– Uno –
Matt
Non
capisco come sia successo. Non ho visto l’attimo, né il frangente, né il gesto
che ha scatenato tutto. Vedo solo Scott avventarsi sull’altro, afferrarlo per
la maglia e tirarlo minacciosamente verso di sé. Poi tutto accade in pochissimo
tempo. Alcuni nostri compagni di squadra si avvicinano per dividere i due –
intenti a provocarsi e strattonarsi reciprocamente – imitati da alcuni
dell’altra squadra.
Mi
avvicino anche io:
«Scott,
smettila» dico, prendendo per la spalla il mio amico, che mi guarda e si libera
subito, tornando a concentrarsi sul suo rivale. Ed è quest’ultimo a prendersela
con me praticamente subito. Avvinghia il colletto della mia maglia:
«Stanne
fuori» esclama, spingendomi indietro.
Lo
screzio ormai è degenerato. Altri giocatori – maglie azzurre contro bianche –
si provocano a vicenda, altri ancora tentano di dividerli; le grida del
pubblico fanno da cornice al tutto, a cui si unisce anche l’arbitro con il suo
fischietto, suonano praticamente all’altezza del mio orecchio.
«Adesso
basta. Smettetela subito o sanzionerò qualcuno»
Altri
due richiami simili e tutto si interrompe, le squadre si dividono e l’arbitro
chiama a sé i due capitani, per far loro il suo discorsetto. So già cosa sta
dicendo loro, di informare i giocatori che quello non è il comportamento da
tenere, che la prossima volta ci saranno anche dei cartellini gialli. Ma nel
nostro sport, il rugby, queste scaramucce sono abbastanza frequenti,
soprattutto se il match non è ancora ruotato a favore di una delle squadre e si
è sullo zero a zero al trentaquattresimo minuto di gioco. Mi avvicino a Scott:
«Che
ti è preso?» gli chiedo.
Lui
mi squadra, poi allarga le braccia:
«Mi
ha provocato, non l’hai visto?»
Scuoto
la testa:
«No,
non l’ho visto. Comunque sia hai fatto male a reagire. Se l’arbitro chiama il
TMO1 è la volta buona che ti cacciano fuori»
Fa
una smorfia:
«Non
siamo in nazionale oggi, non sta a te farmi discorsi da capitano»
«Non
ti sto facendo discorsi da capitano, ma da compagno di squadra» gli faccio
notare.
Lui
farfuglia qualcosa e mi dà le spalle per allontanarsi, mostrando il numero tre
impresso sulla maglia rigata azzurro-blu. Scott Williams è sempre stato una
testa calda e di certo non avevo alcuna intenzione di fargli una ramanzina poco
fa. Volevo solo fargli notare che non ha senso rischiare un giallo per uno
strattone o per qualunque altra cosa sia successa. Rimanere in quattordici
contro quindici, soprattutto quando i nostri rivali sono i nordirlandesi dell’
Ulster, sarebbe la fine.
L’arbitro
fa riprendere la partita, fischiando. Annuncia che è calcio di punizione per
loro e il numero dieci irlandese ci ricaccia, con un potentissimo sinistro, nei
nostri ventidue2. Raggiungo insieme agli altri il punto esatto da
cui il gioco ripartirà con una touche3 e aspetto che tutto sia pronto. Appoggio le
mani sui fianchi, mentre giocherello distrattamente con il paradenti. Mi sento
la gola bruciare e le spalle già indolenzite. Sette mischie4 solo
nel primo tempo – che per di più non si è ancora concluso – sono davvero tante
e le sto sentendo tutte sul mio corpo. Ma la pioggia che continua a scendere,
fine, fredda e tagliente, ha reso il pallone maledettamente scivoloso; schizza
fra le mani come una saponetta e tenerlo stretto è complicatissimo. Di
conseguenza il fallo più frequente che si commette è il passaggio in avanti,
con successiva ripresa del gioco da una mischia.
I
primi otto uomini si dispongono per la touche e mi infilo fra il mio numero sei
e il quattro, pronto. Il silenzio che caratterizza questo momento del gioco è
sempre inverosimile, solo fuori dal campo provengono delle voci, quelle dei
tifosi. Il tallonatore dell’ Ulster afferra l’ovale, scambiando un’occhiata
d’intesa con il suo capitano. Questi, di rimando, guarda il numero cinque,
schierato praticamente accanto a me, che
inizia così a dare le indicazioni per il lancio. Il fischio dell’arbitro
sovrasta le voci, frettoloso, e, con quel segnale, il gioco riprende.
