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Autore: indiceindaco    23/05/2015    1 recensioni
Theodore Nott, tre momenti della sua vita, scanditi da tre sinfonie diverse: Overture, Cross-Pollination e Redemption, composte dai Muse. Un bambino, un ragazzo, ed infine un uomo, per raccontare un personaggio che probabilmente esiste solo nella mia testa. Questo è solo un -il mio- modo per fare gli auguri ad una persona speciale.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Draco Malfoy, Theodore Nott | Coppie: Draco/Theodore
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4, II guerra magica/Libri 5-7
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Exogenesis
Symphony Part I: Overture
 
“I can't forgive you
And I can't forget
 
Who are we?
Where are we?
When are we?
Why are we?”
 
Muse, Exogenesis – Symphony Part I: Overture
 
 
Aveva un’indole malinconica, restia nel concedersi sorrisi, sempre misurata, distaccata. Solitaria perché abbandonata.
Non era solito articolare più di cinque o sei frasi nell’arco di un’intera giornata, non piangeva mai, neppure dopo una rovinosa caduta: si rimetteva in piedi, sotto gli occhi di nessuno, e proseguiva nel rincorrere le proprie fantasie.
 
Come tanti, cresceva al riparo di un luogo con più stanze di quante ne potesse conoscere, ed era silenzio ciò che chiamava casa.
Le sue giornate erano scandite da lenti passi sul marmo, ovattate, piccole carezze sottili senza affetto ed inquiete. Consumava i pasti, religiosamente composto, i gomiti stretti a quel piccolo busto ben dritto sulla sedia, quasi sempre da solo, a volte in compagnia di quel padre troppo spesso assente, intento ad inseguire i ricordi. L’uomo teneva sempre gli occhi bassi, e guardava di rado il figlio. Le rare volte in cui si assopiva ad osservare le piccole guance, il bambino sapeva che i suoi occhi non erano che persi a braccare qualcosa di invisibile.
 
Ogni domenica, il piccolo adagiava il palmo contro quella grande mano, e si faceva trasportare lì sulla collina. La collina non sembrava piacergli particolarmente, ma non aveva mai osato manifestarlo, semplicemente si limitava a seguire il padre, perché non conosceva altro modo per stare al mondo. Senza proteste, ogni domenica, lo scortava sulla collina, e sedeva con lui, di fronte ad una lastra bianca adorna di fiori. Non aveva mai chiesto cosa fosse, e perché dovesse star seduto lì, così a lungo, ascoltando la voce profonda, che raccontava storie di persone che non conosceva. Poi imparò a leggere, e non ci fu più bisogno di chiedere.
 
Pianse una volta, da quel che ricordava. Uno di quei pianti involontari, che ristagnano sul fondo degli occhi, e come un fiume in inverno, all’improvviso rompono gli argini. Se ne sorprese, portandosi una mano sulla guancia, e guardando le piccole dita candide. Era stato nella grande camera, quella che il padre non apriva mai. C’era polvere, e lenzuola bianche a coprire misteriose figure. Era una stanza dimenticata, di cui persino le chiavi fossero andate perdute. Si avvicinò al centro dell’ambiente ovale, guardandosi intorno, fino a raggiungere un grosso e curioso mobile nero, lievemente lucido, nonostante la polvere spessa.
 
Il mobile era grande, aveva tre grossi pilastri a reggerlo, come fossero i piedi di un’enorme sedia zoppa, e scuro, se non per una sezione bianca, dove la luce si rifletteva, luccicando impertinente. Lui si sporse di lato per indovinarne le forme, ma le curve sinuose erano difficili da seguire, così concave e convesse, ambigue. Mosso da una fredda curiosità, si mise in ginocchio sullo sgabello che stava di fronte allo strano mobile, supponendo che dall’alto fosse più semplice indovinare di che genere di mobile si trattasse. Non era un divano, non una credenza, e neppure una panca, nonostante avesse uno spesso coperchio semi aperto, dentro al quale non riusciva a spiare. Così si arrampicò sullo sgabello, aggrappandosi al bordo del mobile, su quella zona bianca e dentellata. E fu lì che accadde.
 
Un suono ruppe il silenzio, lacerandolo, come un lieve lamento di bestia ferita. Theodore ritrasse veloce la mano, osservando uno dei denti dell’animale, che adesso era ritornato al proprio posto, svanita la pressione delle sue dita. Con la mano tremante sfiorò di nuovo le fauci di quella strana creatura, premendo con più convinzione questa volta. Dalla carezza senza indulgenza scaturì un suono diverso questa volta, più cupo, mesto e doloroso. Theodore reclinò la testa di lato, perplesso, mentre con entrambe le mani, contratte come uncini, adesso, colpiva crudelmente quella superficie. Fu la prima volta che sentì il canto di quella belva, e quel canto si arenò da qualche parte dentro di lui, rimestando le gocce salate sul bordo delle proprie ciglia. La belva come a rispondere al suo attacco lo aveva morso dentro, lo faceva sanguinare degli occhi.
 
Suo padre lo trovò lì, le lacrime secche sulle guance, e le mani che adesso docili scorrevano in una baraonda di suoni che Theodore non riusciva a smettere di ammirare.
-Questo è un artefatto Babbano, Theodore. Lo rubai per tua madre, durante la Prima Guerra. Ne era affascinata, come lo sei tu.- disse poggiandogli una mano sulla spalla, cercando di imitare un fare paterno. Per quanto ci provasse, non sortiva mai alcun successo, e lasciava solo aridità nell’animo del bambino.
Theodore non lo guardò neppure, continuando a premere uno dopo l’altro i denti della belva, stupendosi di quanti versi riuscisse a fare.
-Pensava che i Babbani non meritassero questo bel canto. Non trovi anche tu?  Potrai giocarci se vorrai, ma adesso vieni, dobbiamo andare da lei, ci sta aspettando.
Theodore allontanò le mani dal mobile, poggiandole sulle ginocchia, inspirando gli ultimi docili versi, ancora fermi a mezz’aria.
-Non voglio giocarci.
L’uomo si curvò lievemente, la mano ancora sulla sua spalla, e con voce insolitamente bonaria sussurrò:
-La prossima volta che andrò a Diagon Alley, cercherò un libro che ti aiuti ad imparare. Così potrai esercitare anche la lettura, e non sarà solo un gioco, va bene?
- Voglio imparare ad usarlo.- disse il piccolo, con voce incolore, portando di scatto gli occhi sul padre, di fianco a lui.
-Oh, lo farai…

 
E lo fece. 
 
 
“Il mondo sarebbe diverso se i bambini nascessero ridendo.”
 
G. Soriano
  
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