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Autore: Ghen    25/05/2015    0 recensioni
Laura torna in Sardegna dopo un periodo trascorso a Londra per trovare se stessa, amareggiata e provando vergogna per non essere riuscita a vivere la vita che sognava. Dopo aver trascorso una sera con le amiche che non vedeva da tempo assistendo all'esibizione dei mamuthones, iconiche creature del folclore sardo, comincia a vederne ovunque, pronte a seguirla e a osservarla. Intanto, un'anziana viene ritrovata morta in casa sua in circostanze misteriose, e non sarà la sola.
[Minilong. 3/3 capitoli]
Genere: Drammatico, Malinconico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Figlia della Terra


III Capitolo

Lei era una ragazza incredibilmente sola. Assunta vedeva sempre che se ne stava in disparte, a gambe incrociate e con un libro in mano. Aveva i capelli nerissimi legati in una coda bassa, gli occhiali e le sopracciglia spesse; vestiva di nero e molte ragazze la prendevano in giro. Era diversa da loro: Assunta, come molte altre ragazze della loro età, aveva cominciato a lavorare da ragazzina, mentre lei ancora studiava o fingeva di farlo, dicevano le malelingue, in modo che non potesse sporcarsi le mani. Si sedeva sui gradini della fontana di Piazza Lamarmora e leggeva anche per delle ore, come se potesse spostarsi dal loro mondo al suo, quello immerso in quelle righe, in quelle pagine, in quei libri che divorava uno dopo l'altro. Assunta era incuriosita da lei: erano state nel banco vicino alla scuola elementare ed era sempre stata una bambina molto strana, crescendo si erano perse di vista e avrebbe voluto parlarle, sapere come stava, sapere perché non si sforzava di fare amicizia e di essere un po' come le altre. Così, quel nuvoloso pomeriggio, si strinse la borsa sotto braccio e si tirò indietro i capelli corti, lisci, schiarendosi la gola, avvicinandosi a lei a passo quieto. Non sapeva come intraprendere un discorso, così s'inchinò appena e le sventolò una mano a poco dal viso, attirando la sua attenzione.
«C-Ciao», esordì, schiarendosi la gola ancora una volta. «Sono Assunta, t'arrerc- [ti ricord-]», l'altra la interruppe: la voce ferma, glaciale.
«Du sciu chini sesi [So chi sei]». Le alzò il viso appena, prima di posarsi di nuovo a quelle parole scritte a macchina.
«Oh, mellusu aicci [meglio così]», sospirò, guardandosi indietro per un attimo: uomini leggevano i quotidiani sdraiati sulle sedie del bar davanti, ragazze civettavano intorno a dei ragazzi più presi da se stessi e dai propri capelli che da loro, e bambini tiravano le giacche color pastello delle loro madri, che parlavano e ridevano posando delicatamente una mano alla bocca. Forse cercava una distrazione. Voleva conoscerla ma lei non sembrava interessata a sua volta. Stava per riaprire bocca quando udì il suo nome e si voltò, ritrovando le sue amiche Efisia e Gavina, a braccetto, che la intimavano di avvicinarsi. «Scusami, devo andare», le sussurrò, allontanandosi. Le due amiche la accolsero con un forte abbraccio, trascinandola via.
«Amicizia noa, lè? [Nuova amica, eh?]», rise Efisia, allontanandosi un ricciolo nero dal viso.
«Figuraridda [Figurati]», rispose con sarcasmo, alzando gli occhi al cielo, «Volevo vedere cosa stava leggendo, non fa altro tutto il giorno, cussa in gunis' [quella lì]».
Risero, allontanandosi, seguite a vista dallo sguardo attento sotto gli occhiali della ragazza.

Daniele stava fuori di casa con entrambe le mani alla bocca, continuando a passarsele in viso e ai capelli, in gesto disperato. I carabinieri lo avevano trattenuto fuori e non gli avevano permesso di rivedere il corpo di sua nonna. I vicini erano tutti fuori dalle loro case e guardavano la scena che si stava consumando a pochi passi da loro come avrebbero fatto con una telenovela in televisione e gli si poteva scorgere parlottare e indicare, a volte. Lei stava al suo fianco ma lui continuava a spostarsi, a inchinarsi, a sbattere i piedi a terra, a stringere i pugni e a urlare senza voce. I genitori di Laura gli avevano aperto la porta di casa, promettendogli che poteva stare da loro e con loro quando e come voleva, ma lui non ascoltava, era distante. Portarono fuori sua nonna sotto un telo nero e mancò il fiato a entrambi, fatti allontanare dai carabinieri.
«Dani, andiamo dentro», sussurrò con un filo di voce appena, così asciutta da bloccarle il respiro. «Non ci fanno avvicinare, lo sai». Gli allungò la mano alla spalla ma lui si scansò come se ne avesse paura.
«No, no», si voltò, fissandola ad occhi sgranati, rossi e lucidi, «Adesso… Adesso torno da mia madre. Ho bisogno… Ho bisogno di mia madre», annuì, abbassando per un attimo lo sguardo. Lei immobile. «Lei deve venire qui, ma prima devo andare io da lei», annuì ancora, come se la sua mente facesse domande per poi rispondersi da sola.
«Va bene», tentò un sorriso malinconico. «Vengo con te. Potreste aver bisogno di me. È da molto che non vedo tua mad-».
«No», quasi le urlò e lei sobbalzò, «No. Vado io. Non… Non seguirmi», la intimò, puntandole contro un dito, prima di allontanarsi con passo pesante verso una delle macchine dei carabinieri.
Sua madre le poggiò una mano sulla spalla come per consolarla e lei fissò il ragazzo con sguardo attento, serio.