*
Il
medico osserva la ferita, tiene il mio braccio fra le mani, il suo pollice
sinistro preme appena sulla pelle, come se volesse accertarsi che quella stessa
ferita non possa ricominciare a sanguinare. La pioggia che ha continuato a
scendere per tutto il match l’ha lavata come ha potuto, facendo scorrere rivoli
prima rossi intensi, poi sempre più dilavati e scialbi. Alla fine l’uomo pare
convincersi, comincia a tamponare il mio taglio con del cotone imbevuto di
disinfettante. Lo pulisce meglio che può da erba, terra e vaselina, in
silenzio. Io lo guardo distrattamente, pensando alla partita.
«Ti
brucia, Matt?» chiede.
Scuoto
la testa e gli sorrido; acqua ossigenata sulle ferite l’ho già provata numerose
altre volte.
Il
fatto di dovermi sottoporre a questa operazione anche ora, al termine della
partita, è dovuto ad una lacerazione da tacchetti da scarpe, avvenuta durante
una ruck5. Raggruppamento a terra, io che tento di rubare il pallone
e pedata che arriva volontaria sul mio braccio destro, lacerandomi la carne.
Fallo antisportivo. Cartellino giallo per loro e calcio di punizione per noi,
che purtroppo Mike non è riuscito a centrare, mancando i tre punti che ci
sarebbero tanto serviti per la vittoria.
Il
medico finisce di passare il disinfettante e comincia a fasciarmi con la garza
la ferita ora pulita.
Abbiamo
perso per due, dannati, punti. La cosa mi fa rabbia, ma se ripenso al match
sono comunque orgoglioso della squadra. Abbiamo lottato alla pari con l’ Ulster
per più di settanta minuti, inseguendo il loro punteggio e avendoli a portata
di tiro sempre. Non ci siamo mai arresi e sento che avremmo potuto vincere se
la prima meta fosse stata nostra. Ma dopo quella touche, quella touche regalata
loro anche dalla reazione di Scott che ha provocato quegli screzi, i primi sette punti dell’incontro sono stati segnati
sul tabellone dal lato irlandese.
«Ho
finito» annuncia l’uomo.
Mi
alzo e lo ringrazio, guardando un momento la fasciatura, poi esco, diretto agli
spogliatoi. Sento ancora tutto il peso della partita addosso. Il prato pesante,
fradicio di pioggia, in cui le scarpe affondavano e correre diventava faticoso
il doppio. Gli impatti fisici, i placcaggi e le mischie. Tutto si ripercuote su
di me; ho il collo indolenzito, per non parlare delle spalle e della schiena.
Sento che se non immergo subito il corpo in acqua ghiacciata domani sarò
ricoperto di ematomi. Ma prima mi serve una doccia; sono totalmente
infreddolito e la mia divisa, che ancora indosso, umida e sporca, non mi aiuta
di certo.
Raggiungo
gli spogliatoi, ma prima che possa appoggiare la mano sulla maniglia per poter
entrare, la porta si apre e ne esce il nostro allenatore.
«Ah,
eccoti qui Matt» dice.
Si
chiude la porta alle spalle e mi posa una mano sul braccio, facendomi capire
che vorrebbe mi allontanassi un po’ dagli spogliatoi.
«Come
va il braccio?» mi chiede, appena terminiamo di compiere quei quattro, cinque
passi, che, ho capito, voleva facessi.
Guardo
la fasciatura:
«Va
benone, è solo scena» dico.
«Ho
già parlato con i ragazzi» riprende: «E non penso di avere qualcosa da dirti
che tu non sappia»
Annuisco
tentando di guardarlo saldamente in faccia. So che è il mio allenatore ed è un
uomo per cui nutro profonda stima, ma sono esausto. Vorrei solo cambiarmi, fare
una doccia e sedermi da qualche parte per lasciar riposare il mio corpo.
«Per
quel che ti riguarda, Matt, hai giocato un’ottima partita, davvero. Non ho
assolutamente niente da rimproverarti, al contrario» Sorride: «Anzi, sto già
pensando a come faremo senza di te durante i test match di novembre»
Anche
io sorrido:
«Cosa
le fa pensare che possa venire convocato in nazionale a novembre?» chiedo.
«Perché
non dovrebbero farlo? Non solo verrai convocato, ma sarai sicuramente nominato
capitano, proprio come le ultime volte. Hai la stoffa per queste cose»
Alzo
le spalle. Non mi sono mai né sentito né visto come un leader e quando sono
stato nominato capitano della nazionale gallese, ormai due anni fa, mi è
sembrata un’idea totalmente assurda, soprattutto perché nei Cardiff Blues non
lo sono, ma sono una semplice terza linea.
