cinque minuti al discorso del preside.”
Toby si sistemò la cravatta blu con fare altezzoso; so che voleva farmi sorridere e ci riuscì.
“Signorina, vogliamo andare?”
“Con piacere!” – presi la mano che mi stava offrendo e ci incamminammo. Era il mio migliore amico e io ne ero immensamente felice.
“Non so se le ho detto che questo vestito le dona particolarmente, signorina Fields.”
“Sono curiosa di sapere cosa pensa a riguardo sua moglie, signor Cavanaugh.”
“Sono sicuro che lei non si offenderà se le dico che, per me, mia moglie è sempre un gradino al di sopra delle altre.”
“Cammina, scemo!” – mi fece proprio ridere. E ridere con lui è una delle cose che ho sempre amato di più.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il discorso del preside fu un momento bizzarro. Stare seduti in quei banchi fu come tornare indietro nel tempo, in senso letterale. Materiale.
Sembrava uno di quei film in cui il protagonista può rivivere per un momento, per una sera, o solo per un’ora, qualcosa del suo passato. Strano, non saprei come altro definirlo. È come lasciare il proprio corpo e guardarsi da fuori, mentre la vita accade.
Anche Ezra, in quanto professore, disse qualcosa su quegli anni; i suoi primi anni di insegnamento a Rosewood, i migliori, disse lui. E certo non solo per l’organizzazione della scuola e l’accoglienza ricevuta dal resto dei docenti: parlava guardando di sfuggita Aria e quegli sguardi erano come carezze silenziose. Anche questo era come dieci anni prima.
Ricordo che ogni lezione con lui era sempre una guerra di occhiate ardenti. Ce ne eravamo accorti tutti, forse lo ignoravano solo loro due.
Un applauso e finalmente potemmo alzarci per dirigerci verso il corridoio e il giardino. Hanna lasciò la mano di Caleb e prese subito me e Spencer di lato.
“Ragazze, vi aspettiamo al banchetto fuori. – ci disse Toby – Ehi, Caleb, guarda quello lì! Non è James?”
“Sì diamine! Andiamo a salutarlo!”
I due si incamminarono verso un loro compagno di corso e noi ragazze attraversammo l’ampio corridoio pieno di armadietti, salutando a destra e sinistra.
C’erano tutti, tutti i volti che avevano accompagnato le nostre mattinate scolastiche, piene di sbadigli, aspirazioni e amori sussurrati.
Spencer si allontanò perché aveva riconosciuto alcuni suoi compagni dei vari ed innumerevoli corsi extra che, solo lei, aveva il coraggio di frequentare nelle ore pomeridiane. L’abbiamo sempre invidiata per l’assidua perseveranza che aveva dimostrato di avere, non solo a scuola.
Io ed Hanna prendemmo un drink, leggermente alcolico, e proseguimmo.
“Emily.”
“Sì?” – Hanna si era fermata improvvisamente come se avesse visto un muro insormontabile.
“C’è qualcuno che non so se vuoi vedere. – indicò poco avanti a noi – Se vuoi usciamo senza salutarla. Basterà tenere lo sguardo fisso sulla porta in fondo.”
Davanti a noi un gruppo di ragazze confabulava allegramente; al centro, una di loro teneva vivo il discorso. I suoi capelli lunghi, boccolosi e biondi non ammettevano dubbi. Alison era la regina dell’alveare, com’era sempre stata.
Una del gruppo ci indicò e lei si voltò a noi, accennando un saluto che non so definire se non forzato.
“Nessun problema, Hanna. – la rincuorai – Vado un attimo da lei.”
“Non sei tenuta a farlo.”
“Non mi crea problemi. Ho superato da un pezzo quella fase.”
Lasciai Hanna col suo drink in mano; un tipo a me sconosciuto prese il mio posto e si mise allegramente a parlare con lei. Io mi incamminai verso Alison con passo deciso, ma senza troppa insofferenza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Salutarla e parlare con lei fu, non so come dire, “normale”.
