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Autore: Bibismarty    04/01/2009    8 recensioni
Lie, una ragazza senza padre e in fuga da una madre drogata, si imbatte in un quartetto piuttosto speciale. Come un fulmine si ritrova a vivere con i Tokio Hotel, conosce la loro amica Erika e comincia a provare un affetto particolare che non aveva mai provato prima. Riuscirà a sentirsi in famiglia tra un Bill romanticone, un Tom innamorato, un gustav silenzioso, un georg allegro e Erika orfana di madre e padre? Cosa potrebbe succedere se Lie si accorgesse di amare Bill, per il quale prima provava solo indifferenza e potrebbe essere corrisposta? E se si trovassero a dormire nello stesso letto per mancanza di una camera doppia? E se molte verità venissero nascoste? Come potrebbero vivere nascondendosi dietro un muro di silenzio?
Genere: Comico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bill Kaulitz, Georg Listing, Gustav Schäfer, Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Ciao, se state leggendo questo messaggio sappiate che dovete...correre! Esplosione tra dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro, tre, due, uno...Scherzavo! Beh se avete aperto storia, prima di leggere dovete sapere che i Tokio Hotel non mi appartengono e nessuno di questi eventi è accaduto nella realtà (a parte gli EMA). La protagonista è frutto della mia fantasia e spero sarà di vostro gradimento in questa avventura, che non vi risparmierà risate e lacrime.Ora sicuramente avrà piacere la mia creatura di mostrarvi la sua storia, con le parole adeguate, che io decisamente non avrei. :) Buon viaggio :)



Capitolo 1: Cosa me ne poteva fregare del monsone?


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Lie. All'esordio di tutto.

Era buio. Davvero buio. Non vedevo niente o semplicemente non volevo vedere niente. Ero confusa. Era successo tutto così di fretta.Ora mi ritrovavo a camminare sotto la pioggia mentre il freddo gelido della notte mi penetrava nelle ossa per via della giacca che indossavo e che era estiva. Non avevo altro.
Quella giacca era l’unica che mio papà era riuscito a permettersi. Ce l’aveva messa tutta, ma dopo aver scoperto di avere il tumore non aveva più potuto lavorare. Quel pensiero mi fece troppo male.
Il ricordo del mio caro papà nel letto di morte che mi stringeva gentilmente prima di chiudere gli occhi per sempre mi si presentò vivido nella mente. Dentro di me lo stomaco si rivoltò.
Come potevo andare avanti? Ma non potevo nemmeno tornare indietro. Non volevo.
Cosa mi sarebbe accaduto? Se mia madre mi avesse trovato mi avrebbe picchiata o chissà cosa. Non era mentalmente stabile. Si drogava dalla separazione con mio padre. Progressivamente non fu più in grado di badare a se stessa, era finita in una clinica. Ma poi credendo che fosse guarita la fecero tornare a casa e ora io ero stata affidata a lei. Ma mia madre non era guarita. Le servivano soldi per la droga e se io fossi tornata mi avrebbe venduto oppure mi avrebbe sbattuto sulla strada solo il signore sa a fare cosa.
Il solo pensiero mi fece arrabbiare e cominciai a covare un fuoco di puro odio per quella madre che non mi aveva mai amato. Provavo odio per il mondo che non mi amava. Nessuno su questa terra mi amava. Potevo scommetterci.
Passai accanto all’edificio scuro con su scritto “DATCH FORUM”. Il Datch forum di Milano. Quello in cui quella sera si svolgeva il concerto del gruppo tedesco. Come si chiamava? Ah si! Tokio Hotel!
Non erano male di aspetto, quei quattro. Ma a me cosa me ne poteva fregare del monsone?
Io soffrivo giorno dopo giorno di un dolore immenso. Soffrivo la solitudine. Quelli erano solo quattro stupidi ragazzi che erano diventati famosi e della vita non sapevano un cazzo.
Come potevano? Erano troppo giovani e la fama forse aveva offuscato loro la testa. E poi da dove sbucavano? Non avevo mai sentito parlare di loro prima di quell’estate…Ma perché poi mi ero soffermata a pensare a loro?
Il ricordo vivido di mio padre mi si parò davanti ancora e le lacrime mi riempirono gli occhi.
Non vedevo altro che luci sfuocate. Dove era la strada? Oh, forse quella…
Mi fermai e misi un piede giù dal marciapiede. “Ti prego papà aiutami…Non posso andare avanti da sol…”.
Non so come fosse possibile, ma non capii perché non riuscii a finire la frase. In quel momento sentii solo una frenata. Un frenata e vidi buio totale.
Sembrava passata un’eternità, quando sentii delle voci e degli urli. Una mano mi sfiorò, ma non capivo niente. Non capivo dove ero. Non capivo chi fosse quel qualcosa che mi toccava. Che mi accarezzava la testa.
Dove ero finita?
Sentii urla concitate e captai diverse parole tedesche. Io lo capivo bene. Mia mamma era tedesca. Qualcosa di caldo mi calò dalla fronte. Cos’era? Il dolore al corpo era troppo forte.
Cosa mi era successo? Dove ero? Volevo solo mio papà. “Papà…”
L’unica cosa che riuscii a capire era: “Sono qui, non abbandonarmi”.
Era tedesco.



