Storie originali > Nonsense
Ricorda la storia  |      
Autore: gattapelosa    28/05/2015    1 recensioni
Cosa vuol dire che non avete capito niente di quello che vi ho raccontato? Dubitate del vostro intelletto, se non siete riusciti a comprendere.
------
Ci sono bande criminali, ragazze tradite, assassini, assassinati, nobili, Spagnole, ballerine e animali. Ci sono bambine che mangiano lecca-lecca, uomini con occhi di vetro, ragazzi tatuati, donne scocciate, bugie, infamie, speranze e coltelli. Insomma, tante cose inutili.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Nonsense | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


Dodici bestie allo zoo
 


 
— La prima volta che ti ho vista, stavi ballando la danza del cigno su uno dei palchi più importanti dell’Illinois. Io non ero andato lì per te, ma è per te che sono rimasto. E da allora non ho più trovato la forza di lasciarti andare.
Perché ti amo, Eloïse


 
                        La mosca
 
Esmeralda sta guardando una mosca. Sta guardando una mosca a testa in giù, sul divano, perché in qualche modo si è svegliata capovolta e non sente ancora il bisogno di alzarsi. Pensa a quanto utile sarebbe ora diventare una rana, allungare la lingua, catturare la mosca e mangiarla. Ci prova. Ma Esmeralda non è una rana, la sua lingua non toccherà mai il soffitto.
Poi la mosca vola via, e lei tenta spontaneamente di seguirne il percorso con lo sguardo, tra le mensole, sulla libreria, vicino al tavolo del soggiorno. Finché la mosca non decide di appoggiarsi sulla spalla di Ada, e lì rimane altri dodici secondi. Poi Ada la spiaccica.
— Oh, che peccato — fa lei — Era carina. Però mi dava fastidio il ronzio.
Esmeralda sta guardando Ada, ora. Dall’alto dei suoi centotrenta centimetri, è la più letale concentrazione di tutto il fastidio, il male, e l’odio, e la tenerezza dell’universo nostro, sotto un caschetto di capelli rossicci, un sorriso di ferro, occhi sottili, immagine del Diavolo. Guardandola con la testa all’ingiù, Esmeralda sente di odiarla ancora più di prima.  
— Sei una persecuzione — dice infatti, senza nemmeno più provare a domandarsi come abbia fatto la figlia di Jimmy Carter a introdursi in casa sua.
— Faccio solo il mio lavoro. Hai le caramelle mou? — chiede comunque Ada, seduta sul pavimento. Senza parlare, Esmeralda indica il barattolo di caramelle sul tavolo della cucina.
Altri dodici secondi, e Ada fa in tempo ad alzarsi, arrampicarsi sulla sedia e scartare la prima caramella, mentre Esmeralda si limita a guardarla, senza spostarsi.
— Dovrebbero valere come tangente — dice poi.
— Io ti do le caramelle, tu mi tieni lontano Carter.
— Papà non sarà mai d’accordo — spiega lei. — Lui ti ha tirato fuori dal problema dei Marin.
— E io credo di aver ripagato il mio debito.
E Ada ora scoppia a ridere. Ride così forte da far cadere a terra l’intero barattolo di caramelle, ma è troppo occupata a tenersi la pancia, piegata in due, per preoccuparsene. Anzi, appena prende un attimo fiato si alza in piedi, schiacciandone un paio sotto la suola degli stivaletti, e guarda Esmeralda come se la bambina fosse lei.
— Non ti facevo così illusa, Spagnola.
Ma Esmeralda illusa non lo è più da tempo. Eppure chiude ugualmente gli occhi, e torna a dormire — perché in fondo, la prossima volta che si sveglierà, forse il mondo avrà cambiato colore.
 
Chissà che fine ha fatto quella mosca.
— Charles! Ma cos’è?
— Solo un regalo.