«Lei
esagera» dico.
Il
coach mi dà una sonora pacca sulla spalla, ridendo:
«La
tua modestia è una dote rara ed è una delle altre cose che ti rendono una buona
guida per la tua nazionale. Fidati di me. Se Jones non dovesse convocarti per i
test match se ne pentirebbe e basta. Sarebbe stupido e ti garantisco che lui,
stupido, non è. Sono io quello che dovrà fare a meno di te in quel mese»
«In
squadra ci sono ottimi giocatori. Hanno già vinto molte partite anche senza di
me»
Posa
entrambe le mani sulle mie spalle e mi guarda, sorridendo:
«Va'
a cambiarti» dice infine. Poi si allontana.
Lo
guardo un momento, dopodiché entro in spogliatoio, finalmente.
L’umore
che si percepisce nella stanza lascia trapelare chiaramente la delusione per la
sconfitta appena subita. Parlano in pochi, gli sguardi sono bassi e solo alcuni
incrociano il loro con il mio. Probabilmente tutti stanno pensando la stessa
cosa, ossia che avremmo potuto vincere. Ci saremmo potuti riuscire davvero
questa volta, è un peccato che non sia andata così, ma in fin dei conti è solo
il primo turno del nuovo anno di campionato, abbiamo ancora tempo per
perfezionare il gioco.
Mi
sfilo la maglia, non sopportando più di tenerla addosso. Mentre cerco le cose
per andare a farmi una doccia Brian, il capitano, mi raggiunge. Indossa anche
lui solo la parte inferiore della divisa.
«Hai
incontrato il coach, vero?» mi chiede.
Annuisco,
sistemandomi l’asciugamano sulla spalla:
«Perché?»
domando.
«Era
per sapere se serviva dirti quello che ci ha detto oppure no. Ma direi di no»
conclude, poi guarda il mio braccio destro: «Come va?»
Anche
io poso lo sguardo sulla fasciatura e sorrido a Brian:
«Non
morirò di certo»
Mi
dà un paio di pacche sulla schiena e si allontana. Io mi passo una mano fra i
capelli e, infine, mi avvio verso le docce.
Tutta
una serie di pensieri cominciano ad accavallarsi nella mia testa. È solo il
cinque settembre e il mio allenatore ha già cominciato a parlare dei test match6
di novembre. Avrei preferito non dover cominciare a pensarci così presto, ma
ora non riesco a fare altro. Ci aspettano tre fra le squadre più forti del
mondo: Australia, Sud Africa e, soprattutto, Nuova Zelanda e se il mio ed coach
ha ragione – e di rado si sbaglia – toccherà a me guidare il Galles contro
queste tre forze.
Non devo pensarci, ho ancora tempo e prima
devo concentrarmi sulle altre partite del campionato di Pro12. La verità è che,
per quanto mi senta onorato ad essere il capitano della nazionale gallese,
ammetto che, a volte, vorrei essere solo uno dei tanti giocatori che in pochi
considerano. Tuttavia, per qualche motivo che a me sfugge tuttora, io sono
l’esatto opposto di quei giocatori. Da un paio di anni a questa parte vengo
etichettato come un’ icona del rugby gallese, il giocatore di talento che però
continua a giocare in un club locale senza accettare i contratti esteri che gli
vengono proposti. I giornalisti continuano a cercare di attribuirmi
motivazioni per la mia permanenza a
Cardiff che non hanno praticamente mai avuto senso. Io amo la mia città e amo
giocare a rugby, per fare tutto questo non ho bisogno di allontanarmi, mi basta
restare nello stesso club da cui ho cominciato. Voglio una vita tranquilla, con
una famiglia normale, non mi importa di correre dietro a contratti prestigiosi o
a città estere. Ma la stampa pare non arrivarci e il gossip ancora meno. Si
inventano storie su di me, mi affibbiano frasi che non ho mai detto, opinioni
che non ho mai espresso. Qualche settimana fa i tabloid mi hanno attribuito un’
ipotetica relazione sentimentale con una modella con cui ho parlato una sola
sera e ho trovato la cosa completamente assurda. Ho cercato di capire come
fosse stata possibile una cosa simile e sono venuto a scoprire che lei aveva
detto ai giornali che io avevo flirtato. Il concetto di flirtare per le modelle deve essere particolare dato che, quella
sera, mi ero limitato ad annuire ai suoi discorsi bevendo birra.
