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Autore: Letsneko_chan    22/05/2015    7 recensioni
Il vento freddo di gennaio s’insinuava anche sotto le vesti dei soldati che dormivano avvolti nei mantelli.
Publio si rigirò per l’ennesima volta su se stesso, sperando di trovare un minimo di calore.
Vinto dal freddo, si alzò, facendo attenzione a non svegliare gli altri congiurati.
Hostes, nemici della patria.
Quell'appellativo, con cui solitamente erano identificati i comandanti stranieri che cercavano di impadronirsi di Roma e della sua gloria, adesso pesava su ognuno di loro.
Siamo nel I secolo a.C. Precisamente nel gennaio del 62 a.C. In Etruria, non molto lontano da Pistoia, si svolge la battaglia che pone fine alla congiura di Catilina. Ho immaginato la storia di due fratelli che si trovano a combattere nei due schieramenti opposti.
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
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Ave atque vale, frater
 
Il vento freddo di gennaio s’insinuava anche sotto le vesti dei soldati che dormivano avvolti nei mantelli.
Publio si rigirò per l’ennesima volta su se stesso, sperando di trovare un minimo di calore.
Vinto dal freddo, si alzò, facendo attenzione a non svegliare gli altri congiurati.
Hostes1, nemici della patria.
Quell'appellativo, con cui solitamente erano identificati i comandanti stranieri che cercavano di impadronirsi di Roma e della sua gloria, adesso pesava su ognuno di loro.
Si sedette su un masso, avvolgendosi il mantello intorno al corpo mentre il vento gli scompigliava i capelli castani.
Appoggiò la testa sul palmo della mano e sospirò.
Sapeva che molto probabilmente non sarebbe sopravvissuto all’indomani.
Quale onore avrebbe portato lui, ultimo di tre fratelli, al padre ormai anziano e capofamiglia di una famiglia caduta nell’oblio anni indietro? Nessuno avrebbe potuto cancellare l’onta del gesto che si accingeva a compiere e l’onore della sua famiglia sarebbe stato compromesso per sempre.
Gli tornò in mente che nell’altro schieramento potevano esserci i suoi fratelli: in fondo, loro erano sempre fedeli a Roma.
Sorrise mesto, rimuginando su cosa avrebbero pensato quando il suo corpo sarebbe stato ritrovato.
Avrebbero avuto pietà?                                          
Erano i primi a dire che la pietas veniva prima di tutti, che era uno dei valori più importanti per un cittadino romano. Ma verso di lui, nemico pubblico, come avrebbero reagito?
Ripensò anche al discorso che Catilina aveva fatto ai congiurati qualche tempo prima: prometteva la vittoria, presentandola come vicinissima.
E lui ci aveva creduto, si era illuso che la situazione potesse finalmente cambiare: aveva seguito Catilina in Etruria per realizzare quel folle progetto.
Si distese a terra, osservando le stelle che brillavano in cielo.
“En illa, illa, quam saepe optastis, libertas, praeterea divitiae, decus, gloria in oculis sita sunt; fortuna omnia ea victoribus praemia posuit”.2
Ripeté quelle parole tra sé, chiedendosi se davvero ne valesse la pena affrontare l'esercito romano.
Fuggire? Assolutamente no.
Ormai aveva dato la sua parola a Catilina: i testimoni durante quel discorso erano troppi.
L'unica possibilità era di morire, portandosi fin nell'aldilà il nome di hostes.
«Che ne dici, eh padre mio?» mugolò fra sé, allargando le braccia sull'erba, bagnata appena dalla rugiada.
Il cielo iniziava già a diventare più chiaro, segno che quella mattina di gennaio era ormai prossima.
Chiuse gli occhi mentre una lacrima gli scendeva lungo il viso, andando a mescolarsi con le gocce di rugiada.
«Quid est, Publie?»3
Il giovane si alzò di scatto, guardandosi intorno.