— Un regalo? Mi regali una collana d’oro?
— Con diamanti incastonati sul ciondolo.
— Diamanti…oh Dio! Charles, non posso accettare!
— Devi, invece. L’ho fatta fare per te, per il tuo compleanno. Tanti auguri,
Eloïse.  


 
 
Il gatto
 
 
— Come si chiama quella nuova?
— Cosa ne so? Non ce lo vuole dire.
— È spagnola. Chiamiamola Lola.
Howard Marin lancia una terza freccetta contro la foto di Jimmy Carter, centrando, con valida precisione, proprio l’occhio buono. Quello non ancora di vetro, insomma. Immaginare di mutilare il proprio nemico è un passatempo sano, dice suo fratello – aiuta a scaricare la rabbia e distende i nervi. Howard Marin non è d’accordo: ora sì vorrebbe avere Carter tra le mani e infilzargli il bulbo oculare con una freccetta!
— Ah, ‘sto cazzo di gioco. Fanculo Ben, davvero. Dovremmo essere lì fuori a spaccargli il culo, quel pezzo di merda ci porta via gli affari!
Benjamin Marin siede sul loro delizioso divanetto in pelle, cullato dalle fusa del suo certosino grigio, con una pipa tra le mani e le gambe avvolte da una coperta in pail. L’ultima cosa cui vorrebbe pensare ora è “il problema Carter”.  
— Rilassati, Howard — dice quindi, poi cambia argomento —  Che ne facciamo di Lola?
— Ma che t’importa di quella? Spetta e vedi un po’ come te la trasforma Poli. Poli sì che sa renderle appetibili, le puttanelle.
— È piccola per fare la puttanella.
— Ha tredici anni, non è piccola.
La quarta freccetta centra giusto-giusto la pustola pelosa di Carter. E Howard immagina di avercelo tra le mani, il bastardo, e di fargli saltar via la pustola con un rasoio elettrico, o un ago appuntito, o un paio di cesoie. E immagina il sangue, le urla, la rabbia; sorride. Prima o poi…
— È piccola, ti dico. Non le voglio così piccole — Howard torna con i piedi per terra, al di là del sangue e delle lacrime, nel mezzo del loro salottino kitsch. Scuote leggermente il capo, poi prende tra le mani un’altra freccetta, e risponde:
— Allora che vuoi farci, genio? Trasformarla in una cameriera finché non compie sedici anni?
Il gatto sul grembo di Benjamin Marin alza la testa e, fissandolo stancamente negli occhi, miagola la sua approvazione.
— Se Mr Tootsie è d’accordo, sono d’accordo anch’io.
 
La quinta freccetta manca clamorosamente il bersaglio.
 
 
Eloïse, sei stata splendida anche questa sera!
— Grazie Charles, sono contenta che tu sia potuto venirmi a vedere, nonostante ti sia sentito poco bene.

— Ma cosa dici? Non mi sarei perso la tua danza per nulla al mondo, cara.
 
