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Autore: _sonder    31/05/2015    4 recensioni
Dal testo: Veniva il buio dentro le scarpe e la veste. Tirava per le ossa e strappava le carni. Non c’era colore che resistesse al suo abbraccio. Pure il fuoco s’era spento e di fiamma c’era solo la lingua del gelo, che si spandeva a ogni minimo respiro.
Una piccola storia ispirata al quadro La ragazza sul tappeto di Felice Casorati.
| Prima classifcata al contest Storie nei dipinti indetto da Melissa Pressywig sul forum di EFP. |
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quadro: "La ragazza sul tappeto rosso", Felice Casorati.

Macchia

Le ruote del carro procedevano sbilenche. La cassetta pendeva a sinistra verso il ciglio della strada, come un uomo delle langhe curvo da mane a sera. Al pari delle bestie da soma, i serventi odoravano di fieno e di sudore. I braccianti lasciavano il petto e la scorza dura della pelle sui terreni. Non guardavano il cielo. Era il campo con le sue ombre a dettare il giorno e i suoi passi fino all’arrivo dello scuro.

Teresòt dondolava i piedi. Stendeva le gambe ossute fuori dalla carretta e scalciava per sfidare il suolo a sfiorarle la suola delle scarpe. Rideva a ogni sassolino evitato. Il canto delle mondine, che rincasavano su licenza per tornare alle case, dominava l’aria con una nenia triste. Avevano lasciato il cuore nelle casupole coi tetti da ripassare e i muri anneriti da muffa e ragnatele. Scucivano dalla bocca il peso di una vita penitente, nauseate dal riso raccolto. Non finiva ai loro pranzi della domenica, eppure lasciava traccia su gambe e volti e diventava una catena attorno alle caviglie e ai colli.
— Sciur padrun da li béli braghi bianchi…

Il sentiero formava un laccio polveroso su per la salita sino alla collina. La valle aveva il crine d’erba pettinato in trecce di vigne e code di fiumiciattoli. Dalla terra battuta si alzava un velo che opprimeva il cuore e imponeva agli occhi di lacrimare.

La cascina di pietra apriva le palpebre sulla vallata. Le imposte si piegavano sulle mura per guardare meglio il lavoro dei contadini. Badava che tutti valessero i marenghi sborsati dal padrone e non alzassero la fronte dalle zolle.
Teresòt era giunta nel cuore delle langhe per decisione del capoccia.
Erano tornati alla campagna dalla stagione precedente, abbracciati dai crinali e dalle loro sonnolente messe, per mantenere la visione della masca e trovare i frutti della profezia. Aveva promesso un neonato sano e maschio, come suo padre. Non voleva perdere la dolce illusione di un figlio. Il padrone aveva il vizio del bere e del gioco. Puntava alto e si distraeva con le donne. Ne voleva una diversa per ogni notte da balordo. E più la preda era difficile, più s’incaponiva di pigliarla per le gonne.
Però gli mancava un erede.
E il paese mormorava a bassa voce con la giustezza di uno schioppo di fucile. Mormorava che fosse stato ammascato per aver toccato le vergini senza marito o quelle già prese in sposa da altri. Giacché sua moglie aveva perso tre figli maschi, c’era di che temere. Doveva essere un castigo della Provvidenza e dritti a farsi il segno della croce. La signora non aveva fianchi forti come quelli delle donne delle Langhe. Era una forestiera tutta bianca che sembrava una faia, con la pelle di porcellana e gli occhi tristi, rapiti da una stregoneria. Alla signora mancava la sua terra, ma nessuno sapeva dire di dove fosse. Perché per tutti i braccianti il mondo era chiuso nelle proprie colline e il miraggio di altri luoghi era una favola nella bara.
Non si leggeva cos’altro la padrona portasse nel cuore.