Assunta era una donnina estremamente tenace, se si metteva in testa qualcosa. Le sue amiche le avevano caldamente consigliato di lasciar perdere quella strana, ma lei si era messa in testa di salvarla dalla sua condizione di solitudine e vittima, e di provare a farle capire com'era stare in compagnia, in amicizia. Convinse Gavina ed Efisia ad uscire tutte e quattro insieme un pomeriggio che non avevano da lavorare, uscendo di casa senza essere viste dai loro genitori, e si ritrovarono in Piazza Sella, fra imbarazzi e risate sottomesse. Gavina in verità era molto in ansia per essere uscita senza avvertire nessuno ed Efisia la spintonava per tentare di tranquillizzarla; era quasi sorpresa di scoprire che anche quella strana aveva il suo stesso timore e si guardava attorno con angoscia e scontento. Si fecero una lunga passeggiata avanti e indietro fra la piazza e le vie adiacenti, fermandosi di tanto in tanto all'ombra degli alberi per far riposare la testa lontana dal sole. Assunta tentava con ogni mezzo di far parlare la ragazza, di metterla a suo agio senza grande successo, ma le altre due continuavano a prenderla in giro, spingendola, ridendo di lei e di quello che diceva appena trovava il coraggio di aprire bocca. Assunta le trovava divertenti ma la nuova arrivata non sembrava apprezzarle allo stesso modo. Un gruppo di ragazzi attirò la loro attenzione e, mentre le tre amiche intrattenevano i giovani, lei se ne stava in disparte a guardare per terra, immobile, ansando come un pesce fuor d'acqua. Assunta sapeva che lei doveva sentirsi fuori luogo ma sperava che provasse a sciogliersi, così le inviò un tale Mario per farle compagnia e lui sembrò gradire. Indossava un completo marrone chiaro e i capelli ben pettinati: sperava fosse il suo tipo poiché, secondo lei, era semplicemente affascinante. Mario le mostrò uno dei suoi migliori sorrisi ma lei lo aveva scrutato appena, riabbassando velocemente lo sguardo, come rapita dal suo mondo interiore. Il ragazzo aveva provato a prenderle un fiorellino giallo da un'aiuola e a offrirglielo in dono, ma lei rifiutò anche quello, scuotendo selvaggiamente la sua testa nera. Assunta sbuffò e tale Mario allo stesso modo. Una volta tornate a casa, Efisia e Gavina speravano di poter in parte dimenticare quella serata imbarazzante, ma Assunta, anche se per un attimo si era sentita decisamente sconfitta, non era pronta a rinunciarci e aveva provato ad avvicinarsi alla ragazza strana ancora, e ancora, e ancora, creando una piccola crepa sul suo scudo invisibile, definendola amicizia.

Daniele aveva deciso di prendere il primo pullman per Carbonia quella stessa sera. Aveva avuto il via libera dai carabinieri per prendere alcune delle sue cose dalla loro casa e, con sguardo smarrito e sofferente, aveva trascinato uno zaino dall'aspetto pesante fin su alla panchina della fermata, senza volere aiuti di nessun tipo. Di tanto in tanto si guardava alle spalle come se si aspettasse di vedere qualcosa e poi riaffondava il viso tra le mani, scuotendo la testa.
Lei lo aveva seguito e lo scrutava con insistenza da dietro la parete di un'abitazione. Le si spezzava il cuore a vederlo in quello stato per sua nonna, d'altronde anche lei stava soffrendo molto: Laura le aveva voluto molto bene e quei sentimenti sembravano voler tentare di lacerarle qualcosa dall'interno. Riabbassò un poco lo sguardo e si volse indietro, udendo dei passi, scontrandosi con un'enorme faccia nera: quella maschera aveva un naso gonfio, la bocca pendeva pesantemente verso il basso in una forma che ricordava quasi un ferro di cavallo e i suoi occhi erano delle fessure piccole e arrabbiate, accentuate dalle rifiniture del legno che rappresentavano le sopracciglia. Gli occhi al di là della maschera erano neri e la fissavano con severità. Lei tremò impercettibilmente, tornando indietro di mezzo passo e sbattendo le spalle contro il muro.
Non sapeva cosa fare. Quell'essere era reale ed era davanti a lei, in una presenza forte e maestosa, nonché inquietante. Prese coraggio e spinse quel mamuthones spalancando i palmi delle mani, tastando il crespo e vischioso manto nero e marrone. Gli scivolò accanto e corse via, sperando di seminarlo.