«No... Non può essere vero...» mormorò tra sé, vedendo una figura avvicinarsi.
Rimase fermo, aspettando che quella si facesse più vicina.
«Tite...»4
Tito si avvicinò all'altro, spettinandogli dolcemente i capelli.
«Ciao fratellino!»
«Che ci fai qui?» chiese Publio nonostante fosse sicuro di conoscere già la risposta.
«Quello che ci fai tu. Ma con motivazioni opposte».
Publio abbassò lo sguardo, fissando il terreno: non avrebbe avuto speranze e forse, in quel momento, ricevere una pugnalata al cuore avrebbe fatto meno male della risposta di Tito.
Voleva mostrarsi forte, almeno davanti a quello che, fin dall'infanzia, aveva considerato un modello da seguire. Il singhiozzo che scosse il suo corpo mandò in frantumi ogni sua aspettativa.
Publio si lasciò cadere in ginocchio e, nascondendo il visto tra le mani, pianse.
Pianse, per la prima volta da quando aveva iniziato a seguire le idee di Catilina.
In quel momento sentiva le sue certezze vacillare e tutto gli sembrava privo di un futuro.
Tito lo guardò con aria di rimprovero: aiutare – o addirittura salvare – un nemico pubblico avrebbe macchiato ancora di più l'onore della loro stirpe, già compromesso dal gesto di Publio. E sebbene fosse suo fratello il giovane che singhiozzava ai suoi piedi, conficcò una spada davanti a quello, dicendogli che, se si fosse ucciso, nessuno avrebbe saputo la verità sul suo conto e avrebbero sparso la voce che era partito per un viaggio d'affari da cui, sfortunatamente, non era mai tornato.
Publio sentì il cuore stringersi in una morsa, capendo che il fratello era più deciso a difendere i valori di Roma che quelli della famiglia.
«Mai sei stato più lontano di così da me» mormorò sconsolato Publio.
Tito non rispose, limitandosi a fare un cenno con il capo e Publio lo osservò mentre si allontanava: l'armatura, colpita dai primi raggi del sole, lo faceva assomigliare a un dio.
Publio, preso dal rimpianto, cercò di raggiungere il fratello, allontanatosi ormai di molti passi.
«Tite!» urlò Publio, allungando la mano come per afferrare il mantello del fratello.
Le lacrime che scendevano dai suoi occhi gli impedivano di vedere bene, offuscandogli la vista. Per tale motivo, non vide una radice che fuoriusciva dal terreno e v’inciampò.
Colpì con il ginocchio un sasso e la leggera ferita bruciò più nell'animo che nel corpo.
Gli tornò in mente che, quando erano piccoli, Tito era solito prendersi cura di lui. Si ricordò anche di quel giorno in cui gli era successa la stessa cosa – una lieve ferita al ginocchio – e Tito l'aveva rassicurato, mostrando un atteggiamento fin troppo maturo per un bambino di sei anni.
Avrebbe voluto che anche in quel momento Tito fosse lì, a rassicurarlo con parole di conforto, dopo essere tornato da lui.
Ma Tito se n'era andato, lasciandolo nelle mani del destino che in quel momento prendeva la forma di quella spada che il fratello gli aveva conficcato davanti.
Si rannicchiò sotto le fronde di un albero ancora spoglio, stringendosi le gambe al petto e appoggiando la schiena al grande tronco.
Iniziò a singhiozzare, invocando la morte. Era conscio che Tito avrebbe potuto ucciderlo: là, su quella piana, sarebbero stati nemici, non fratelli.
Alzò la testa soltanto quando sentì le voci di alcuni soldati. Un piccolo drappello, poco distante da lui, camminava lentamente, chiamando il suo nome.
Sorrise mesto, riconoscendoci dei compagni; si avvicinò e, dopo averli salutati, s’incamminò dietro di loro.
Raccolta la spada di Tito, si voltò indietro, sperando di scorgere un'ultima volta il fratello.
Tutto ciò che intravide, furono gli stendardi con le insegne romane disporsi sul campo di battaglia.
 
