{Note dell’Autore} Preferisco precisare subito come ho voluto intendere la grammatica italiana nel caso del grattacapo chiamato “ventiquattr’ore”. Questa parola a quanto pare è una totale scommessa: facendo qualche ricerca, ho scoperto che si può scrivere in entrambi i modi, con o senza apostrofo, quando si intende l’arco di tempo che copre una giornata intera; personalmente, la preferisco con. La parola ventiquattrore intesa come piccola valigia di lavoro è invece scritta sempre senza alcun segno grafico. È in questo modo che deve essere inteso il titolo.
[ Storia partecipante al Contest "The Melancholy Spirit - dark horror story", indetto da Yuko Chan _ l i n k - http://freeforumzone.leonardo.it/d/11028606/THE-MELANCHOLY-SPIRIT-Dark-Horror-Story/discussione.aspx/1 - ]
Uomini a Ventiquattrore
“Nessuno
al mondo è in grado di dirti perché esisti, ma visto che sei qui, lavora per
dare un senso alla tua esistenza.”
S. Kierkegaard
Solo un giorno, ogni giorno
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Quando
l’uomo si sedette sul seggiolino accanto, Masa alzò gli occhi su di lui. Fu uno
sguardo distratto, giusto un mordi e fuggi, uno di quelli che valgono a
salutare colui che sarà il tuo sconosciuto compagno di viaggio. C’è qualcosa di
poetico nel pensiero che le vite si incrocino anche sottoterra, nei tunnel
delle metro.
Il
ragazzo non ci stava pensando. Piuttosto che riflettere su quella
considerazione filosofica, sembrava più interessato a capire perché il nuovo
arrivato fissasse ostentatamente il suo zaino sistemato a terra. Non c’era poi
nulla di strabiliante o degno di nota in un sacco con bretelle in cui erano
infilati due libri di medicina e il suo notebook. O gli stava osservando i
piedi? Aveva i mocassini neri sfregiati sulle punte o sporchi di una generosa e
allegra spruzzata di escrementi di piccione?
Non
impazziva per le metropolitane, ma Koriyama era viva abbastanza da necessitarne
una. Fosse stato per lui, un qualche posto più tranquillo sarebbe stato
l’ideale. Gli sarebbe piaciuto sperimentare un’esistenza diversa, una casa da
sé al posto di un appartamento – era grande, decisamente costoso, ma un
appartamento restava -, una bicicletta al posto dell’automobile. Aveva
entrambe, con il problema che non le usava spesso, considerato che a tutto
quanto pensavano i mezzi pubblici. Di tanto in tanto si chiedeva se fosse
ancora capace di guidare. Gran bel mistero.
Il
desiderio di diventare un dentista aveva la sua parte. Da quando frequentava la
Ohu, università privata per aspiranti cavabocche
– il giorno in cui il suo migliore amico aveva usato quell’espressione, aveva
scoperto quanto le persone ubriache potessero sparlare -, infilarsi sottoterra
e aggiudicarsi un posto a sedere nel primo treno buono erano diventati gesti
quasi quotidiani. La vita di quella città, sia sotto che sopra, era così
frenetica che a volte, tornando a casa, Masa aveva l’istinto di gettarsi sulla
sedia più vicina per paura che un fantomatico avversario potesse rubargli
quella comodità. La colpa era anche dei suoi genitori, che avevano insistito
per dare al loro appartamento un tocco un po’ più europeo.
“Però
le scarpe si tolgono lo stesso”, gli aveva detto sua madre quando, anni prima,
aveva tirato fuori quella sua improvvisa ammirazione per l’Occidente. “Le
scarpe sull’ingresso.”
Quella
regola doveva essere una delle poche cose giapponesi rimaste sulla lista delle
indicazioni comportamentali. Per il resto, e rifletterci gli faceva venire
voglia di ridere, suo padre sarebbe stato in grado di rincasare dalla
concessionaria, buttare giacca e calze ai quattro venti e sistemarsi davanti
alla televisione con una lattina di birra in mano, magari a tifare una qualche grintosa
squadra di baseball.
Ventunesimo secolo,
baby.
Viva lo stile americano.
«Studi?»
La
domanda lo raggiunse dall’altro capo dell’universo. Masa, che si domandò come avesse
fatto a passare dallo zaino all’orrenda e comica immagine di Toru Ikeshima
stravaccato in poltrona, si voltò ad incrociare gli occhi dell’uomo. Gli ci
volle qualche altro attimo per capire che lo sconosciuto si era rivolto proprio
a lui.
Era
un ometto basso, dal gran sorriso da jolly e dagli occhi neri accesi di sincero
interesse. I capelli avevano già cominciato a scoprirgli le tempie, che
risaltavano lucide come la fronte sotto alla bianca luce del vagone in corsa.
Per quanto il treno sobbalzasse un poco, se ne restava a guardarlo come se tra
il sedere e il seggiolino avesse una paletto di legno; sembrava non muoversi di
un millimetro. Era forse il primo uomo d’affari, tutto giacca e cravatta, che
avesse mai visto completamente immobile. Tra i piedi, ritta e fiera, aveva
un’elegante e piccola ventiquattrore.