Per un po', Gavina ed Efisia giurarono di troncare la loro amicizia con Assunta se lei non avesse smesso di invitare ai loro ritrovi quella ragazza strana. Continuavano a ripetere che lei non era una di loro e che non lo sarebbe stata mai, ma, soprattutto, che non era la benvenuta. Quella ragazza aveva iniziato a fare conversazione, anche se breve, e a ridere, per giunta. Quella piccola crepa sul suo scudo invisibile fatta da Assunta con tanto sforzo si era dilatata e aveva stretto una connessione con la loro amica. Loro due avevano tentato più volte di ferirla, facendola apparire ancora più inadeguata a ogni cosa più di quanto da sola già non fosse, ma la sua amicizia con Assunta si era fatta così forte che a lei non interessava più apparire sciocca davanti a lei e ci rideva un po' su, dopo un attimo appena di disorientamento.
Un pomeriggio, le due ragazze erano uscite di casa con l'intento di parlare con Assunta e dirle ciò che pensavano senza impedimenti e, per questa ragione, le avevano chiesto di farsi trovare un po' prima del solito orario, in una via senso unico, piccola e poco trafficata. Imboccarono Via Nuova e girarono a destra, sotto un breve tunnel, arrivando dinanzi a una scena raccapricciante: non solo la ragazza strana era già lì, ma con le mani congiunte e soffiandoci sopra, riusciva a creare dei piccoli giochi di luci e colori, osservata da Assunta che era a un metro da lei, a bocca aperta. Loro due gridarono e la ragazza strana sbatté le mani, facendo svanire la magia.
Assunta spalancò gli occhi, indicando l'altra. «Avete visto anche voi cosa…?». Le due la presero per le braccia e la trascinarono di qualche passo più indietro, sfidando con lo sguardo la poverina che, spaventata dall'intrusione, si era messa a boccheggiare dall'ansia.
«Sesi 'na macca [Sei una (ragazza) matta]», le gridò Gavina, irrigidendo i denti.
«Du sciemmu ga no viasta 'na giusta [Lo sapevo che non eri una (ragazza) sana]», rincarò Efisia, in preda alla collera.
Disperata e sul punto di piangere, la ragazza si rivolse alla sua unica amica, implorando aiuto con il solo sguardo. Assunta la fissava senza parole finché, di scatto, non abbracciò le due amiche al suo fianco, fissandola con sgomento, iniziando a scuotere brevemente la testa. «M'anti chistionau de… de cussasa diaicci[Mi hanno parlato di quelle così]». L'altra iniziò a scuotere la testa a sua volta, sussurrando di non dare retta a quelle voci; aveva preso passo verso di lei quando Assunta si fece indietro, e così si fermò, deglutendo. «Diacci cummenti e tui! [Così come te] No, no, ti credevo adiversa, mi spraxiri. [mi dispiace] Diarerusu! [Davvero] Sembri una…», prese una breve pausa, squadrandola da capo a piedi, mentre lei scuoteva la testa sempre più forte e irrigidiva i denti, «Una… Sa bruxa [La bruxa]».
Le altre due concordarono e, iniziando a chiamarla in quel modo con urla, finirono per farla scappare via. Lei e Assunta si scambiarono un ultimo e lungo sguardo prima che la seconda venne spinta dalle amiche verso Via Nuova per vedere quella ragazza fuggire e gridarle, con tutta Iglesias presente, della sua natura di strega. Tale Mario e il suo gruppo di amici le sbatterono contro e, mentre le tre ragazze si allontanavano, la seguirono.
Assunta si era sempre sentita un po' in colpa per ciò che era successo con quella ragazza ma, quando le ritornava alla mente quel giorno, pensava di aver fatto la cosa giusta: sapeva che le bruxa amavano nascondere la loro vera indole e giunse alla conclusione che quella ragazza mite era solo finzione. La bruxa aveva tentato di ingannarla e si era mostrata in parte per ciò che era con quel trucchetto di stregoneria nera, per convertirla alla sua fede religiosa, qualunque essa fosse. Dopotutto, nessuna delle tre l'aveva mai vista andare a pregare, e men che mai parlava di messe. Giunsero facilmente alla conclusione che era una figlia del diavolo.
Speravano che, per la vergogna di essere stata scoperta, la bruxa avesse abbandonato la loro amata città, ma quando la rividero quasi un anno più tardi con in braccio una neonata, pensarono di intervenire.