Il silenzio mi svegliò. Non so perché, ma io odiavo il silenzio. Io amavo la musica e il silenzio mi innervosiva terribilmente. Aprii gli occhi che richiusi subito perché una luce mi ferì. Una luce artificiale proveniente dall’alto. Mi protessi con una mano la faccia e mi sedetti.
Una volta abituata alla luce cominciai a guardarmi intorno e non ci volle molto per capire che ero all’ospedale. Ero confusa, non sapevo perché mi trovassi li, ma non volevo rimanere, volevo andare via subito. Mia mamma avrebbe potuto rintracciarmi.
Nonostante sentissi un fortissimo male dalla vita in giù provai a alzarmi.
Il mio tentativo non ebbe risvolti positivi. Ci riprovai e sporgendomi troppo caddi sul pavimento. Solo allora mi accorsi che avevo le gambe ingessate. Il sangue nelle vene mi si gelò di colpo. Non potevo fuggire.
Mentre il mio sguardo scorreva sulle mie gambe immobilizzate un orribile pensiero mi attraversò la testa. E se avessi perso l’uso delle gambe? Chiusi gli occhi e le lacrime mi bagnarono il volto. Ero sconvolta.
Capitavano tutte a me. Ma perché?
In quel momento una porta, o meglio la porta, della camera si aprì di scatto e entrò qualcuno.
Non volevo farmi vedere in quelle condizione chiunque fosse, ma non avevo la forza per alzarmi e aprire gli occhi.
Dei passi affrettati si avvicinarono a me. Qualcuno si chinò davanti a me e mi abbracciò.
Aprii gli occhi d’improvviso. Da quanto non ricevevo un abbraccio? Da secoli ormai. Quel contatto era troppo insolito. Ancora di più perché quel qualcuno che me lo stava offrendo era…
Lui si staccò ed entrò nella mia visuale.
Era un uomo.
“Che cazzo…?”
L’uomo era…il cantante dei Tokio Hotel!
Ora si che ero completamente andata. Perché un cantante avrebbe dovuto abbracciarmi?
Lui indossava delle semplici scarpe da ginnastica, una maglietta nera e un paio di jeans.
I capelli piastrati verso il basso e gli occhi liberi di qualsiasi trucco, semplici e tristi.
Il color nocciola non era vivace come quello delle volte che lo avevo visto in televisione. Era un colore spento. Ma perché?
“Scusa…scusa…Sono qui…Se per caso ti serve qualcosa…per rimediare.”
In quel momento entrarono un dottore e l’infermiera seguiti da gli altri componenti del gruppo. Mentre il dottore mi alzava e mi rimetteva a letto i miei occhi non smisero di lacrimare e si bloccarono insistentemente sui volti sconvolti dei quattro ragazzi.
Cosa potevano volere quelli da me? Cosa li…? Ma certo!
Le urla in tedesco. Loro mi avevano soccorso! “Grazie” fu l’unica cosa che riuscii a dire in un semplice sussurro.
Bill il più vicino a me era l’unico ad aver sentito. Sgranò gli occhi e portò una mano alla bocca. Mentre molto probabilmente cercava di calmarsi per non essere sopraffatto da qualcosa che ribolliva dentro di lui.
Una volta sotto le coperte il torpore mi fece addormentare con l’immagine sconnessa di Bill e dei suoi occhi.


   
 
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