Era come aver incontrato qualcuno che avevo lasciato anni addietro, fermo in una fase vecchia della mia vita, e che non mi creava problemi; ora non più. Era passato e lei era una parte del mio passato. Ed io ero contenta così.
Non era lei il mio tarlo. E purtroppo ci ho messo anni per capirlo: la nostra storia non ha mai funzionato realmente: volevamo cose troppo diverse e, quando mi decisi a dirglielo, fu una liberazione. Fu allora, in quel momento di quattro anni fa, nel mio appartamento vuoto di lei, che capii di non aver mai capito cosa volessi davvero.
Ma di questo ero certa: non era lei che volevo nella mia vita.
Perciò la salutai come una vecchia amica; potevo farlo senza pesi sul cuore e, anche se vedevo che le dispiaceva del nostro finale, per me non fu lo stesso. Nemmeno il suo abito aderente poteva turbarmi.
Non provavo desiderio né rancore per Alison; forse indifferenza sarebbe la parola giusta.
Non mi emozionava, non tremavo di fronte a lei, non balbettavo più quando mi guardava con quello sguardo, non ero più in suo potere. Non lo ero da tempo. In questo caso, ero cambiata parecchio da dieci anni a questa parte.
E, mentre mi rincamminai sui miei tacchi alti per tornare da Hanna, ero serena. Sorseggiai il drink.
Non ero felice: ci vuole ben altro per essere felice, ma serena sì. Non dipendevo da Alison, non più.
“Il nero ti ha sempre donato. Lo ricordavo, ma vederti è tutta un’altra cosa.”
Dietro le mie spalle una voce, la sua. Un respiro accelerato, il mio.
Il bicchiere mi scivolò di mano.
Lo vidi cadere, come a rallentatore, così come il mio cuore. Effetto artistico di una cinepresa antica.
Sentivo che, da quel preciso istante, da quella sorta di saluto, da quella frase, tutto iniziava a sgretolarsi per finire in mille pezzi. Pensavo non sarebbe potuto accadere mai più. Pensavo di essere immune a quest’effetto del cuore.
Pensavo che non avrei mai più sentito quella voce, la sua, incrinata al punto giusto. Arco teso verso di me.
E soprattutto pensavo che non avrebbe mai più pronunciato il mio nome.
Non così. Non con tutta quella dolcezza, quell’accento gentile.
Forse mi sbagliavo, forse ho solo immaginato di sentirla; devo aver bevuto troppo. Eppure è il primo drink, per quanto alcolico.
I frantumi di vetro sono sparsi intorno a me; un cameriere si è precipitato e li sta raccogliendo, sembra alquanto urtato. Qualche coppia si è voltata dopo il fragore vetrato delle schegge.
“Mi scusi, non volevo, io…” – il cameriere sorrise e mi disse qualcosa che non ricordo. Qualcosa come non si preoccupi. Poi lei.
Lei.
Non l’avevo ancora vista, ma ne sentivo la presenza dietro di me. Era come…
Come se il tempo non fosse realmente passato, come se mi stesse ancora chiamando per chiedermi di uscire o di andare a nuotare insieme.
Lei.
Implosa, dentro di me.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Se avessi saputo che ti avrei fatto quest’effetto, non mi sarei avvicinata!"
Non mi ero neanche accorta di essermi chinata a raccogliere i pezzi di vetro più grandi. Non mi ero accorta che si era chinata anche lei.
Alzai gli occhi e i suoi erano lì, scuri e profondi, davanti a me. Poi sorrise.
“Paige…” – e poi sorrise il mio cuore.
Prese i cocci dalle mie mani e le passò al cameriere che, ancora confabulando, spazzava via gli ultimi rimasti sul pavimento.
La guardai assorta, mentre si voltava per prendere un altro bicchiere da un vassoio vicino. E, prima di passarmelo, si sistemò i lunghi capelli dietro l’orecchio sinistro. Erano davvero lunghi, lunghi come non li avevo mai visti.
Aveva ancora quel piccolo neo sulla guancia.
Aveva ancora quel viso forgiato, perfetto e liscio.
