Fanfic su artisti musicali > 5 Seconds of Summer
Segui la storia  |       
Autore: Nanek    26/05/2015    10 recensioni
E da sciocco credo sia anche una buona idea prendere un pezzo di carta, una penna e fingermi come la mamma, piccoli miei, fingermi scrittore e non compositore, fingermi autore di questa storia che chissà se mai vi verrà voglia di conoscere, di leggere.
Io la scrivo lo stesso, forse perché mi sento troppo ispirato, forse perché ora capisco cosa prova la mamma quando dice di dover sfogare su carta quello che le frulla in testa.
E pensare che tutti non ci avrebbero scommesso un dollaro su di noi.
E pensare che doveva finire nell’arco di qualche mese.
E pensare che era considerato tutto impossibile.
Perché, dai, chi crede che un cantante famoso possa innamorarsi perdutamente di una fan?

Una tra mille, milioni, una che non la distingui neanche dalla folla, una che è lì e ti sembra uguale a quella accanto.
Solo una fan in mezzo ad un mare di volti che cantano le tue canzoni, volti sempre diversi.
Dai, chi ci crede che questo possa funzionare davvero?
Beh, io e la vostra mamma lo abbiamo fatto.
~
Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=kLzoGYhAfeE
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Luke Hemmings, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Lune's Love'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
2. Try hard
 
 Image and video hosting by TinyPic
 
She's so out of reach, and I'm finding it hard cause
She makes me feel, makes me feel,
Like I try, like I try, like I'm trying too hard,
Cause I'm not being me, and it's getting me down
She makes me think, makes me think,
That I try, that I try, that I'm trying too hard again
Cause I'm trying too hard again.
 