Erano comparsi altri mamuthones: tre erano sui tetti e due sulle strade. La seguivano come un'ombra e lei, per quanto corresse, non trovava modo di lasciarseli alle spalle. La gente che dapprima la guardava con interesse poiché pareva scappando da un nemico invisibile, aveva cominciato a ignorarla sempre più, stimolandola a capire di stare diventando lei quella invisibile: pensò che la stavano trascinando in un'altra dimensione. Si fermò, guardandosi attorno, e le macchine e i pedoni scomparvero a poco, lasciando una città vuota e senza rumori, se non quelli dei campanacci che si diffondevano rapidamente nell'aria. Lei deglutì e, stringendo i pugni, tentò di infondersi coraggio, camminando sull'asfalto deserto.
«Va bene», sbatté le mani contro ai fianchi, «Mi arrendo. Sono la prossima?», sbraitò. «Avete ammazzato quelle signore e adesso è il mio turno?», ringhiò con rabbia ed esasperazione, «Si può sapere cosa vi ho fatto da meritarmi questo?».
I mamuthones scesero per la strada e la circondarono come una preda, iniziando a canticchiare, ballando con cadenza ritmica intorno a lei, facendo in modo che i campanacci suonassero sempre più forte. La danza terminò solo quando apparvero gli issohadores. Erano in quattro e giunsero dal nulla, disponendosi a poco dai mamuthones; svolsero dal cinturino in vita la loro arma, il lazo, e presero a picchiettarlo per terra, richiamando all'ordine il loro gregge. Uno di loro si fece spazio fra i mamuthones e avanzò dei passi verso di lei, schiarendosi la voce roca.
«Sai bene perché sei qui», enunciò, intanto che gli altri tre picchiettavano ancora il lazo sull'asfalto freddo. «Non abbiamo ucciso noi quelle donne», strinse con forza il lazo, come colto da un impeto di rabbia, sotto la sua anonima maschera bianca, «ma tu».
Lei ansimò, cambiando improvvisamente espressione, facendosi fredda e scostante. Lo fissò per un breve attimo, riconoscendolo: l'issohadores era lo stesso che l'aveva presa con il lazo quel giorno, a carnevale; per poco non le scappò una risata, al pensiero che fin dal suo ritorno in patria l'avevano inquadrata, senza eppure riuscire a fermarla.

Il pullman diretto a Carbonia non rallentò verso la fermata, poiché non c'era nessuno ad aspettarlo: Daniele se n'era già andato. Vedendo scendere la notte, i genitori di Laura provarono a telefonare a lei e il ragazzo, immaginandoli insieme dalla madre di lui, ma non rispondendo iniziarono a preoccuparsi, guardando con velata nostalgia la pioggia che aveva cominciato a battere sui vetri della casa. Assunta era morta e la loro figlia e il suo amico non rispondevano. Quando udirono il telefono fisso squillare accorsero entrambi in preda all'ansia, rispondendo con il cuore in gola che era tardi, che doveva farsi sentire prima, ma al telefono non era Laura. I carabinieri comunicarono ai coniugi di aver trovato la loro bambina, anche se non dove se l'aspettavano: il suo corpo senza vita giaceva nascosto sotto ai tubi dell'acqua nei bagni delle signore in una stazione. A trovarlo, fu una donna quel pomeriggio, scendendo dal treno. Era in bella vista, sotto ai lavelli. Sembrava essere lì da giorni, eppure nessuno l'aveva mai vista o sentito l'odore. I due si accasciarono al pavimento una dopo l'altro; terrorizzati, disperati, dal dolore, faticavano a respirare.

«Non è mai stato nei miei piani, sapete?», dichiarò lei, reggendosi il petto. Il cielo si era annuvolato e la pioggia aveva inondato la strada in fretta, rendendo i movimenti dei mamuthones più lenti, impediti dalle pelli zuppe. «Non parlo di loro tre… Ma di Laura», le si strinse un nodo in gola a pronunciare quel nome, deglutendo con fatica. «Lei era diventata molto per me… Le volevo bene», confessò, riaffiorando il ricordo di quando l'aveva rivista, in quella stazione. Aveva uno sguardo smarrito, lei. E un sorriso innocente. Aveva deciso di ritornare a casa, nella sua terra, che, anche se non lo sapeva, era quella di entrambe. Si erano conosciute per caso, o così pensava Laura. Lei l'aveva notata per quel suo sguardo perso e meravigliato da turista e, scoprendo le sue origini, aveva fatto in modo di incontrarsi con quella ragazza. Una ragazza sarda era un colpo di fortuna, per lei; soprattutto se era insicura e aveva bisogno di una figura di riferimento. Lei era stata per Laura quella figura e qualcosa di più. «Laura non doveva scegliere di tornare», gridò, mentre il suo corpo prendeva lentamente un'altra forma, squagliandosi al contatto dell'acqua piovana come fosse stato acido, riportandole a galla i capelli corvini e lo sguardo severo. «Mi ha deluso», chiosò.