 
L’usignolo
 
Il suo usignolo sta sicuramente soffrendo, e Jimmy Carter non può proprio fare proprio a meno di pensarci. Cosa farebbe lui, se venisse imprigionato in una gabbia? Nella gabbia della bestia più grande, più forte, più crudele del suo piccolo, docile mondo? Morirebbe, ecco cosa. E Jimmy non vuole che il suo usignolo muoia.
— Dovrei prendergli una gabbia più grande…— sussurra, lasciando passare una briciola di pane tra le sbarre.
— Gliene hai già presa una più grande. E una più grande ancora. Perché non lo lasci direttamente libero?
Ada è seduta sul puffo vicino la gabbietta, davanti a una confezione di caramelle mou. A lei non turba affatto il dolore dell’usignolo. Anzi, non capisce come un uomo forte, un uomo alla Jimmy Carter, possa provare empatia verso una creatura tanto debole.
— Ma se lo lasciassi libero, vincerebbe lui— risponde Jimmy, guardando l’usignolo. Poi, con la tipica enfasi da genio illuminato, si volta rapidamente verso il puffo di Ada.
— Ah! Mi sono dimenticato di dirti una cosa importantissima! — esclama infatti. — C’è una nuova recluta per la Squadra Rossa!
Ada, che ha già saputo tutto da Bill, non se ne stupisce affatto. Ma suo padre è quel tipo di “grande uomo” che se ne risentirebbe sicuramente, qualora dovesse venire a sapere di essere stato preceduto. Allora finge.
— Ah sì? E chi è?
— Era una delle serve dei Marin. Poi ha ammazzato il figlio di Howard ed è fuggita. Ho pensato fosse una buona idea prenderla con noi, così quelli non uccidono lei e noi la sfruttiamo per uccidere altre persone.
— Ha ammazzato William Marin? E perché?
Il cuore pietroso di Ada non sarebbe mai riuscito a cogliere la tragicità dell’inganno, Jimmy conosce sua figlia. La conosce tanto bene da sapere comunque che mentirle sarebbe inutile.
— Per tradimento, Ada — dice allora. — Perché lui ha finto di amarla. Perché le aveva fatto credere che fosse possibile ricominciare a vivere, e poi l’ha tradita.
E difatti Ada non capisce. Come possono gli esseri umani donare la propria felicità al cuore di altri esseri umani, mettersi a nudo e sperare comunque di non prendere freddo?  
— E come si chiama, la nostra nuova assassina?— domanda ugualmente, senza indagare.
— Non ce lo vuole dire. Tutto quello che so è che spagnola — una pausa, un sospiro. — Chiamiamola Spagnola!
 
Ad Ada va di traverso la caramella.
 
 
— Dopo lo spettacolo, che ne dici di andare a casa tua per farci l’aperitivo?
— Certo Charles, ma non sarebbe meglio ritirarci nel tuo bel palazzo? Il mio appartamento, così umile, stona molto con la tua eleganza…
— Oh, Eloïse! C’è molta più intimità nel tuo umile appartamento che nel mio freddo, sfarzoso palazzo, fidati.
 
 
Il topo
 
 — Ciao, Lola.
Esmeralda sente il respiro caldo di Will solleticarle il collo. Non c’è nessuno in cucina – potrebbero arrivare a momenti, lo sa, ma non importa. Si volta e lo bacia, silenziosamente. Will la solleva da terra, spostandola di peso sul tavolo della cucina, per poi carezzarle i fianchi e denudarle le spalle.
— Sei meravigliosa. Sei la ragazza più bella che abbia mai incontrato.
Le morde una spalla, ma lei non prova dolore. Le succhia la pelle, le sfila il grembiule.
— E io ti amo — conclude Will.
Anche Esmeralda lo ama. Lo ama dalla prima volta che lui le ha accarezzato i capelli. Lo ama da quando ha detto che non gli importa se lei fa la cameriera, che le vuole bene ugualmente, che la terrà legata a sé in eterno.
— Grazie — sussurra allora, perché in quindici anni di vita non ricorda qualcuno che l’abbia mai amata. Perché ne ha sempre sentito il bisogno, e ora c’è Will: lui le ha dato speranza, coraggio, forza. Felicità.
E lei a lui ha donato se stessa, senza rimpianti.
Proprio mentre le labbra di Will si spingono più in basso, verso il seno, l’eco vibrante di un grido di donna si diffonde per tutta l’ala delle cucine.
— Oddio, un topo! — e in quel grido Esmeralda riconosce le urla del suo capo. — Lola! Lola, porta subito qui una scopa! Lola!
— Devo andare, è la signora Dessy — sussurra Esmeralda, riallacciandosi frettolosamente il grembiule. Will le sorride.
— Stai tranquilla, ci vediamo dopo — dice.
E quando Esmeralda si allontana si sente leggera, felice, innamorata. Rivedrà Will, più tardi, e nessun topo riuscirà più a distrarli.  
 
Perché l’amore, a quindici anni, può non essere perfetto, ma sembrerà sempre di sì. 
 