 
Bambini miei, forse, adesso siete troppo piccoli per capire certe cose, forse non è ancora arrivato quel momento che sia io che mamma tanto temiamo, il momento in cui la vostra vita non sarà più soddisfatta dai giocattoli, dalle corse al campo, dai disegni fatti con gli acquerelli o con i colori a cera.
La vita cambia, ogni anno che passa, la vita propone cose così straordinarie che questi giochi sembreranno briciole ai vostri occhi, la vita vi farà provare emozioni, sentimenti nuovi, che saranno la cosa più bella che proverete dentro.
Tutto questo preambolo degno di una donna, l’ho fatto perché in quel momento esatto, dentro di me è cominciato di nuovo quel vortice che pensavo di aver scordato.
Lo sapete, no? Papà non ha sempre avuto la mamma con sé.
Stupido che sono, è ovvio che ora come ora non lo sapete.
Forse ve lo racconterò un giorno, giusto per farvi capire molte cose, giusto per dare un senso a questa storia improvvisata che ho deciso di scrivere per voi, per darvela quando sarà il momento più adatto.
Quando la leggerete, insomma, capirete molto di più.
Papà non ha sempre avuto mamma con sé: l’ho conosciuta a soli diciotto anni, per caso, in una giornata di sole, di maggio, in una città che non apparteneva a nessuno dei due.
Ma prima di lei, papà è stato con un’altra persona, una certa Aleisha, che mamma nomina sempre con una vena di gelosia immensa, perché lei è stata la prima persona a farmi provare qualcosa di vero, qualcosa di grande nel petto.
Perché quando i giocattoli non servono più, i sentimenti sono una bella consolazione, vediamola così.
E, io, quando ho conosciuto la mamma, non li sentivo così vivi, così veri, da quando Aleisha aveva deciso di chiudere la nostra storia.
Avevo circa sedici anni, e per due anni sono stato privato di certe emozioni.
Certo, la mia vita stava cambiando, la mia vita mi ha dato molto di più: mi ha dato fama, fortuna, mi ha dato la possibilità di girare il mondo come se fosse una cosa ordinaria, ho viaggiato come un folle, ho cantato per milioni di persone, la mia musica era nell’Ipod di molti esseri viventi.
Certo, parlo al singolare, ma in questa avventura lo sapete, no? C’erano anche gli zii Ashton, Calum e Michael, guai a dimenticarsi di loro! Me la farebbero pagare.
Ho provato emozioni forti, come queste, ho avuto paura di esibirmi davanti a cantanti più famosi di me, ho anche stonato, qualche volta, perché l’ansia ha avuto la meglio, ho passato notti insonni tra una festa e l’altra, ho aspettato con ansia i diciotto anni per poter guidare, per poter bere –ma solo in qualche paese.
Il vostro papà ha avuto tanto, forse troppo, dalla vita, eppure, terminata la storia con Aleisha, ho sempre sentito la mancanza di amare qualcuno.
Non è facile, bambini, vivere soli, soli nel senso senza qualcuno pronto ad aspettarti, pronto a chiamarti per preoccuparsi un po’ di te.
Mi mancava qualcosa, mi mancavano quei sentimenti fragili, belli, che gli zii evitavano facilmente, deridendomi per questa mia debolezza.
Ma loro non erano da meno, fidatevi di me.
Siamo fatti per amare, siamo fatti per voler bene a qualcuno, siamo fatti per prenderci cura di quella persona così perfetta per noi.
E, da quella misera uscita con la mamma, in quella notte di maggio, ho sentito quei sentimenti, ormai dimenticati, farsi nuovamente avanti.
Ve ne renderete conto, bambini miei, vi renderete conto subito se vi siete appena cacciati nel guaio più assurdo che è l’amore.
Perché il cuore comincia ad andare a mille, nell’attesa di un messaggio.
Perché se parlare è la cosa più facile al mondo, diventerà un’impresa: la gola secca, la lingua che va dove vuole facendovi storpiare anche un semplice “Ciao”.
Le gambe tremano, si muovono nel tentativo di non cedere e farvi cadere a strapiombo.
Le mani sono fredde anche con quaranta gradi al sole.
Il cervello non connette, non sa mai qual è la scelta più giusta, anche la più semplice sembra arabo o qualche lingua strana.
E io, bambini miei, ero già così.
A solo un mese di distanza da quella passeggiata, io sentivo già i primi sintomi.
Perennemente al cellulare.
Perennemente alla ricerca di un Wi-Fi.
Perennemente a mordermi il labbro.
Perennemente nervoso.
Perennemente con quella faccia da rimbambito che non passava inosservata, tanto che gli zii si divertivano come pazzi a deridermi.
«Hey, Luke, vuoi la pasta con lo zucchero
«Sì, sì, va bene»
Giusto per fare l’esempio: la pasta con lo zucchero me la sono pure mangiata, da provare, figli miei, da provare ad essere completamente fuori di testa per una ragazza, da provare anche la pasta con lo zucchero, magari vi piace.
La mamma… la sentivo praticamente tutti i giorni.
E più i giorni passavano, più la voglia di vederla cresceva.
Ero preso male, bambini miei, ero ossessionato da quella ragazza che aveva dubbi su di me, che scriveva cose belle su di me, nonostante nella sua testa pensasse che mi passassi tipo dieci ragazze a notte.