Aveva ancora quell’espressione di accecante ed innocente bellezza.
Aveva tutto quello che avevo lasciato andare. Tutto quello che avevo perso. Tutto di lei era com’era sempre stato, eppure più bello che mai.
Le prime note e i primi sguardi nella sala: coppie che si ritrovano a porsi tutte la stessa domanda.
All of me.
A volte sembra che certe canzoni capitino proprio quando hanno le parole giuste per descrivere ciò che proviamo, la sensazione del momento. Potrebbe essere solo un caso, il fato, ma sarebbe comunque un fato ben organizzato.
Forse John Legend l’ha scritta pensando a lei, come avrei dovuto fare io. Come ho fatto tante volte in questi anni, dopo averla lasciata andare.
Non lo so, so solo che riuscivo solo a guardarla. E a guardarla muoversi.
Non ricordo se le dissi qualcosa; riuscivo a sorridere nel mondo più sincero che potessi.
E guardarla.
Guardarla ancora.
Guardarla in quei pantaloni bianchi e lisci, perfettamente stretti, come perfetta era quella camicia nera e perfetto anche quel piccolo papillon, nero su nero.
“Ti va di ballare?”
La domanda più semplice da fare in un ballo. E le dissi sì.
Lei sorrise di rimando e mi prese la mano, portandomi leggera al centro del corridoio addobbato a festa, mentre poggiava l’altra sul mio fianco.
Le luci si fecero soffuse per il momento del lento.
Eravamo così vicine. Così di colpo, in paradiso.
Noi.
What would I do without your smart mouth, drawing me in and kicking me out.
Lei.
I lunghi capelli mossi creavano contrasto con l’oscurità sul petto chiuso nella camicia di raso, per poi brillare di riflesso sulla giacca bianca. Tutto di lei era una poesia.
Tutto mi parlava di lei.
Tutta quella musica era sua. Tremendamente sua, ogni parola.
Il pianoforte accompagnava la nostra danza. La mia mano sulla sua spalla. Intorno a noi, coppie vorticanti e musica.
Colori sotto la luce bassa, sguardi rapiti, voglia di dire tante cose ma nessuna parola che uscisse. C’era solo quella melodia e lei.
What’s going on in that beautiful mind?
Non potevo parlare, non riuscivo a parlare. Ero emozionata e volevo che lo sapesse.
Ma lei mi guardava, lo faceva forte, lo faceva bene, talmente tanto che dovetti dire qualcosa: c’era troppa alchimia tra noi in quel momento. Rischiavo di avvicinarmi troppo alle sue labbra.
“Hai scelto proprio una bella canzone per invitarmi a ballare!"
Le sorrise e schiuse le labbra.
“I’m your magical mystery ride...”
Mi si sciolse qualcosa dentro, come neve.
“Paige…avrei tanto voluto chiamarti, sapere dov’eri....”
Lei tolse la mano dal mio fianco e pose delicatamente le dita sulle mie labbra dischiuse in quel tentativo di scuse.
“Ti prego Emily, non roviniamo anche questo momento. Balla con me, non chiedo altro…”
Lo sussurrò piano, ma fu come se quelle parole mi riecheggiassero dentro. Non volevo più tenerle la mano sulla spalla: le cinsi il collo, con entrambe le mani, fino a che i nostri corpi furono così vicini che lei non poté far altro che stringermi, incrociando le braccia sulla mia schiena e respirando sentendo dentro di se' l'eco del mio respiro.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Toby, chi è quella con cui sta ballando Emily? Non riesco a vederla bene da qui.”
“Paige, tesoro.”
“Paige?! Paige McCullers??”
“Sì, certo.”
“Paige! E da dove sbuca?”
“Spencer, ti ricordo che anche lei si è diplomata qui dieci anni fa.”
“Lo so ma poteva almeno avvertirci! Invece di presentarsi qui così all’improvviso e mandare Emily in totale confusione!”
“Io lo sapevo.”
“Cosa?!”
“Ti ho detto che lo sapevo, Spencer.”