«Mi… aspettavi?», aveva provato a ridere. «In che senso? Mi prendi in giro? Mi hai seguito? Perché non mi hai detto che-».
Lei l'aveva interrotta, tenendo un sorriso malinconico. «Non sono stata del tutto sincera con te, tesoro».
Laura si era girata e aveva sbuffato, reggendosi al lavello. «Ci mancava questa…», aveva sussurrato poco dopo. «Allora, dimmi».
«Ti ho amata davvero».
Laura si era stretta le labbra con i denti, finendo per ridere. «Mi hai seguito per dirmi che mi hai amata? Beh, wow, grazie… Andava bene così, Diane, ci siamo lasciate, mi pare… Tu non stai bene». Era tornata un po' indietro, quando l'altra aveva provato a fare dei passi verso di lei.
«No», aveva scosso la testa, «Tu non stai bene».
Laura si era sentita improvvisamente mancare e Diane le era corsa incontro per un ultimo abbraccio, proprio poco prima che le ginocchia le cedessero.
«SstI'm so sorry, my dear».
Le aveva appoggiato la mano destra al petto e, lentamente, il corpo di Laura aveva iniziato a vibrare insieme al suo, che stava delicatamente cambiando aspetto, prendendo quello di lei, diventando presto indistinguibili. Gli occhi di Diane si erano spalancati e sul loro specchio si stavano depositando le immagini di alcuni ricordi di Laura, dalla bambina alla ragazza insicura che era diventata.
Aveva pianto. Aveva deciso di lasciare lì il corpo vuoto, sotto ai lavelli, nascosto solo dalla sua magia, quella che le concedeva di poter vivere con il suo aspetto. Si era guardata allo specchio un'ultima volta, passandosi l'indice sugli occhi rossi, prima di prendere il trolley e ripartire. Sapeva che il cambiamento le avrebbe riservato qualche effetto collaterale, così si assicurò di chiudere un po' gli occhi una volta di nuovo sul treno per Iglesias e, soprattutto, di chiudere le finestre con le tendine.

«Ti ha deluso?», le fece eco quell'issohadores, tenendo un tono accusatorio.
Lei annuì. «Potevamo essere felici, insieme. Avevo accantonato la mia vendetta, per lei. Ma non è stata abbastanza forte e io, se perdevo lei, potevo almeno riprendere la mia vendetta», ringhiò, stringendo i pugni.
L'acqua che le scivolava sulla pelle e sui vestiti stava continuando a scavare, mostrando altri aspetti, altri volti, sotto quello che appariva. Visi di donne più grandi, dagli sguardi stressati, fino alla comparsa delle prime rughe. Gli altri la fissavano senza intervenire, come se quell'unico issohadores che le stava davanti le facesse da giudice e giuria.
«L'hai uccisa», tuonò con rabbia, pestando il lazo a terra così forte da far spaventare alcuni mamuthones a lui vicini.
«Dovevo», gridò a sua volta, versando qualche lacrima che le scorreva lenta sul suo volto da anziana. «Era l'unico modo… L'unica cosa che mi avrebbe permesso di rimettere piede qui, nella mia terra, a Iglesias. La Sardegna mi aveva concesso di tornare, sono passati anni e la forza che mi ha spinto via si è indebolita, ma non mi avrebbe mai permesso di recarmi qui, senza essere un'altra, una residente. Io dovevo essere Laura per passare», prese respiro.
«Ti avevano bandito», rispose l'issohadores, «Gavina, Efisia e Assunta. Ti sei vendicata dell'esilio con la loro morte?».
Lei mostrò un sorriso sconsolato, scuotendo la testa, asciugandosi una lacrima depositata sulla ruga di una guancia. «No, no… Loro non mi hanno solo esiliata, caro. Cussasa… m'anti pigau sa pipia! [Loro… mi hanno preso la bambina] Sa pipia 'e cosa mia [La mia bambina]», gridò più forte.
La pioggia iniziò a battere più violentemente e il vento a soffiare contro di loro e gli edifici come mosso da un'incredibile forza, mentre il cielo si faceva scuro come le tenebre.