E, no, figlioli, certi futili errori preferisco evitare di raccontarveli.
Vedetela sotto questo punto di vista: pur di convincerla del contrario, avrei fatto qualsiasi cosa, avrei messo la testa a posto, avrei smesso con le cazzate, sarei maturato di dieci anni solo per essere come lei mi pensava, descriveva, sognava.
Cosa non si fa per una bionda?
Cosa non si fa per la mamma?
Ero pazzo, ero fuori di testa.
E il tour intanto mi uccideva lentamente, tra voli persi, passaporti smarriti e immensi chilometri di terra da attraversare, anche in bus, in caso.
E le ore passavano tra messaggi e qualche occasionale chiamata Skype, chiamate sempre più difficili, dato che gli zii si divertivano a simulare orgasmi o idiozie varie che imbarazzavano me e la mamma.
E la voglia di vederla era tanta.
Quel giorno ero a pochi chilometri da lei, ero a Londra, non ero così lontano, non ero così irraggiungibile, per lei erano pure cominciate le vacanze estive, tutto sembrava urlarmi di fare la cazzata.
Partire e raggiungerla.
Farmi dire il suo indirizzo di casa e presentarmi sotto la sua finestra.
Solo per parlare.
Solo per camminare ancora, vicini.
Magari con il coraggio di prenderle la mano.
Magari con il coraggio di dirle che mi stava mandando completamente fuori di testa.
«E allora vai!» mi ha urlato dietro lo zio Michael «Prendi un volo e vai! Sei uno spacca coglioni, vai e torna domani, possibilmente per le tre, dato che abbiamo il sound check»
E sono partito.
Sono andato in Italia, da solo, senza sapere una parola di italiano, sono partito per Milano, rendendomi conto, solo quando ho prenotato, che la sua città era a quattro ore di macchina da lì.
Mi sono dato dell’idiota, del coglione, tutti i possibili dispregiativi al mondo.
Ho contattato la mamma, ho finto di interessarmi a qualcosa a caso, per poi arrivare al punto.
“Senti ma… tu dove abiti in pratica? Perché mi hai detto che non sei di Milano…”
Due messaggi più tardi avevo anche già prenotato il treno da prendere per arrivare a destinazione.
Sono arrivato alla sua stazione alle quattro del pomeriggio.
Lei, dal suo canto, non voleva credere alle mie parole.
“Non fare l’idiota, non ho voglia di fare un giro a vuoto”
“Ma se ti dico che sono qui, nella tua città, perché non dovresti credermi? Sono qui, dannazione!”
“No, non ti credo. Domani hai un concerto, nessun pazzo partirebbe per venire qui e stare meno di ventiquattro ore”
“Cosa devo fare per convincerti? Mandarti un selfie con la stazione della tua città?”
E non l’avessi mai proposto.
“Sì.”
E la mamma, si sa, è sempre così simpatica.
La foto gliel’ho mandata eccome, con tanto di stazione come sfondo, con tanto di cartelli stradali per convincerla ancora.
Dopo circa dieci minuti, ho ricevuto risposta.
“Sto arrivando.”
Né una faccina, né un “oddio, Luke ma che hai fatto”, neanche un briciolo di stupore, solo quel misero messaggio di due parole e un punto.
E dopo altri venti minuti, l’ho vista venirmi incontro.
«Cosa cazzo ci fai qui?»
«Hai imparato le parolacce in inglese?»
«Perché sei qui? Tu sei folle, sei incredibilmente folle» e io ho preso tutto come un complimento.
Le ho sorriso, avvicinandomi al suo viso, baciandole la guancia e facendola arrossire.
«Sono felice di vederti» le ho sussurrato, mentre lei cominciava a farmi strada verso il centro.
Camminavamo l’uno accanto all’altra, io in silenzio religioso, mentre lei cominciava il suo lungo monologo durato più o meno sull’oretta e mezza.
Gli esami universitari, la tesi da scrivere, l’amore come argomento scelto, nuovi segni in lingua dei segni da mostrarmi, nuovi scleri riguardo al nuovo album degli Sleeping with Sirens, nuove notizie sulla salute di Charlie, la scoperta del tatuaggio che ha dietro al collo, quel gatto stilizzato che piace anche a voi, bambini.
E io l’ho ascoltata come se fosse il libro più interessante da leggere.
Perché mamma ne sa troppe, bambini, anche se lei dice di non valere un soldo bucato.
Ne sa di tutti i colori, e neanche se ne rende conto.
E intanto camminavamo, imboccavamo vicoli di mille tipi, mi mostrava giardini, scuole, affreschi, tutte cose che osservavo per neanche un secondo, perché era lei l’unica cosa che volevo fissare.
Quel giorno si era fatta una treccia di lato, la solita frangia più lunga; indossava una canottiera nera, la gonna lunga e color del corallo.
Non mi sono perso neanche un dettaglio di quel pomeriggio, ero assetato di ricordi da imprimere nella mente, perché chissà quando ci saremo rivisti ancora.
E poi ecco il momento più bello.
Il coraggio di prenderle la mano.
Lasciare che le mie dita scivolassero sulle sue.
Intrecciarle appena, le sue parole interrotte, un balbettio a causa di quel gesto così spontaneo, così voluto.
È rimasta in silenzio per cinque minuti, mentre io ho cominciato a parlarle del tour, delle solite cose noiose che non suonavano interessanti neanche a me: la vita del cantante, la vita con gli altri, i progetti che mi aspettavano, le solite cose ripetitive che lei già sapeva a memoria.