“L’hai detto ad Emily?”
“Certo. Gliel’ho detto prima che entrassimo.”
“Ora capisco perché ci avete messo tanto ad entrare. Ho paura per lei, per Emily dico, non la vedevo così rapita da qualcuno da…mm…”
“Dieci anni.”
“Già, da quando Paige se ne andò per il college. Nemmeno Alison l’ha mai fatta stare così bene, semplicemente con un ballo.”
“Lo penso anch’io.”
“Resterà?”
“Non lo so, amore. Ora però potresti evitare di pestarmi i piedi e ballare senza troppi pensieri? Lasciale fare. E stringimi.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Di sfuggita notai Spencer e Toby che ballavano poco distanti da noi. Fu un attimo e la mia attenzione fu ricaptata da lei che, sola, poteva riempire l’intera stanza.
Quando finì la canzone, le coppie si fermarono e applaudirono al pianista e al cantante, entrambi in smoking nero.
“Ti va di prendere qualcosa da mangiare e chiacchierare un po’? Direi che, dopo un giro di danza, ce lo meritiamo.” – le dissi, lasciando che si staccasse da me.
Paige mi guardò serenamente, con un luccichio chiaro negli occhi.
“Andiamo allora!”
“Così puoi salutare anche Hanna, Spencer e Aria. Non so se lo sai ma Spencer e Toby si sono sposati un anno e mezzo fa. Sono sicura che saranno felicissimi di rivederti!”
Si fece seria e mi guardò, scavandomi dentro.
“Emily, io vorrei… - si fermò un attimo - …vorrei stare sola con te. Sono tornata per vederti e…” – notai che qualcosa la bloccava, qualcosa le faceva male.
“Non sai quanto ho sperato di sentirtelo dire. E di vederti di nuovo.” – le presi la mano, anche se non c’era più la musica a darci un alibi.
Sorrise stringendola e, dopo aver preso due prosecchi, mi fece strada verso il giardino.
Lo spazio verde all’esterno era pieno di ragazzi e ragazze in abito da cerimonia, intenti a ricordare gli anni trascorsi in quelle mura. Il tempo era il protagonista di ogni conversazione, ma non della nostra.
“Sono stata scortese. Sono piombata nella tua serata, ti ho invitata a ballare e non ti ho chiesto nemmeno come stai.”
“Sto bene! – risposi sorseggiando e guardandola sorridere – Me la cavo discretamente. Gestisco il Brew e ho le giornate piene dalla mattina a notte fonda, praticamente! Ma si sta bene. Sto bene!”
“Dev’essere impegnativo!” – si allentò il papillon. Avrei voluto sfilarglielo.
Ma dissimulai bene quello che stavo pensando, nascondendolo anche a me stessa, nel cassetto dei desideri.
“Sì, lo è in effetti. Ma mi da grandi soddisfazioni! E tu? – le chiesi – Tu cosa fai?”
“Mi sono diplomata e poi sono diventata istruttrice di nuoto alla Stanford. È  molto bello e gratificante preparare giovani promesse dello sport che si ama. I ragazzi che alleno quest’anno gareggeranno alle nazionali universitarie. – rispose sorridente – Siamo riusciti a qualificarci! È stata dura, ma ce l’abbiamo fatta.”
“Wow, è magnifico! Sono davvero fiera di te e di quello che sei diventata.” – come lo ero di tutto quello che era sempre stata: un’ottima nuotatrice ed una ragazza straordinaria, sotto tutti i punti di vista. Nessuno mi aveva protetta o guardata come lei.
Fianco a fianco, sfiorandoci i gomiti, arrivammo fino alla fine del cortile. Parlando del più e del meno, eravamo giunte fino all’ingresso di scuola. Uscimmo e tutt’intorno non c’era nessuno, se non un gatto e macchine che attraversavano senza pensare la strada.
Mi passò un brivido e Paige se ne accorse: mi accarezzò subito le spalle. Si preoccupava ancora per me e con la stessa delicatezza.