Assunta era stata indescrivibilmente crudele. Sapeva dell'ostilità più che ostentata di Gavina ed Efisia e non se ne stupiva, ma mai si sarebbe immaginata una tale reazione da lei, che la considerava un'amica. Lei si fidava di Assunta ed era stata così sciocca da pensare di farle vedere cosa sapeva fare, del suo gioco di luci.
Aveva corso e poi camminato per un po', nascondendosi nella fitta campagna sulla collina, abbandonando le strade trafficate. Era giunta ai pressi di un albero e si era appallottolata sulle sue radici, iniziando a piangere tanto forte che quel ragazzo non fece fatica a trovarla.
«Mario?», domandò, alzando lo sguardo appannato, cercando di asciugarsi gli occhi. «Giusto? Sesi rui? [Sei tu?]».
Lui si abbassò il tanto di vederle bene il viso, tirando fuori, poi, un fazzoletto di stoffa da una tasca dei suoi pantaloni, porgendoglielo. «Una ragazza bella come non dovrebbe piangere», disse lui. Vedendo che lei non si era mossa, il ragazzo decise di prendere l'iniziativa, raggomitolando il fazzoletto su una mano e asciugandole il viso dalle lacrime, con accortezza e delicatezza.
Lei restò immobile, forse sorpresa, tirando su con il naso.
«Ti ho vista scappare, prima. Tu e quelle tre non siete più amiche?».
«Io e Assunta», rispose, «Non siamo più amiche, no», scosse la testa, «Efisia e Gavina non sono mai state mie amiche».
«Capisco», sussurrò. Sembrò guardarsi attorno, come alla ricerca di qualcosa, ma lei non pareva essersene resa conto.
«T'arricheriri 'i scusasa [Ti servono delle scuse]», ansimò, tirando ancora una volta su con il naso. «Non ti ho mai dato la possibilità di… sai, farti aconoscere».
«Non importa», rispose dopo un attimo, stringendo le labbra. «Adesso mi aconoscerai», aggiunse, vedendo finalmente arrivare i suoi amici. «Ci aconoscerai tutti».
Quando il gruppo se n'era andato, lei era ancora lì, con alcuni vestiti stracciati e mezza nuda, fra l'erba alta e le radici dell'albero. Anche se avesse potuto gridare e a turno non le avessero coperto la bocca, non l'avrebbe sentita nessuno. Si era sentita umiliata, sporca, tradita e ferita. Si era sentita finita.

L'anziana strinse i pugni con più forza di quanta sembrasse dimostrarne e il vento iniziò a girare attorno a loro con sospetto, mentre una campanella dal suono fine e delicato aveva iniziato a risuonare nell'aria, tanto da rendere irrequieti i mamuthones.
«Hanno preferito assecondare i detti popolari a me…», ringhiò, prendendo un pesante respiro, «Hanno preferito togliere una bambina dalle braccia della sua mamma… Hanno preferito la bruxa a me. E la bruxa hanno ottenuto», recitò infine con una voce metallica forte e disturbata. I suoi occhi si tinsero di rosso e il vento si fece ancora più forte, stringendo i mamuthones, che stavano per perdere il loro ordine. Gli issohadores sbatterono il lazo a terra ma non sembrava avere un grande effetto su quell'antico potere.