 
— Ripetimelo ancora una volta.
— Ti amo, Eloise.
— Grazie. Ne ho bisogno. Ne ho tanto bisogno.
 
 
L’iguana
 
Quando Bill entra nella Sala Z, non riesce a credere che, per una volta, siano davvero tutti lì. La carica di Caposettore della Squadra Rossa, a suo tempo, gli era sembrata una mansione importante, professionale – poi ha scoperto che nessuno dei suoi membri sa cosa sia, la professionalità. E Bill non si è mai sentito nella posizione di riprendere dodici spietati assassini solo perché tendono a presentarsi con una o due ore di ritardo agli incontri, o perché si menano simpaticamente davanti ai loro superiori, bestemmiando e imprecando ad alta voce. Però scoprire ogni tanto che sanno essere anche occasionalmente puntuali, fa sentire Bill meno inutile.
— Sono contento che siate tutti qui!— esclama infatti, attirando su di sé l’attenzione di undici paia di occhi. Il dodicesimo, constata di Bill, è troppo impegnato a nutrire l’iguana.
— Spagnola, presta attenzione anche tu— la incita, lei non lo ascolta.
— Spagnola…
— Lasciala perdere, Bill. La nostra bella straniera ha avuto un pessimo inizio giornata — Caspar le cinge le spalle con un braccio, baciandole scherzosamente una tempia. — La prima cosa che ha visto oggi è stata la spaventosissima faccia di Ada!
— La prima cosa che ho visto è stata una mosca. Ada è venuta subito dopo — borbotta Esmeralda, senza smettere di versare mangime all’iguana. Bill solleva lo sguardo al cielo, e non indaga oltre. D’altra parte neanche a lui farebbe piacere incontrare Ada di prima mattina.
— Va bene, va bene — dice allora. — Basta che vi concentriate un secondo. Il nuovo incarico è stato commissionato da un grande personaggio, il duca Charles MacTorris, dell’Illinois! Fra due ore parte il vostro treno: andrete nell’Illinois, ammazzerete la Signora Eloïse MacTorris in quello che dovrà sembrare un drammatico suicidio e sarete di ritorno per mezzanotte. Così la Spagnola può andare a dormire senza nessuna Ada tra i piedi.
Esmeralda scrolla le spalle, persa ancora dietro l’iguana. Caspar e gli altri tornano a occuparsi dei propri affari, senza nemmeno più provare a fingere di assecondare Bill, o di interessarsi ai dettagli del piano. L’obiettivo è chiaro: uccidere la duchessa dell’Illinois, oggi. Per il resto si vedrà.

D’altro canto, sono assassini professionisti, loro.
 
                                                                                                                                              Il serpente

— Sono incinta, Charles. E il bambino è tuo. Accetta la realtà e fai l’uomo!
Ma Charles non può “fare l’uomo” con una ballerina. I suoi non glielo avrebbero permesso: sarebbe stato uno scandalo, la rovina dei MacTorris. Ha solo sedici anni!
Non pensa nemmeno di poterla circuire, Charles conosce Eloïse: non è tipo da farsi corrompere con un po’ di grana; se non avesse acconsentito al matrimonio, avrebbe informato tutti i più influenti giornali scandalistici. E per lui sarebbe stata la fine.
— Diamine, Eloïse! Come puoi pretendere questo da me?— grida allora, lasciandosi scivolare contro il muro.
— Credevo mi amassi!— risponde lei.
— Cosa vuol dire? Sono un duca, io! L’amore non conta nulla, la mia famiglia mi ammazza!
— E cosa dovremmo fare?— Eloïse cerca di avvicinarsi, di carezzargli un braccio. Lui le volta semplicemente le spalle.
— Dimmi la verità, tu mi ami?— sussurra ancora lei. Charles non risponde, non sa cosa dire, non vuole parlare. Accarezza nervosamente lo stemma dei MacTorris, sul ciondolo di un’antica collana – un serpente, su un’orchidea, in un cerchio. E se lo strappa.
 