“Hai freddo Em? Stai tremando...” – era così naturale che sembravamo ancora due adolescenti. Anche lei deve aver pensato la stessa cosa; in men che non si dica si tirò indietro, temendo di aver varcato il confine dei nostri sentimenti, vergognandosi di quella naturalezza che non poteva più appartenerci ma che volevamo ancora.
Fu quello a fregarmi. La sua innata dolcezza.
Non me importò più nulla del freddo, della festa, delle mie amiche che mi aspettavano, del bar, delle auto che passavano inconsapevoli, del buio, delle remore morali, del tempo passato, della malinconia, di quella fine d’agosto.
La baciai.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Le sue mani, se avessero potuto, mi avrebbero perquisito anche l’anima.
La sentivo bramare ogni parte di me, ogni angolo, ogni centimetro di pelle.
Spalancai la porta di camera mia, non sapendo nemmeno come avevo fatto ad arrivare fin lì senza inciampare nei miei tacchi alti.
Presi io il comando e la scaraventai sul letto; i suoi capelli ondulati le coprivano parzialmente il volto, ma potevo vederla ansimare. Mi misi a cavalcioni su di lei, seduta, e le tolsi il papillon nero.
Mi baciava. Forte, mi baciava forte e, mentre le rispondevo, le mie mani scivolarono sui bottoni troppo chiusi della sua camicia. Li aprii senza nemmeno esserne consapevole. L’unica cosa che ricordo nitidamente è la sua pelle.
Il suo profumo d’orchidea, il suo sapore.
Feci cadere la camicia oltre le sue spalle. Il raso sulle mie dita desiderose di averla, e il sottile reggiseno che aveva sotto fece la stessa fine. Giaceva a terra e ci guardava spogliarci, alla flebile luce dei lampioni fuori casa mia.
How many time do I have to tell you even when you’re crying you’re beautiful too.
Mi tornò alla mente la canzone, ma le sue mani furono più importanti dei miei ricordi e di ogni suono.
Il mio vestito non opponeva resistenza e scivolò sui miei fianchi, lasciandomi in balia delle sue carezze, delle sue mani. Com’era bella e audace mentre mi guardava e sembrava non volere nient’altro che me…
You’re my downfall, you’re my muse, my worst distraction, my rhythm and blues.
“Sei così bella Emily, così bella…” – lo disse piano, come sapeva fare solo lei mentre abbassava le mani sulle mie cosce nude sulle sue.
‘Cause all of me loves all of you.
Il sudore ci attanagliava, come sabbia sul bagnasciuga. Paige era il mio mare ed io mi stavo perdendo in lei nuovamente. Ho sempre saputo nuotare, ma lei sapeva togliermi anche quella facoltà col suo respiro.
Love your curves and all your edges, all you perfect imperfections.
Baciai le sue labbra, le sue spalle, il suo seno. Trattenevo i gemiti che poi puntualmente esplodevano più forti. E ritrovai tutto ciò che avevo perso.
You’re my end end my beginning, even when I lose I’m winning.
Tutto ciò che avevo sempre voluto, senza saperlo.
Tutto ciò che avevo sempre voluto era lì.
Tutto ciò che avevo sempre voluto era lei.
‘Cause I’ll give you all of me and you’ll give me all of you.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“E’ proprio una bellissima serata! Che ne dite ragazze? Una festa così ce la ricorderemo fino a quando saremo vecchie sulla sedia a dondolo nella cucina dei nostri bisnipoti. Dieci anni dopo il diploma! Chi lo avrebbe mai detto.”
“Spencer, smettila di cambiare discorso! Il preside ci ha detto di radunarci in giardino per la foto con tutti gli alunni del nostro anno. Dov’è Emily? L’hai vista? Sono tutti dentro e già in posa, ma lei non c’è. Pensavo fosse qui fuori con te. Non può mancare alla foto!”
“Non credo ci tenga tanto alla foto in questo momento.”
“Chi rinuncerebbe alla foto dei dieci anni dal diploma?! Io no di certo.”
“Non ne avevo dubbi, Hanna!”