***
 
I soldati della repubblica romana, usciti dall'accampamento, osservavano la piana. I corpi dei congiurati giacevano a terra: l'erba aveva perso il suo colore verde e si era tinta di rosso.
Le perdite per Roma erano state minime e molti, spinti dalla curiosità, voltavano i cadaveri, cercando di riconoscere chi fossero.
Tito vagava per il campo, simile a un fantasma; sul corpo portava i segni della battaglia: alcune ferite gli procuravano un immenso dolore e il sangue macchiava tutto il corpo.
Si fissò le mani, chiedendosi se si fossero macchiate anche del sangue di Publio: non si era chiesto chi fossero gli uomini che aveva ucciso o quale fosse la loro storia. Nel furore della mischia, aveva pensato solo a difendere Roma.
Sentiva il cuore stringersi sempre di più vedendo la strage appena compiutasi: sperava che Publio si fosse messo in salvo ma ciò che aveva davanti agli occhi gli faceva pensare che solo l’anima del fratello fosse fuggita nell’oltretomba.
Una lacrima gli rigò il viso al ricordo del sorriso di Publio: nonostante tutti gli screzi che si erano verificati tra loro, il minore non aveva mai smesso di sorridere. Sapeva che Publio gli avrebbe detto di non piangere, che doveva sorridere perché era morto un nemico. Ma Tito era sicuro che non ce l’avrebbe fatta: per quanto desiderasse non trovarsi lì, in quella piana, non sarebbe mai riuscito a sopportare la vista dei capelli castani di Publio che ricadevano scomposti sulle spalle del giovane. Era certo che, in futuro, ogni volta che avrebbe visto il suo riflesso, non avrebbe potuto fare a meno di ricordarsi di Publio: l’aspetto del minore – così simile al suo – sarebbe diventato un eterno ammonimento da cui sarebbe stato impossibile fuggire.
Si passò una mano tra i capelli, ignorando le urla di giubilo di alcuni soldati che si mischiavano a quelle di dolore di altri. Osservò sconsolato come gioia e pianto fossero aggrovigliati.
Lo stesso intreccio l'avevano eseguito le vite di coloro che lì si erano scontrati.
Tutti i congiurati erano morti, dimostrando un coraggio straordinario. Tuttavia, il loro valore e la forza della disperazione non erano bastati a salvarli.
Tito si fermò: teneva le braccia ferme lungo il corpo mentre, a capo chino, lasciava scendere le lacrime sulle guance.
Gridò il nome del fratello per tre volte, lasciando che la sua voce si disperdesse nell’aria impregnata di morte. Alzò le braccia e gli occhi al cielo, mormorando qualche preghiera. Teneva lo sguardo fisso alle nuvole, mute testimoni di quella strage.
Sentì una mano sfiorargli debolmente la gamba: subito abbassò lo sguardo d'istinto e subito sentì il cuore morirgli nel petto.
Crollò in ginocchio, stringendo una mano del fratello tra le sue.
«Publie…» mormorò con un filo di voce Tito mentre, sul volto sofferente di Publio, apparve un sorriso, trasformato dal dolore in una smorfia.
Tito accarezzò i capelli al fratello mentre, con una mano sempre più fredda, Publio ricambiava debolmente la stretta.
Tito strinse il corpo del fratello a sé, maledicendo il giorno in cui avevano litigato, poco dopo che la partecipazione di Publio alla congiura era stata scoperta.
 «Perdonami Tito…» la voce del più giovane era un sussurro appena udibile. «Perdonami... Ave...»
Tito gli scostò una ciocca di capelli dal viso, trattenendo a stento le lacrime mentre gli occhi lucidi di Publio si chiudevano per sempre.
«Atque vale, frater»6 Tito concluse le parole del fratello, continuando poi a stringere il corpo senza vita di quello, come faceva sempre quando, da piccoli, Publio aveva paura di dormire da solo.
Sorrise appena, ricordando la testolina arruffata di Publio fare capolino alla porta della sua stanza. Ogni volta, Tito lo faceva distendere accanto a lui, raccontando storie finché il minore non fisse caduto addormentato.
Depose delicatamente a terra il corpo del fratello e, girando intorno lo sguardo vuoto, notò la propria spada giacere in terra sporca di sangue.
«Hai avuto un grande coraggio, sai Publio?»
Accarezzò i capelli del fratello prima che, con mano tremante, afferrò la spada – quella che aveva conficcato davanti agli occhi di Publio – e l’accostò al petto.
Lasciò scorrere le lacrime mentre stringeva spasmodicamente l’elsa della spada.
Si alzò in piedi, dando l'estremo addio al fratello, dopo aver innalzato una preghiera ai Manes7.
Si allontanò di pochi passi, pensando a cosa avrebbe detto al padre, una volta tornato a Roma.
Si fermò improvvisamente, stringendo la mano sull'elsa.
Si voltò indietro e lasciò che il vento leggero gli spettinasse i capelli.
Tornò sui suoi passi, fermandosi accanto al corpo di Publio.
Sfoderò la spada e la alzò al cielo.
Chiuse gli occhi mentre, senza esitazione, si affondava la spada in pieno petto.
Caduto a terra, Tito strinse una mano del fratello e, mentre sentiva la vita abbandonarlo, osservò per un’ultima volta il cielo azzurro di Pistoia.
 