Masa dovette rendersi conto che tutto quel suo
silenzio sarebbe potuto passare per maleducazione. «Sì,
signore», si decise a rispondere. Con un bel sorriso
da bravo ragazzo, anche. In effetti era davvero un bravo ragazzo. Bravo e
bello.
«Odontoiatria?»
«Alla Ohu, secondo anno.» Aggrottò appena le
sopracciglia, tra divertimento e curiosità. «Come ha fatto ad indovinare?»
«Dall’uniforme. Hai i denti troppi puliti per
poter studiare chirurgia.»
Se c’era qualcosa di macabro in quella
risposta, Masa non lo trovò. Quel che fece fu accogliere quelle parole con il
principio di una risata di convenienza. «Me lo dicono in molti. Dei denti,
dico.»
L’uomo rimase ad osservarlo con intensità. Le
sue mani tozze, posate sulle ginocchia, stiracchiarono appena le dita. «Il mio
nome è Okawa. Come ti chiami?»
«Ikeshima, signore. Ikeshima Masa.»
«È un bel nome.»
Il ragazzo avvertì l’impulso di ammettere che
persino quella era una cosa che gli dicevano spesso, ma si trattenne per il
semplice fatto che uscite del genere sapevano di film romantico di serie B, se
non C. Forse era distratto, ma intelligente. Non si meritava il ruolo in cui
quell’uomo voleva relegarlo; la categoria del bravo giovane che risponde con la
stessa frase solo per timidezza non faceva per lui. «Il piacere è mio,
Okawa-san. Prende spesso la metro?»
«Solo oggi», confidò l’altro. «Viaggio per
lavoro, ma questa sarà la mia ultima corsa su questa linea.»
«Va all’estero?»
Era una domanda stupida, ma se ne accorse solo
dopo averla pronunciata. Okawa non se ne preoccupò e il suo sorriso, vispo e
indulgente, rimase dov’era. «Non ti piacerebbe lavorare? I giovani d’oggi hanno
tanto bisogno di un mestiere.»
«Lo studio mi impegna.»
«Studiare e lavorare è conveniente e utile.»
«C’è chi riesce a gestire entrambe le cose.
Non mi ritengo parte del club.»
«Lavorare e studiare, allora? Dà tante
soddisfazione, Ikeshima.»
Masa lo osservava con un sorriso instupidito,
forse l’indizio sbiadito della convinzione con cui aveva steso il primo. Il
treno doveva essersi fermato due o tre volte. Stava tenendo mentalmente il
conto, in un modo o nell’altro. «Ne sono sicuro, signore. Non lo nego.»
«Potresti darti da fare durante le vacanze
estive», continuò Okawa. «Quelle settimane non sono da buttare al vento1.»
«Ah.» Adesso c’era anche ironico imbarazzo. «Quello
che dice anche mia madre.»
«Ed ha pienamente ragione. Alcuni sono
disposti ad assumere anche solo per un mese, se si tratta di studenti.» Allungò
le gambe, per quanto il verbo “allungare” non fosse adatto alla sua statura, e
incrociò le caviglie con l’atteggiamento di un sereno interlocutore. «Manca
poco alla fine dell’anno.»
In effetti, a conti fatti, mancava poco più di
un mesetto. Febbraio era agli sgoccioli, un po’ come la sua scorta di buona
volontà. Studiare odontoiatria gli piaceva, ma era pur sempre un ragazzo di
vent’anni e la sua età reclamava aria fresca, aria che non sapesse di lunghi
pomeriggi passati con i professori a pulire laboratori e dentiere di plastica.
Daisuke gli aveva detto che sarebbe stato grandioso spendere almeno una delle
settimane di vacanza fuori città. Si pensava ad Osaka. Oh, sarebbe stata una
gran cosa. Avrebbero potuto chiedere anche a Nao, e allora, se avesse
accettato, sarebbe stata una cosa indiscutibilmente mitica. Certo che avere un lavoro, anche se piccolo, anche se non
troppo importante...
«Anche questo è vero», ammise Masa,
ripescandosi da quel momento di distrazione. Mancavano solo due fermate e poi
sarebbe sceso. Si domandò per quanto ancora Okawa-san sarebbe invece rimasto
impalato su quel seggiolino come uno spaventapasseri al suo bastone di legno,
salvo poi maledirsi per la cattiveria di quella similitudine.
«L’azienda per cui lavoro è solita prendere
sempre qualche ragazzo durante le vacanze», continuò Okawa-san, stringendo le
mani tra le cosce. «Potresti farci un pensiero.»
«Di cosa si occupa esattamente?» Forzò
dell’interesse, ma nemmeno ebbe da impegnarsi troppo. Suo padre aveva sì una
concessionaria e sua madre era un medico, dettagli che significavano un gran
bel bottino di yen. In fondo, la Ohu
era privata e non certo gratuita. Non credeva però che i genitori non gli
avrebbero permesso di prendersi un lavoretto umile. Lavorare quando avrebbe
potuto vivere di rendita per ancora qualche anno sarebbe stato sinonimo di
responsabilità e autonomia.