Un vicolo più stretto, la mamma che «Dai, vieni, ti mostro un posto» senza lasciare la presa della mia mano.
Ricordatevi, bambini, che papà non è la mamma, non sono uno scrittore e che quello che sto per descrivere non è neanche paragonabile a ciò che ho visto.
In pratica, era un ponte.
Un ponte tra due palazzoni, un ponte con l’acqua che scorreva piano, silenziosa, tranquilla.
I palazzoni gialli, i balconi verdi, il ponte in legno: un piccolo angolo di paradiso, il silenzio a regnare, un piccolo scorcio di pace.
«Un giorno, dopo aver fatto delle fotocopie, ho preso coraggio e ho attraversato il vicolo, credendo di arrivare chissà dove, e l’ho trovato» ha spiegato lei, mentre io me ne stavo a bocca aperta, incantato, sorpreso da quel piccolo posto «So che non è chissà che ma… credo sia il mio posto preferito» e finalmente l’ho vista sorridere.
E, stupidamente, ho pensato che quello fosse il momento giusto per baciarla.
Papà è un idiota, bambini, qualche volta gli zii hanno ragione, devo ammetterlo.
Perché ho agito da idiota, da coglione, ho agito senza pensare.
L’ho guardata negli occhi, mentre lei mi sorrideva, felice di aver condiviso con me quel posto a lei caro.
Mi sono fatto serio e… cazzata, insomma.
Mi sono avvicinato, veloce come un razzo, e… beh, diciamo che ho fatto in tempo solo a sentire le sue labbra sulle mie, prima di sentire la mano della mamma in piena guancia.
«Cazzo! Quasi potevo scriverlo su un foglio!» ha urlato lei, riportandomi alla realtà.
«Porca puttana, Luke! Ma per chi mi hai preso tu, eh? Per una di quelle troie che ti porti in camera ogni giorno? Io lo sapevo, lo sapevo, cazzo, lo sapevo che non dovevo fidarmi di uno come te! Tu… tu… tu vuoi solo illudermi, vuoi farmi credere che sei diverso, che sei interessato a me, che ti ispiro qualcosa ma, in realtà, a te importa solo di portarmi a letto e poi mandarmi in lista d’attesa, come tutte le altre!»
E, sì, bambini, mamma è riuscita a formulare tutto questo in inglese, come se lo avesse preparato il giorno prima, un monologo ben strutturato, pieno di parolacce da dire nel momento più opportuno, pieno di insulti di ogni tipo che hanno messo ben in chiaro quello che pensava di me: un puttaniere, uno senza cuore, altro che angelo caduto dal cielo.
«Vanessa, aspetta, io… no, dai, per favore, non dire così» e lei stava già camminando lontana da me, imprecando in italiano, credo, perché più le urlavo di fermarsi, più lei urlava parole a me sconosciute, parole pesanti, che evito di riportare qui, così mi risparmio un’altra umiliazione.
Però l’ho seguita, per ben dieci minuti, prima di avere il coraggio di prenderle il braccio.
«Senti, okay, ho sbagliato, ma, porca puttana, tu non sbagli mai? Non volevo sembrare quello che tu pensi, volevo solo… oh, cazzo! Tu mi porti nel tuo posto preferito, abbiamo le mani intrecciate, mi guardi, mi sorridi, posso aver frainteso? Posso aver creduto che anche tu volessi essere baciata? Dio, ma perché sto anche a farmi queste domande?! Sei… sei illogica, sei incomprensibile, lanci l’amo e appena io abbocco molli tutto! Cazzo, tu mi piaci, mi stai mandando fuori di testa, e quello che fai sembra istigazione, sembra voglia di flirtare con me!» e le parole che ho detto… non credo le abbia capite tutte, anche perché ho parlato così velocemente che non mi sono più capito neanche io.
E giù di insulti in italiano, di nuovo.
«Non cercarmi più, io non sarò un altro nome da mettere in lista» e questo l’ho sentito più che bene.
E… niente, bambini miei, posso solo dirvi che ho passato la notte in un hotel, da solo, ad aspettare un messaggio che non è arrivato.
Sono partito il giorno dopo, sono arrivato puntuale alle prove e… basta.
Zio Michael non ha osato fare domande, come se avesse capito.
Ho sbagliato la bellezza di due accordi al concerto.
Ho liberamente detto “cazzo” al microfono quando mi sono reso conto degli errori.
Beh, ho fatto un casino bestiale, volevo solo andarmene a dormire, volevo solo prendere sonno e dimenticare ogni cosa, dimenticare lei, quel posto, quella follia, quella cazzata.
Ma la verità… è che sono stato sveglio fino alle quattro del mattino con il cellulare in mano.
Sintonizzato sulla chat con la mamma.
In attesa di un messaggio che non è arrivato.
E, poi, quel messaggio alla fine l’ho scritto io, messaggio che ha avuto risposta solo il giorno dopo.
“Mi importa così tanto di te che non penso ad altro se non al casino che ho combinato ieri. Ti prego, non volevo fare la figura dell’idiota, volevo solo fare la cosa giusta, dal mio punto di vista. Scusa, ti prego, scusa”
E sapete che cosa mi ha risposto?
“Okay, Luke.”
Per la prima volta, bambini miei, ho mandato a fanculo la mamma, mentalmente.
Ma la mamma è la mamma, no?
E io sono solo un idiota, no?
Avrei dichiarato di avere torto marcio, anche quando non era vero, per lei.
E ricordate sempre questa regola d’oro, bambini: il primo bacio si dà al terzo appuntamento.