Note:
1 - Hostes: nemici della patria
2 - “En illa, illa, quam saepe optastis, libertas, praeterea divitiae, decus, gloria in oculis sita sunt; fortuna omnia ea victoribus praemia posuit”: Ecco quella, quella libertà che spesso avete desiderato, inoltre le ricchezze, l'onore, la gloria sono poste davanti agli occhi; la sorte pose tutte queste cose come premi per i vincitori. (Sallustio, De Catilinae coniuratione o Bellum Catilinae 20)
3 - Quid est, Publie?: letteralmente “Che c’è, Publio?” ma può essere tradotta come “Che fai, Publio?”
4 - Tite: vocativo di Titus (Tito)
5 - Publie: vocativo di Publius (Publio)
6 - Ave atque vale: formula rituale dell’estremo saluto, attestata nelle epigrafi e ripresa sia da Catullo (Carme CI) sia da Virgilio (morte di Pallante, Eneide XI 97-98).
Sia vale che il nome del defunto venivano ripetuti per tre volte alla chiusura dei riti funebri.
7- Nella religione romana i Mani (in latino: Manes) erano le anime dei defunti. Il loro nome deriva dal latino e significa Benevolenti. Esse talvolta venivano identificate con le divinità dell'oltretomba. Erano oggetto di devozione sia in ambito familiare sia cittadino e le offerte che si indirizzavano loro erano prevalentemente di origine alimentare (vino, latte, miele, pane ecc.) segno evidente di una loro matrice prevalentemente agricola.
 
Le principali notizie sulla congiura di Catilina, uno degli episodi più oscuri della storia romana del I secolo a.C., provengono da autori come Sallustio (Bellum Catilinae o De Catilinae coniuratione), Cicerone (In Catilinam o Catilinariae – quattro orazioni, di cui la prima fu pronunciata in Senato l’8 novembre 63 a.C. alla presenza dello stesso Catilina), Svetonio, Plutarco, Dione Cassio e Appiano.
I congiurati erano – secondo l’analisi di Sallustio – una torbida e confusa miscela di aristocratici decaduti, plebei indebitati, giovani sbandati e viziosi, temerari di ogni risma, nobili sospinti dalla speranza del potere: fra essi, in posizione di rilievo, ex-sillani che avevano allegramente i propri beni e che ora, “memori delle rapine e dell’antica vittoria, si auguravano la guerra civile” (Bellum Catilinae 16, 4).
 
La battaglia conclusiva avvenne nel gennaio del 62 a.C., non lontano da Pistoia, in un tratto di pianura compresa tra i monti da un lato e una rupe dall'altro.
Contrariamente alle aspettative di Petreio lo schieramento dei catilinari non vacillò all'urto, ma resistette valorosamente. In particolare, i feriti e i morti venivano man mano sostituiti dalle riserve che così, invece di intervenire solo nel momento del pericolo o dello sforzo finale come voleva la tradizione militare, erano impiegate alla spicciolata per rifornire continuamente di uomini le prime file e renderle sempre salde e compatte. Una tattica frutto senz'altro d'imperizia ed improvvisazione, ma ciò nonostante efficace, oltre che innovativa e sorprendente. A proposito dell'inaspettata resistenza dei catilinari bisogna inoltre considerare che erano tutti volontari che, anziché fuggire e non rischiare, mettevano a repentaglio la loro vita per degli ideali che (giusti o sbagliati che fossero) li rendevano tenaci e disperati allo stesso tempo.
 
Ma, terminata la battaglia, allora in verità avresti potuto vedere quanto eroismo e quanta forza d'animo ci fossero stati nell'esercito di Catilina. Infatti, circa quel medesimo posto che ciascuno aveva occupato da vivo combattendo, lo ricopriva col corpo dopo essere morto (lett.: persa la vita). Pochi poi che la coorte pretoria aveva disperso nel centro, erano caduti un po' più lontano, ma tutti con ferite sul petto. Catilina poi fu trovato lontano dai suoi tra i cadaveri dei nemici, che respirava ancora un po' e che manteneva sul volto quella fierezza d'animo che aveva avuto da vivo. Infine di tutto il (suo) esercito non fu catturato nessun cittadino libero né in battaglia né in fuga; a tal punto tutti avevano risparmiato ugualmente la loro vita e quella dei nemici. Né tuttavia l’esercito del popolo romano aveva conseguito una vittoria lieta o incruenta. Infatti, tutti i più valorosi o erano caduti in battaglia o ne erano usciti gravemente feriti molti poi che erano usciti dall’accampamento per vedere o per fare bottino, rivoltando i cadaveri dei nemici, trovavano chi un amico, chi un ospite o un parente; vi furono anche alcuni che riconobbero (lett.: riconoscevano) dei nemici personali. Così variamente per tutto l’esercito si mescolavano letizia, tristezza, lutto, gioie.                        
(Bellum Catilinae 60)
 
   
 
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