Autonomia. Che
parola seducente.
«Lavoro d’ufficio, nulla di eccezionale.»
L’uomo si frugò nella tasca della giacca e trasse un biglietto da visita. Era
bianco e bordato di ghirigori neri. Se Masa non avesse saputo che riguardava un
posto di lavoro, avrebbe pensato che fosse un malriuscito cartoncino di auguri
di compleanno. Glielo tese con un generoso sorriso di cortesia. «Fare domanda
non costa nulla. Sono sicuro che ti assumeranno senza pensarci.»
Il ragazzo gli sfilò il biglietto dalle dita e
ci gettò uno sguardo. Il treno, alla partenza poco affollato, si era nel
frattempo riempito di pendolari che, aggrappati ai sostegni, dondolavano
lentamente avanti e indietro. Parlavano in pochi, e lo facevano a voce bassa. Qualcuno,
la maggior parte, digitava frettolosi messaggi sui cellulari o sui tablet;
altri giravano gli occhi attorno, languidamente, cuffiette nelle orecchie e viso
impassibile. Lavoratori imbottigliati. Piccole anime stipate in una supposta di
ferro e acciaio.
«Solo un giorno, ogni giorno», disse Okawa.
Masa, che non si aspettava che parlasse,
ritornò a guardarlo. Si era rigirato il biglietto fra pollice e indice e per
una frazione di secondo pareva essersi scordato di avere un compagno di
viaggio. Sorrise, ma solo di riflesso, e l’altro, che colse una domanda in
quella sua espressione, si affrettò ad aggiungere:
«È il nostro motto. “Solo un giorno, ogni
giorno”. È il tempo che viene preso a noi dipendenti. Un giorno solo. Non è
tanto.»
«È curioso.»
Okawa-san si chinò a recuperare la
ventiquattrore e si alzò, mentre il treno cominciava a decelerare. «Ti auguro
di concludere brillantemente il tuo anno.»
«Grazie, signore.»
L’uomo gli lasciò addosso un sorriso prima di
infilarsi fra la giungla di pendolari e dirigersi ad una delle porte. Quando
scese, Masa lo cercò dal finestrino e lo vide incamminarsi a passo spedito
verso le scale mobili, la sua bella valigetta stretta in mano e il portamento
dritto e fiero. Fu distratto dalla donnina che acciuffò il seggiolino lasciato
libero. Il ragazzo la spiò soltanto, il tempo di un sorrisetto di cortesia
nonostante lei gli avesse rivolto un ghigno diffidente, e tornò a guardare la
banchina. Il treno aveva già cominciato a muoversi e Okawa-san era scomparso.
Solo un giorno, ogni giorno. Appoggiò la nuca contro al vetro e diede un’occhiata al
biglietto. Ora che l’uomo se n’era andato, era come se si fosse portato dietro
la sua eloquenza; l’idea di chiudersi in un ufficio anche durante le già brevi
vacanze estive gli sembrava ora più stupida del pensiero che esistessero
giraffe volanti. Le sue labbra, piccole e dal disegno delicato, si curvarono
agli angoli in un sorriso. Che stronzata,
pensò.
Quando scese, lasciò il biglietto sul seggiolino. Non che questo gesto valse a cambiare le cose.
Note.
1 In Giappone, l’anno scolastico inizia ad aprile e finisce verso marzo. Le vacanze estive durano più o meno sei settimane.
Cos'è successo?
Sì, cos'è successo? Succede che era da tanto che volevo scrivere qualcosa sulle ventiquattrore e che questo Contest mi ha dato la possibilità di sviluppare l'idea. Perché di uomini in giacca a cravatta che camminano in branco e parlano di lavoro ce ne sono sempre, in giro, e non posso mai fare a meno di chiedermi di cosa diavolo stiano ciarlando, cosa accidenti si portino dietro nelle valigette e cosa acciderboli trovino di appassionante nel mondo del lavoro e dalla finanza.
Ho tentato di immaginarmi qualche risposta. Non sono un'amante dell'horror fisico; per me questo genere deve essere soprattutto psicologico. L'horror è, prima di tutto, nelle idee. E con questa storia ho voluto immaginare qualche risposta alle domande che mi pongo quando vedo passare quegli sciami di uomini indaffarati, e davvero, col cuore, spero di non aver indovinato. Inoltre, Koriyama esiste sul serio. Per il resto devo davvero ringraziare i miei studi, perché senza la storia e la filosofia per come le insegnano al liceo classico, certi collegamenti e certe pensieri non sarei riuscita a farli. Grazie, Inferno <3 (?)
Ringrazio anche chi mi seguirà e chi lascerà qualche parere! Tolto il prologo, si tratta di cinque piccoli capitoli. Pochi. Non vi prenderò troppo tempo. Solo cinque capitoli, ogni cinque capitoli.
Dew_