Non si era più fatta rivedere in giro. Aveva paura di uscire, di incontrare ancora uno di quei ragazzi o Assunta e le sue amiche e che loro potessero leggerle la vergogna negli occhi. Si era immersa nei libri nuovamente e più spesso di prima, abbandonando gli studi. Lei aveva desiderato così tanto di sparire da aver paura di guardarsi allo specchio, di scoprire cos'era diventata, di capire quanto odio provasse per se stessa e la sua debolezza. Era disgustata e infastidita. Eppure qualcosa cambiò il suo modo di vedere il mondo: aveva iniziato a stare male, a non capire la ragione secondo cui il suo corpo si comportava in modo così dispettoso con lei da non lasciarle più il tempo di finire un libro in un giorno, finché non notò la sua pancia arrotondarsi. Il destino era stato crudele con lei, tuttavia, secondo la ragazza, gli spiacevoli episodi che le erano capitati le avevano allo stesso tempo fatto dono di qualcosa di infinitamente buono. Era un regalo.
Appuntava i cambiamenti giornalieri su un blocco e, invece di leggere un libro, si rileggeva gli appunti scritti precedentemente. Era felice e, per la creatura che portava in grembo, era arrivata a prendere una decisione molto importante: poiché non era sano per un piccino crescere in una casa nella solitudine, pensò che lo avrebbe portato a girare il mondo, alla scoperta delle bellezze e delle cattiverie, per non avere paura di affrontarle come ne aveva avuto lei. Con il suo bimbo al suo fianco, lei per prima pensava che avrebbe vinto le sue paure.
Aveva chiamato Diana la sua bambina. Era piccola e rosa come una bambolina, le manine strette in un pugno, il naso tondo e le labbra fini. Era per lei tutta la forza di cui aveva bisogno.
Ogni pomeriggio aveva preso l'abitudine di prendere la piccola e uscire di casa. Aveva iniziato con il giardino e le vie accanto a casa sua, prendendo grandi boccate d'aria per ogni volta che pensava di allargare un po' le zone sicure del suo giro pomeridiano. Quando riusciva nel suo intento non faceva che guardarsi avanti e indietro, in preda all'ansia, ma era una vittoria a dispetto di quando la sua paura la forzava a fare un passo indietro, stringere forte al petto la sua bambina e tornare a casa con le gambe che tremavano. Non voleva essere debole per Diana e darle un cattivo esempio, così tornava fuori e sfidava a testa alta le strade nuove che le facevano tanta paura. Lei voleva cambiare.
Fu percorrendo una strada nuova del suo giro pomeridiano che incontrò di nuovo Assunta, Efisia e Gavina. Diana aveva iniziato a piangere e lei, credendo che la piccola avesse captato la paura della sua mamma, decise di affrontarle.
In principio, voleva solo salutarle. Ricordava ancora bene i pensieri che le avevano affollato la mente: salutarle a testa alta, sorridere come mai aveva fatto, esibire la sua bellissima bimba per dimostrare di essersi realizzata. Temeva avrebbero scoperto che non era sposata né aveva un padre da dare a sua figlia, ma era talmente fiera della piccola da sfidare i suoi timori per lei. La vergogna faceva parte del passato.
Quando incrociò i loro sguardi, Efisia aveva già preso Gavina sottobraccio per indicarla. Avevano riso come al loro solito, ma non Assunta. Quest'ultima aveva adocchiato Diana per prima, fra le sue braccia, mentre piangeva forte. Lei aveva cominciato a cullarla, camminando verso le tre, ma non riusciva a calmarla.
«Ora 'e prandi? [Ora di pranzare?]». Assunta aveva quasi urlato e nella vietta deserta la voce aveva riecheggiato. Le due ragazze smisero a breve di ridere e fissarono la bimba come cogliendo solo in un secondo momento il nesso con il commento dell'amica. Al contrario, lei non aveva capito e salutò le tre con un gesto rapido di una sola mano, con innocenza, spostando la piccina per reggerla meglio. «Dove hai preso quel neonato?», le chiese con vigore, mettendola in serio imbarazzo.
«Esti filla mia [È mia figlia]», rispose lei, abbassando lievemente il capo. «Diana», aggiunse poco dopo.
«Ti chiedo di nuovo dove hai preso il neonato».
«Esti filla mia [È mia figlia]», insisté lei.
Ma Assunta, Gavina ed Efisia che sapevano bene quanto quella ragazza strana non riuscisse neppure a parlare con un ragazzo, faticavano realmente a credere alle sue parole. Lei era una creatura di Satana, una strega il cui scopo era quello di stravolgere le menti altrui e, le credenza popolari, raccontavano fin troppo bene di come le bruxa si spostavano di culla in culla per rapire bambini e divorarli. Le tre erano donne di chiesa e fede: dovevano sapere tutto su di loro e anche come combatterle.
«Tè bedda [Che bella]», dichiarò Efisia a un certo punto, mostrandole un raggiante sorriso.
«'E berusu [È vero]», aggiunse Gavina, congiungendo le mani.
Assunta scrutò le due per un attimo e dopo annuì, mostrando alla giovane madre un felice sorriso. «Parriri propriu una bedda pipia! [Sembra proprio una bella bambina!] Da pozzu biri? [La posso vedere?]».
Lei si accostò a loro con titubanza poiché la piccola non smetteva di piangere, ma i complimenti ricevuti le avevano fatto così piacere, soprattutto da parte loro, che non riuscì a fermarsi. Doveva solo avvicinarsi, aveva pensato, e poi l'avrebbe riportata a casa. Forse aveva mal di pancia o fame. Assunta la raggiunse e nel vedere la piccola non riuscì a non sorridere, allungando d'istinto le mani verso di lei e afferrandola. Lei stava per tirarsi indietro quando era ormai troppo tardi e, per non sembrare maleducata, lasciò che la prendesse.
«Conosco un qualchecosa per farla smettere di piangere», affermò, iniziando a cullarla. Diana in verità continuava a strillare e probabilmente lo stare con una sconosciuta non faceva che aumentare il suo fastidio, ma lei non riusciva a contraddirla.
Avvertiva il vuoto della bimba sulle sue braccia e, per un attimo, uno strano sentore che sapeva di nostalgia. Allungò le mani verso Assunta per riprendersela ma lei si spinse via facendo due passi indietro e Gavina ed Efisia le si pararono davanti. Non capiva cosa stava succedendo ma iniziò a mancarle l'aria, sentendosi inerme. La sua Diana era lì a poco da lei ma non riusciva a raggiungerla, la stavano spingendo via, le stavano separando. Lei piangeva e non poteva raggiungerla, non poteva cullarla, non poteva darle un bacio. L'ansia prestò generò terrore che si propagò in un attacco di panico: il respiro pesante, la testa le girava e il corpo tremava.
«Diana», sussurrò, «Assunta, sa pipia [la bambina]». Cercò di fare due passi ma le due la spinsero indietro e lei per poco non cadde, reggendosi a stento. «Smettetela», quasi urlò, passandosi la mano sulla fronte. «Sa pipia».
«Smetterà di piangere, ti dappu nau [te l'ho detto]», disse a quel punto Assunta, «Quando te ne sarai andata».
«Bairindi [Vattene]», la spinsero via.
Lei cadde. Tentò di rialzarsi, però il suo corpo era troppo pesante e la terra non stava ferma. Vedeva Gavina ed Efisia sorridere ma non ne era sicura, non riusciva a fissarle troppo a lungo, la sua vista si stava appannando. L'unica cosa di cui era certa era la sua bambina che piangeva, ancora e sempre più forte, tenuta stretta da delle braccia che non erano le sue. Si sentiva fine, piccola, sola, incompleta. Alzava una mano per tentare di raggiungerla ma era troppo distante e, poi, udì ancora la sua voce, quella di Assunta, con decisione.
«Allora non te ne vai?», le diceva, «Non te ne vai?». Le altre due parlavano ma erano bisbigli senza significato, per quanto si sforzasse non riusciva a comprenderle, finché non le vide camminare e distanziarsi, disponendosi in un cerchio intorno a lei. «Te ne andrai, bruxa», le aveva gridato dopo. «Te ne stai già andando».
Silenzio. Il suono di una campanella.
Il mondo che aveva iniziato a girare si era finalmente fermato e non sentiva più Diana che piangeva. Alzò lo sguardo lentamente come se potesse essere accecata dal sole e fissò le tre una dopo l'altra con gli occhi ben strizzati, riconoscendo la sua piccola, vestita di bianco. Capì in quel momento che non l'avrebbe più rivista.
Le giovani donne presero per mano un rosario e, strisciando il pollice avanti e indietro su di esso, cominciarono a pregare, rendendo le loro tre voci una sola forza. La campanella sconosciuta si fece eco nell'aria mentre lei tentava di rialzarsi; strinse così forte gli occhi che cambiarono colore, diventando rossi. Si alzò da terra e il vento si rafforzò, mentre il cielo si faceva grigio, ma era troppo tardi: sentì il suo corpo divenire più leggero e i suoi occhi persero lucentezza, intanto che l'immagine della sua piccola Diana fra le braccia di Assunta svaniva con punti di luce.
«No». A quel punto, non le restò che urlare. «Assunta, ti prego! Sa pipia! Ti prego! No! Sa pipia». La luce la accecò per troppo tempo e si coprì gli occhi, continuando a urlare, finché non udì qualcosa di diverso, caos, risate e tanti piedi che si muovevano verso varie direzioni, confondendola, così li riaprì, lentamente, scoprendo di ritrovarsi in un luogo mai visto.