O qualcun altro l’avrebbe fatto per lui.
 
Il cane
 
Edward MacTorris non avrebbe mai creduto possibile che suo figlio Charles osasse porlo in una così imbarazzante situazione. Avrebbe potuto quantomeno avvertirlo, far sapere, anche per lettera, d’aver trovato moglie, di volerla far loro conoscere, magari in un’occasione giusto un po’ meglio organizzata. Ma presentarsi così, di punto in bianco, con quella Eloise Fontaine – che poi chi sono mai, i Fontaine? – a casa loro, e dire “mamma, papà, lei è la mia fidanzata e voglio il consenso a sposarla”, è davvero troppo. Mantenere una facciata composta è stato, per Edward, davvero difficile. Sua moglie invece non ha retto il colpo.
— Che cosa? E chi saresti, tu? Che cosa vuol dire…sposarla?
— Tesoro, per favore — la riprende suo marito — Charles ci sta dando una buona notizia: finalmente ha deciso di mettere la testa apposto! Con una ragazza così deliziosa, tra l’altro.
Il sorriso di Edward è un sorriso di convenienza, perché è pure vero che Eloïse ha un viso grazioso, ma altro non sa dire.
— La ringrazio — risponde comunque lei. Edward l’ha fatta prontamente accomodare nel loro sfarzoso salotto, e ora Eloïse deve fare i conti con un ambiente spaventosamente ampio, abbellito da costosissimi quadri, cornici antiche, tavoli barocchi. Non si sente a suo agio, neanche un po’.
— Allora, perché non ci raccontate come vi siete conosciuti? — prende parola Ellen MacTorris, ancora non totalmente sicura d’aver ben compreso la situazione. Sta cercando di sfogare la propria frustrazione accarezzando il capo peloso di Tobias, il volpino di famiglia, ma qualcosa, in quella Eloïse, non riesce proprio a convincerla.
— È successo al teatro — risponde prontamente lei. Poi arrossisce, colta la gaffe. — Cioè… noi…
— Eravamo seduti vicini — interviene Charles. — Durante la rappresentazione del Cigno Nero. Ci siamo parlati, Eloïse mi ha raccontato della sua famiglia. Suo padre è un conte, lo sapevi, padre?
Edward, che non può chiaramente saperlo, sorride e annuisce comunque.
— Effettivamente mi sembra un cognome familiare. Ma sai, la Francia è molto lontana, non ho mai avuto modo di incontrare i nobili d’oltreoceano.
— Avete davvero intenzione di sposarvi? Non sei troppo giovane, tu? — interrompe Ellen, in modo volutamente sgarbato. Non la entusiasma la disponibilità di suo marito: lei vorrebbe solo cacciare quella figura così sospetta dalla sua bellissima casa, allontanarla una volta per tutte dal suo povero figlio.
— No, io… — Ellen vede Eloïse stringere i pugni e irrigidire leggermente la schiena contro lo schienale della poltrona — Io ho già diciotto anni…
Al che dire Tobias apre gli occhi e abbaia. Un ringhio duro e nervoso, di quelli che nessun McTorris si sarebbe aspettato provenire dal loro delizioso volpino.
E sulla prova di quel ringhio, ora Ellen sa per certo che di Eloïse Fontaine non ci si può fidare.
 
Ma Edward al matrimonio ha detto “sì”.