“Quindi?”
“Quindi cosa?”
“Quindi Emily! Dov’è?”
“E’ andata via già da un paio d’ore.”
“Cosa?! È andata via…e con chi?”
“Hanna, devo davvero risponderti o puoi arrivarci da sola?”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
L’alba mi sorprese piano, senza far rumore, come se volesse cullare col suo primo raggio il mio sonno appena terminato. Il mio sogno.
L’aurora, appena assaporata su di lei.
Allungai una mano; volevo sentire ancora il calore di Paige, del suo corpo, dei suoi baci e dirmi che non era stato tutto un sogno. Volevo sentirla come avevo bisogno e come, ora sapevo, aveva bisogno anche lei.
Ma lei non c’era. Tutto ciò che toccai fu il cuscino dove aveva dormito. Eppure la sua parte di letto era ancora calda; doveva essersi alzata da poco.
Mi alzai da quel giaciglio grondante di lei, mettendomi a sedere. Ero ancora nuda.
“Paige? – mugugnai - Paige, sei in bagno? Torna qui, ti prego…ho bisogno di te…”
Niente. Lei non rispose.
Doveva essere in cucina a preparare qualcosa da mangiare, o in bagno a farsi una doccia.
Un rumore metallico e una lampadina in me si accese: era lo scatto della sua tracolla.
Feci volare di lato le lenzuola, indossai mutande e canottiera scure e volai al piano di sotto, sistemandomi indietro i capelli. Le scale non mi erano mai sembrate così tante.
“Paige?”
Lei era lì, in cucina, china sul mio tavolino da pranzo con una penna in mano. Stava per scrivere qualcosa, l’avevo interrotta proprio prima che la punta d’inchiostro toccasse la carta.
“Emily…”
“Che stai facendo qui? Torna su, è appena l’alba. Devi coccolarmi ancora un po’! – poi, quando vidi il biglietto e la tristezza sul suo viso, capii – Cos’è quello?”
Lei non rispose.
Era bloccata davanti a quel biglietto, con gli occhi bassi. Ed io non riuscii a sopportarlo.
La raggiunsi, presi il foglietto, strappandoglielo letteralmente di mano, e lo feci in mille pezzi che iniziarono a vorticare fino a toccare il pavimento.
“Che stavi facendo?”
“Niente.”
“Non è vero.” – le tolsi anche la penna e le presi la mano nella mia.
“Non ho bisogno di un biglietto d’addio, Paige. Ho bisogno di te…qui, adesso.”
Lei fece una cosa che non mi sarei mai aspettata, una cosa che mi sgretolò l’anima e il cuore in un secondo solo. Bagnò la mia mano con una lacrima. Stava piangendo…
“Emily, io…”
Non le diedi il tempo di dire altro, l’abbracciai.
L’abbracciai forte.
Più forte dell’amore che ancora ci univa, più forte del tempo che anche se passato non era mai veramente passato per noi.
L’abbracciai più forte di tutto.
‘Cause I’ll give you all of me and you’ll give me all of you.
“Resta con me. Ti prego Paige! – le accarezzai i capelli, mentre si poggiava su me – Dimmi che tornerai, che ci riproveremo, che ci siamo ritrovate, che possiamo farcela adesso e che c’è una speranza per noi. Io non ti ho mai dimenticata, mai lo giuro…”
Provò a divincolarsi da me, ma la mia presa era troppo forte anche per le sue braccia più muscolose delle mie.
“Devo andare, ti prego…”
“No, no! – non la lasciavo, non potevo, non volevo – No!”
Uno strattone più forte e si liberò.
Aveva ancora gli occhi lucidi, ma adesso mi guardava non avendomi addosso.
“Non rendere le cose più difficili di quanto già sono, ti prego. Ti prego, non è giusto Emily.”
“Stare lontane non è giusto! – alzai la voce senza accorgermene. L’alba stava passando su noi – Ritrovarsi e perdersi in una notte sola non è giusto. Quello che stai per fare non è giusto. Lasciarmi così non è giusto! Io ti voglio con me e so che anche per te è lo stesso! Non puoi negarlo. Non dopo che abbiamo fatto l’amore!”