Il vento si faceva sempre più forte e alcuni mamuthones furono sbalzati via. Il cielo aveva iniziato a tuonare e quella donna stringeva i pugni con più forza e rabbia. Gli issohadores si guardavano attorno con meraviglia, preparandosi a contrattaccare, quando uno di loro, quello che fino a quel punto aveva parlato da solo, non decise di fare loro un cenno con la mano per calmarli, mettendo questa sulla maschera. Dotata di grande curiosità, la signora lasciò che il vento perdesse potenza per permetterle di distrarsi e guardare oltre al viso anonimo e bianco: lui se la sfilava lentamente, lasciando intravedere un sorriso insoddisfatto e triste e un occhio pieno di lacrime sotto il ciuffo castano chiaro.
«Daniele…», esclamò in un sussurro.
La scoperta fece cessare il vento e la pioggia, e appena dopo i tuoni si ritirarono con le nuvole. Una lacrima rigò il viso della donna una dopo l'altra ma si sforzò di sorridere. Aveva tolto a Daniele la ragazza di cui era innamorato e sua nonna, quella che credeva tale. Le era stata portata via la bambina ed era in ogni caso riuscita a rovinare la sua vita e quella di suo nipote, pensò la signora. Gli allungò una mano per raggiungerlo, scorgendo per un attimo il ricordo di Diana vestita di bianco, prima che gli issohadores la legarono con il loro lazo, stringendola.
«Dobbiamo portarti via», bisbigliò lui.
La donna non oppose resistenza e rise, e, mentre i mamuthones tutti suonavano i loro campanacci con i salti di una danza sconosciuta intorno a lei, loro quattro si voltarono e tesero bene la corda sopra la spalla, iniziando a tirare ognuno verso il punto opposto all'altro che stava dietro. Lei si sentì stringere appena e il dolore svanì presto. Scomparve e con lei gli issohadores e mamuthones, lasciando ad Iglesias il traffico del mattino ancora nuovo, con le lunghe file di bambini e genitori verso la scuola, l'odore dolce del pane appena sfornato che portava nel Panificio all'angolo e, naturalmente, le campane della chiesa.


















Terzo e ultimo capitolo :) Mi piace come ho reso la vera protagonista della storia l'ultima a presentarsi, perché Laura era una maschera “potente”: la protagonista sembra lei, è scontato, e invece no, e la mostro solo all'ultimo capitolo. Spero solo di aver reso questa cosa bene anche per i lettori :)

Piccola nota: ci ho pensato solo adesso perché lo davo per scontato ma non lo è: la "x" in sardo non si dice come la si direbbe normalmente, non ha un suono marcato e forte, ma leggero e sfumato, quindi "bruxa" si legge un po' come "brusc[i]a". La i non si legge ma ve la devo mettere per forza, per non leggere brusca XD Che sembra più una bruschetta. Lo stessa regola quindi anche per le altre parole con la x.   


Ci tengo a ringraziare nadine5 per aver messo questa storiella nella lista delle seguite ^^

E così, questa breve storia si conclude qui… Fatemi sapere cosa ne pensate!
Ci rileggiamo in giro, a presto! Chu!




   
 
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