 
Il ragno
 
Caspar ci sta provando con la Spagnola. Jorge non sa se sentirsi geloso perché il donnaiolo di casa ha preso di mira la bella europea prima che potesse pensarci lui, o perché per una volta sembra quasi esserne sinceramente preso.
Impossibile.
Caspar non è mai preso. Meglio, Caspar non si lega mai a nessuno, sentimentalmente, emotivamente, amichevolmente. Carnalmente forse sì, ma è l’unica opzione che Jorge sente di poter prendere in considerazione. E lui ha sempre molto apprezzato questo aspetto di suo fratello: è bello sapere di essere l’unica persona con cui si confida, l’unico a cui vuole bene.
Eppure ora Jorge è costretto ad assistere a quei suoi insistenti tentativi di far piacere all’altra. Siede vicino a lei in treno – questo vuol dire che Caspar ha volutamente preferito la Spagnola, nonostante vicino al fratello non fosse seduto nessuno. E continua a parlarle, toccarle i capelli, offrirle la sua bottiglietta d’acqua; le ha perfino tolto un ragno dalla spalla, e Caspar è aracnofobico!
Ma in fondo Jorge non ha nulla di che preoccuparsi. La Spagnola non sembra volergli dare corda: lo ignora, quando risponde si esprime a monosillabi. E forse è anche per questo che Jorge si sente geloso: nessuno, nemmeno lui, aveva mai avuto il potere di far soffrire Caspar. Nessuno, nemmeno lui, era mai riuscito a fargli fare l’espressione da cucciolo bastonato.
— Stiamo per arrivare nell’Illinois! Non ne potevo più! — Dora, dietro Jorge, si solleva in piedi sul sedile. Indifferente al disprezzo degli altri passeggeri, inizia pure a saltellarci sopra, e dice ai suoi compagni della Squadra Rossa: — Avete visto che bello? Ci siamo quasi!
Stanno per arrivare nell’Illinois. Jorge impugna inconsciamente il manico della lama nascosta sotto la sua giacca.
 
Non c’è più spazio per i sentimenti. Ora è tempo di lavorare.  
 
La farfalla
 
Il modo in cui la guarda, la dolcezza delle sue carezze, i delicati baciamano – suo marito non era mai stato così sinceramente coinvolto, con lei. Ma da quando la contessina Charlotte ha preso a frequentare casa MacTorris, a Eloïse sembra quasi di vedere un nuovo Charles.
Non è per la sua estrazione sociale: tutto il continente è convinto che anche Fontaine sia un cognome nobile, i MacTorris non hanno di che temere, da quel punto di vista. No, è perché Charlotte è Charlotte. Perché Charlotte è giovane, bella, allegra, buona. Ingenua, forse, ed Eloïse non è mai stata ingenua, nemmeno quando ha conosciuto Charles, a sedici anni.
Suo marito non la ama più?
Ora è nascosta dietro la porta socchiusa, spiando il tenero corteggiamento segreto. Con lei era stato molto più diretto, ma forse perché Eloïse era una ballerina, abituata al mondo, non aveva bisogno di tutte quelle dolci attenzioni. No?
No. Certo che no.
Eloïse ripensa a tutte le volte che lui ha detto di amarla. Parole al vento, capisce ora – quindi ingenua lo è stata veramente, dopotutto. Così tanto ingenua da credere che Charles l’avesse sposata per amore e non per paura.
Lei ha rinunciato a così tanto per stare con lui! Ha rinunciato alla danza, alla sua vita. Ha falsificato dei documenti, troncato i rapporti con la sua famiglia, abbandonato gli amici!
Eloïse corre nella sua stanza e si getta sul letto, disperata; e piange, piange per ore.
La sua vita è solo un inganno, un’esistenza di vuoto, l’inutilità. Si lascia sprofondare nel materasso e dorme, sfinita, distrutta, morta dentro. Dorme in un sonno di incubi e sangue. Dorme, si sveglia, dorme ancora. E piange, si riaddormenta, si sveglia di nuovo.
Poi sente dei passi. Un sospiro. Il sole è di nuovo alto e le brucia una guancia.
— Buon compleanno, mamma!
Ora apre gli occhi. Non ancora completamente lontana dall’incubo, vede suo figlio seduto ai piedi del letto. Sorride, stringendosi al petto un foglio di carta. 
— Buon compleanno — ripete lui. — Ti ho fatto un regalo!
Ora le porge il foglio, domandando, in cantilena: “Ti piace? Ti piace?”.
Eloïse lo prende tra le mani. C’è una bella signora, disegnata goffamente, con gli stessi capelli a caschetto di Eloïse, lo stesso neo al fianco della bocca e quei suoi splendidi, profondi occhi blu. Una bella signora circondata da farfalle, sproporzionatamente grandi, allegre e colorate.
— Allora, ti piace?
Eloïse guarda suo figlio. Poi il foglio. Poi suo figlio. Poi scoppia di nuovo a piangere.
 