“Non lo sto negando…” – le sue lacrime.
“E allora perché? Perché stavi scrivendo una stupida frase per andartene senza dirmi niente? Perché? Perché Paige? – mi avvicinai di nuovo – Noi possiamo essere felici. Ce lo meritiamo, ce lo siamo sempre meritate.”
Provai ad abbracciarla di nuovo, provai a calmarla, ma non voleva. La strattonai nel tentativo di rinchiuderla ancora e per sempre nelle mie braccia. Lei piangeva e si scioglieva. Piangeva e cercava di evadermi.
Le cadde la borsa, il portafoglio si aprì come un libro e ne venne fuori qualche spicciolo e una fotografia. Lei la riprese subito, dimenticando gli spicci.
“Ti prego, Paige…ti prego…io ti amo. Ti ho sempre amata…”
Le parole mi salirono dallo stomaco, presero il sangue dal cuore e uscirono dalle mie labbra. Avevo bisogno di vomitarle d’impeto perché altrimenti sapevo che non le avrei mai dette. Ed era tutto vero. Lei era vera, io ero vera. Noi due eravamo vere.
La cosa più bella e vera che avessi mai avuto.
Paige guardava la fotografia, le lacrime non sembravano arrendersi. Scendevano copiose, rigandole il viso fino alle labbra.
“Volevo rivederti, Emily… - riuscì a dire tra il sale delle sue lacrime tristi - …volevo… - balbettava, e le faceva male. Le faceva male davvero - …volevo solo rivederti da lontano e sapere che stavi bene. Che nonostante ti avessi sempre pensata, stavi bene. Stavi bene anche senza di me…”
“E’ una bugia! – mi affrettai a rispondere prendendole la mano in cui stringeva la foto – Non sono mai stata bene senza di te! Ora lo so!”
“Ma avevi Alison…avevi scelto lei.”
“Ho sbagliato. – ed era vero. Solo ora me ne rendevo veramente conto – Ho sbagliato a scegliere lei quando potevo avere te. Ho sbagliato a prendere la via più facile. Avrei dovuto lottare per te, per noi! Avrei dovuto seguirti. Avrei dovuto fare tutto quello che non ho fatto e mi dispiace da morire. Ma ti prego, ti prego Paige. Perdonami….”
Presi il suo viso tra le mie mani, la baciai. E le sussurrai piano.
“Resta con me…”
Paige mi baciò e poi prese le mie mani tra le sue, spostandole dal suo viso. Quel gesto, più di tutte le parole, mi fece capire che i miei sogni non si sarebbero avverati. Che lei sarebbe andata via.
Tornò a guardare la foto che stringeva tra le dita. Poi l’allungò verso me, affinché vedessi. Affinché capissi.
“Guardala...” – la sua voce sembrava più ferma, nonostante la tristezza.
Non sapevo che fare, che dire, e presi quello scatto.
C’era lei, in quella foto. Doveva avere pressappoco tre o quattro anni. Sorrideva all’obiettivo.
“Eri bella anche da piccola…” – mi venne da sorridere amaramente guardandola. Era sempre bella. Sempre…
Gli stessi occhi, i suoi.
“Non sono io. È mia figlia, si chiama Emily.”
Il pavimento vacillò sotto i miei piedi e le vene arrestarono il loro corso, intasandomi il cuore.