«Uno
come te farebbe meglio a rimanere single il minor tempo possibile» mi aveva
detto il mio caro amico Paul – trasferitosi per giocare in Francia – a cui
avevo spiegato la cosa qualche giorno dopo l’accaduto. Aveva concluso
suggerendomi di mettermi con una qualsiasi, giusto per acquietare i tabloid e
riprendermi un po’ della mia pace. Ero scoppiato a ridere e gli avevo detto di
lasciar perdere. Non sono il tipo. Se mi dovessi mettere con qualcun’altra,
qualcun’altra dopo Meg, deve essere perché lei è
quella giusta.
Apro
l’acqua e lascio che questa scivoli calda sul mio corpo. Troppi pensieri,
troppe preoccupazioni tutte insieme. C’è ancora tempo per i test match, almeno
un altro mese. Non devo pensare ora a come dovremo affrontarli e, oltretutto,
non è detto che io sarò sul campo del Millennium Stadium quei giorni; non devo
dare per scontata la mia presenza in nazionale.
Le
voci nello spogliatoio cominciano a farsi più alte, qualche risata scoppia qua
e là. I ragazzi devono essere sulla buona strada per ritrovare il loro
ottimismo e il fatto che si stia avvicinando il terzo tempo7 li
aiuta sicuramente. Anche io dovrei unirmi alla loro ricerca della felicità,
dovrei lasciare da parte tutto ciò che si è accavallato nella mia mente in così
poco tempo. Dovrei dimenticarmi dei tabloid e dei loro gossip, lasciar perdere
i test match di novembre, non pensare alle mie spalle che continuano a farmi
malissimo per colpa di tutte le mischie della partita. Ce la posso fare, ce
l’ho sempre fatta.
Mi
serve solo una birra.
Era
da un po’ che avevo voglia di scrivere una nuova long, una storia a più
capitoli per poter tornare a pubblicare qui su Efp in
modo non occasionale.
Chi
ha letto altri miei lavori, probabilmente, ha capito quanto io ami il rugby,
uno sport che seguo da alcuni anni e che continua ad appassionarmi sempre di
più.
In
questa storia, questo sport, non si limiterà a fare da cornice, ma sarà un
legante, forse il legante.
Perciò
mi sento in dovere di dire questo: se odiate il rugby, o non vi appassiona per
niente, questa storia non fa per voi.
Ma
se vi incuriosisce, anche solo appena, allora continuate a leggere.
Io,
nel mio piccolo, spero che questa nuova storia possa appassionarvi sotto tutti
i punti di vista.
MadAka
Note:
1
TMO: Television Match Official. Durante
partite di rugby di un certo rilievo può essere presente; ha il
compito di verificare se un'azione in area di meta ha portato o meno ad una
segnatura valida, o a verificare se è effettivamente stato commesso un fallo.
Viene chiamato in causa dall’arbitro.
2 Ventidue: linea che indica i ventidue
metri dalla metà campo.
3 Touche: rimessa laterale. Rimessa in gioco della palla dal punto, lungo la linea
laterale (o linea di touche, dal francese), in cui la
palla era precedentemente uscita. La rimessa spetta alla squadra che non ha
causato l'uscita della palla, tranne in alcune eccezioni.
4 Mischia: situazione di gioco che si viene a creare sia spontaneamente, durante
fasi di gioco aperto (mischia aperta) che per ordine dell'arbitro per riprendere il gioco quando esso è stato interrotto
per qualche irregolarità (ad esempio un "passaggio in avanti
involontario").
5 Ruck: termine inglese per indicare un
raggruppamento a terra.
6 Test match: partita ufficiale di nazionale che non rientra nei
tornei internazionali (come Sei Nazione, Mondiali).
7 Terzo tempo: il tradizionale
incontro dopo-gara tra i giocatori delle due squadre. Inteso come momento
conviviale pomeridiano (in inglese: After-match party o drink ) oppure serale (After-match dinner ),
il terzo tempo è sempre stato visto come momento di socializzazione tra i
giocatori, cui spesso partecipano anche le loro famiglie e, talora, anche i
tifosi; nel mondo anglosassone si svolge in genere presso la Club
House della squadra che
ospita l'incontro.
Un’ultima cosa. Vi consiglio
vivamente di dare un’occhiata a questo:
https://it-it.facebook.com/media/set/?set=a.525673340792210.137884.137009629658585&type=1
Si intitola Rugby per neofiti, realizzato da Laura Guglielmo, e, a parer mio, è
una bellissima guida completa su ruoli e
storia – per quanto breve – di questo sport, con tanto di ottime illustrazioni.