La sua vita è comunque solo un inganno, ma non vi può più rinunciare.
 
La pantera

Esmeralda non riesce a credere a ciò che sta guardando. Quello non è Will. Quello non è il suo amato Will, è impossibile, non può essere!
Eppure sembra proprio lui, coi suoi bei capelli neri tra le cosce della nuova domestica, con le gambe sottili piegate tra le lenzuola di un'altra, con la feroce pantera nera tatuata sulle spalle, carezzata da mani ossute, mani non sue.
— Sei meravigliosa, la ragazza più bella che abbia mai visto! — le sussurra lui.
Ed Esmeralda muore. Qualcosa si spezza, il cuore perde un battito, non respira più.
Certo che quello è Will: si comporta come Will, è bello come Will, parla come Will. Ma non è il suo Will. Non lo è mai stato.
L’ha solo usata.
L’ha illusa.
 
E ora lei lo sa.
 
Esmeralda va in cucina e prende un coltello.
 
 
Il corvo
 
 
Eloïse si sveglia all’imbrunire. C’è qualcosa di strano nell’aria, lo sente. Ancora intontita dal sonno, le ci vogliono almeno altri dodici secondi per cogliere cosa.
Eloïse è stata legata alla poltrona della sua stanza con nastri di stoffa, imbavagliata da un foulard stretto dietro il capo e impossibilitata a muoversi.
— Ti sei svegliata, finalmente — una ragazza vestita di scuro esce dalla penombra e le si avvicina. Ha un passo leggero e ammaliante, due occhi tristi, caldi e profondi – una figura che affascina, pensa Eloïse. E ne ha paura.
— Non ne potevo più di aspettare, ma Caspar ha chiamato dicendo che prima di ucciderti devo recapitarti un messaggio, quindi vedi di prestare attenzione.
Solo ora Eloïse nota che la ragazza stringe tra le mani una pistola. Peggio: la pistola di suo marito. Quante volte, negli ultimi tempi, l’ha accarezzata, sognando di potersi sparare una pallottola in testa?
— Viene da tuo marito Charles. Dice: “Non potevo fare altrimenti, il divorzio sarebbe stato troppo disonorevole. Ti ho lasciato la pistola a portata di mano, ma, anche se disperata, non hai mai sparato. Ti aiuto io. Addio”. Hai sentito o devo ripetere?
Eloïse sa che dovrebbe piangere, tentare una supplica da dietro il bavaglio, ma tutto quel che prova in cuore è mera rassegnazione, con un pizzico di stizza. In virtù di quella stizza, anziché annuire, indica con un dito il foulard.
— Ah. Vuoi rispondere. Il committente ha detto che se avessi voluto rispondere, avrei dovuto dartene la possibilità. Quindi ora ti toglierò la benda, ma tu non gridare o giuro che, prima di morire, soffrirai. E sarà nera agonia.
La ragazza si porta dietro il divano e scioglie il nodo del foulard. Eloïse non prova più nemmeno l’istinto di ribellarsi e, anziché gridare, sospira.
— Grazie — dice solo. — Non so se essere contenta di morire.
— È questo il messaggio?
— No. Questo lo sto dicendo a te, non a Charles. Non so se essere contenta di morire, perché da quando ho scoperto che mio marito è preso da un’altra donna - che mi ha solo ingannata, usata, illusa - io ho sempre sognato la morte. Mia o sua. Ma soprattutto mia.
La ragazza sussulta leggermente, ingobbendo un po’ le spalle.
— E quindi?— domanda.
— Quindi non ho mai avuto il coraggio di andarmene, e mi sono sempre domandata perché. Ora forse lo so: non importa quanto Charles mi abbia fatto soffrire, io sentivo d’aver diritto alla vita. Perché un uomo dovrebbe avere il potere di distruggermi? Mi prende, mi usa, mi illude, mi trasforma e poi mi elimina? Non è giusto! In fondo, ho sempre sperato di avere la mia rivalsa.
Eloïse vede ancora una volta la ragazza sussultare, il suo sguardo si illumina di passione – una passione violenta, incattivita, sensuale. Difficile da sostenere. E infatti abbassa lo sguardo.
— E anche se tu ora mi punti contro una pistola, so che ce l’ho fatta — dice poi. — Sì, ho resistito. Lui non è riuscito ad annientarmi al punto tale da costringermi a uccidermi, ed è stato costretto a prendere l’iniziativa chiedendo a te di farlo. Quindi ecco il mio messaggio: “Ho vinto io”. Fai in modo che lo riceva.
La ragazza annuisce e le appoggia la canna della pistola alla tempia.
— Ma sai…— dice comunque, prima di premere il grilletto. — Io non credo che tu abbia vinto. Hai solo accettato passivamente la realtà, resistendo a un dolore che comunque ti ha portato alla morte.
— Ognuno ha il suo modo di vincere — risponde Eloïse, ora chiudendo gli occhi. Sente la pistola posizionarsi meglio contro il suo cranio, e d’un tratto capisce che manca ancora qualcosa, per concludere con gloria.
— Aspetta!— la ferma quindi — Prima di morire, ho solo un’altra richiesta. Dimmi, qual è il tuo nome?
Ed è ancora un gioco di sguardi, tra Eloïse e la sua bella assassina. Sollievo e dubbio. Stupore e rassegnazione. Si guardano, e in quello sguardo si incontrano, e in quella domanda si toccano, e in quella risposta, il saluto.
— Esmeralda— poi spara.
 