 
 
 
Note di Nanek
Sempre più puntualeeeeeeeee <3
Sono fiera di me, almeno con sta storia sono in orario *riferimenti casuali a Tomorrow Never Dies che purtroppo è ferma perché dobbiamo ancora finire di scrivere il capitolo 12 ehm ehm*
Ma parliamo di questa, di storia.
Beh, lo ammetto, Vanessa è un’esagerata cronica :D
Lo so, forse, voi fanciulle, lo avreste baciato eccome Luke sonotantobello Hemmings, però… boh, a me non ispirava mica quel momento.
Certo, il posto preferito, le mani intrecciate, la follia di essere andato a trovarla… sembrava davvero tutto perfetto per un bacio.
E INVESSE.
No, ho deciso di farlo patire, povero Luke: piccolo Hemmo, ti tocca aspettare il terzo appuntamento! Ahah.
Mi dispiace per lui, perché quello che gli ha detto Vanessa è un po’ cattivo e non meritato, tuttavia, date fiducia a questa ragazza, lei… beh, è solo tanto insicura e teme di cadere in sentimenti più grandi di lei.
Solo… beh, vabbè, se volete commentare questa reazione, sarò lieta di leggere le vostre opinioni a riguardo =)
Per il resto, un grazie di cuore a tutte voi che leggete questa storia.
Davvero io… beh, l’ho già detto ma lo ripeto, come trama non è niente di così eclatante ma… boh, avevo voglia di scrivere una storia dove lui è quello famoso e la conosce dopo essere diventato così popolare e non prima, così anche per magari riuscire a farvi “sognare” un po’ di più, dato che è la situazione comune a tutte, no? :D
Con questo chiudo.
Grazie ancora per tutto <3
A presto!
Nanek

 
 
 

 

  
Leggi le 10 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > 5 Seconds of Summer / Vai alla pagina dell'autore: Nanek