Scoppiai in un pianto mai provato prima, un pianto vero che veniva da lontano: da dieci anni passati in una tristezza che, ora sapevo, mi avevano avvolto come la neve più gelida dell’inverno artico. Mi si ghiacciò l’anima e tutto ciò che, in quella breve notte, avevo desiderato potesse essere. Stavolta Paige mi tirò a sé: mi strinse al suo seno, mi asciugò le lacrime baciandole e mi disse che era diventata mamma quattro anni fa. Mi disse che aveva una compagna, conosciuta al college mentre, una mattina, si cambiava per prepararsi ad una staffetta di nuoto a squadra. Mi parlava tenendomi stretta. Mi disse che avrebbe voluto che ci fossi stata io quel giorno, quella mattina, a quella staffetta. La loro storia iniziò così, distrattamente: Chloe aveva imparato a riempire i suoi vuoti, i vuoti che io, io, le avevo lasciato dentro. Avevano deciso di avere un figlio dopo qualche anno di convivenza e Paige lo aveva portato in grembo. Partorì naturalmente, senza troppo dolore, e solo allora scoprirono che era una bambina. Una bambina bellissima e sana. Ecco perché sembrava lei, in quella fotografia. Identica a lei, sua figlia.
“Perché… - i singhiozzi non volevano smettere, non riuscivo a crederci, non poteva essere la realtà – Perché anche questo…”
“Cosa?” – parlava piano. Le sue braccia mi cingevano senza farmi male. Le sue braccia, ora su di me, non erano più mie.
“Perché l’hai chiamata…perché l’hai chiamata come me?”
Un sospiro e mi tenne più stretta.
“Perché sei l’unica donna che io abbia mai amato prima di lei.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Quando riuscii a staccarmi da lei, dopo minuti eterni e troppo brevi, dovetti sedermi. Dovevo assorbire, incassare quei colpi che la vita mi stava assestando. Retaggi di anni passati.
Quant’ero stata stupida, cieca.
Come ho potuto pensare che tutti quegli anni non fossero stati niente.
Lei era tutto quello che volevo ed ora la guardavo riprendere le sue cose e prepararsi ad andarsene. Andarsene ancora.
Perdere l’amore può far male, ma perderlo una seconda volta può uccidere.
“Ti ho amato davvero. – mi disse poggiando la mano sul pomello della porta – E credimi, ti amerò per sempre Emily...”
Stava per andare. Era giusto così. Stava per andarsene per sempre da me. E non lo trovavo giusto, ma lo era. Era maledettamente giusto e doloroso.
Male, faceva troppo male vederla andar via.
“Paige…”
Non si voltò. So che non ne aveva la forza. Ma si fermò sulla soglia socchiusa.
Quei discorsi ci avevano distrutte, tutte e due. Ma io dovevo dirglielo, dovevo avere qualcosa di lei.
“Addio Emily.”
“Aspetta, ti prego. – le sfiorai la schiena, timidamente. Non ne avevo più nessun diritto ormai – Vorrei…vorrei che mi lasciassi quella fotografia…”
Si girò verso di me, incredula a quell’ultima mia richiesta. L’ultima cosa che volevo chiederle.
Sono sicura che pensava fosse un male troppo grande e una tortura tremendamente atroce da sopportare.
“Perché?”
“Perché voglio poterla guardare quando… - piangevo silenziosamente - …quando ti penserò e mi maledirò per averti lasciata andare…”
“Non devi Emily, non devi farti male cosi.”
Ma la ignorai.
“Quando mi guarderò indietro e ti rivedrò, così bella ed unica. Voglio pensare, anche in quei momenti, che tu sarai felice, anche se sarai lontana. E che c’è qualcuno…qualcuno che sei riuscita ad amare più di quanto tu abbia mai amato me. Qualcuno che merita tutto l’amore che le darai. Ti prego, Paige…lasciami qualcosa di te. La parte più bella di te…”
Mi baciò d’impeto con tutta la passione che, sapevo, avrebbe provato solo per me. Per sempre.
Mi baciò dicendomi addio.
Mi baciò con le sue mani tra i miei capelli, come aveva sempre amato fare.
Mi lasciò la foto e uscì.
Fuori albeggiava ancora, ma erano gli sgoccioli. Gli ultimi barlumi d’aurora.
L’estate stava finendo, ma quello che avevo provato per lei non poteva finire. Non sarebbe mai finito. Così, quella mattina di fine agosto, mi lasciò una fotografia, mi strappò il cuore e se lo portò via con sé.
  
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Pretty Little Liars / Vai alla pagina dell'autore: Phoebus