I corvi gracchiano un lugubre addio.
 
L’uomo narrante
 
 
Che pedanti che siete, e che stupidi, che sciocchi! Quante domande assurde che fate!
Cosa vuol dire che non avete capito niente di quello che vi ho raccontato? Dubitiate del vostro intelletto, se non siete riusciti a comprendere. E poi, perché vi preoccupate di chiedermi delucidazioni su organizzazioni criminali, spagnole e nobili di mondo? Che cosa importa a voi di sapere chi è Esmeralda? Non ditemi d’aver prestato attenzione a simili piccolezze!
Ecco, è questo il problema dell’uomo d’oggi. Guarda ai dettagli e non coglie l’insieme. Cerca l’astruso e non comprende l’ovvio. Vi siete fermati a riflettere su parole riempitive, messe lì per dar sostanza a quel che è il vero senso dell’opera – messe lì come supporto a quegli insegnamenti, tanto lampanti quanto immediati, che voi sciocchi non avete compreso:
 
Che le mosche danno fastidio.
Che il parere di un gatto può influenzare le decisioni dei potenti.  
Che lasciar libero un usignolo vuol dire farlo vincere.
Che i topi compaiono sempre nei momenti meno opportuni.
Che un’iguana affamata può far distogliere l’attenzione da faccende importanti.
Che i serpenti sono viscidi, ma anche nobili.
Che i cani colgono la verità più prontamente degli uomini.
Che i ragni non aiutano a far colpo sulle ragazze.
Che le farfalle, anche se allegre, non portano necessariamente allegria.
Che le pantere non appartengono a una sola persona ed è inutile illudersi del contrario.
Che il gracchiare dei corvi ricorda la morte.
 
Che non c’è ordine nel mondo degli uomini.

 
 
  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Nonsense / Vai alla pagina dell'autore: gattapelosa