Una masca aveva ammonito il padrone: doveva essere al fianco della moglie al momento del parto o il bambino sarebbe nato storto. Lo sciur ebbe paura e s’attenne all’avvertimento più che ai vizi.
Per chetare la sposa dispose che i mezzadri trovassero serventi e braccia per sistemare la casa e renderla una reggia.

Si fermarono prima di giungere alla cascina. La signora madre soffriva le nausee mattutine e il viaggio metteva a dura prova il suo contegno.
— Un momento solo, — sbraitò il padrone perché l’autista fermasse il trabiccolo.
Sciur Fonso aveva gli occhi stretti e cupi. Troppo stretti perché vi passasse la pietà. Le rughe li striavano d’impronte severe. Scrutò la figlia. Dall’inizio del percorso si era impuntato a studiare i modi di Teresòt. Come poggiava le dita su Macchia, come chiedeva all’uomo alla guida quanto mancasse per arrivare e come sbirciava dietro, dove erano sistemati i bagagli. Non approvava quella condotta. La curiosità andava respinta. Non doveva traboccare e straripare dagli argini.
Teresòt fissò sua madre, sofferente, e si disse che lei era una bambina migliore del fratello nella sua pancia, perché non l’aveva mai ridotta in quello stato. Scese anche lei, d’impulso, e corse dietro l’abito bianco di Balbra, senza il consenso del padre. Lo sguardo esitò e andò dritto al bagagliaio e al padrone non sfuggì. Teresòt osservava la madre rigettare l’anima sulle sterpaglie e poi tornava, impaziente, al retro dell’automobile, come se temesse di perdere qualcosa.
Sciur Fonso scese carico d’ira. Perché i sospetti negli uomini divenivano subito ammissioni di colpa. Non tollerava di essere ignorato da una bambina, né che gli si nascondesse anche il minimo segreto. Aprì il cofano e la figlia corse a un passo dalla macchina, con le mani sul grembo e il volto rassegnato.
— Ha trafugato i viveri che dovevamo portare? — tuonò, — Ebbene? Risponda!
— Signor padre, non volevate che portassi le mie cose…
— E ha ben creduto di far come voleva! Disgraziata!
Il manrovescio seguì lo schianto dei cocci. Vetri e pezzi di bambola capitolarono al suolo. Toccarono la terra e, rifiutati, balzarono qualche metro più in là. Nella sacca dov’era riposto il pane per il viaggio, c’erano ninnoli e anticaglie di poco valore.
Teresòt riuscì a raccogliere soltanto i libri illustrati insozzati di terra ed erba stracciata. Tossicchiò prima di tornare a bordo. Sua madre non la degnò di un’occhiata, esasperata dal viaggio e dai brontolii del compagno. Sedette con grazia e impettita, come se nulla fosse accaduto e la gota bruciasse per il sole.

Teresòt sbirciava le casupole dai muri gravidi di umidità e le donne affacciate a raccogliere il bucato prima del tramonto. Non c’era buona sorte a lasciar appesi gli indumenti, quando gli spiriti uscivano fuori e potevano tirare scherzi sui bambini.
Le macchie di noccioli la salutarono freddamente. Tante cose le erano sconosciute: aveva messo piede nelle langhe poche volte da quando era nata.
Di fronte a lei si schiudevano terre senza compassione, generose soltanto se l’uomo le batteva fino a spezzarsi la schiena e a sputare sangue sulla vanga.
Macchia giaceva steso sul ventre, col muso sulle cosce della bambina. Della saliva le macchiava il vestito, mentre con la mano teneva la guancia dolorante. Bruciava più della curiosità. Guardava un lato della strada dal finestrino aperto. Era una lenta processione che la conduceva verso la cascina. Arrancavano per evitare le buche e dai campi si sollevavano i busti dei coltivatori. Si fermavano a capo chino in cenno di rispetto, ma curiosavano coi visi sciupati e seccati dalla terra.
Il sole tagliava i campi ed era assorto all’arrivo della prima sera.


Teresòt si abbandonò sul tappeto delle stanze superiori; l’aria imbronciata la segnava e le impediva di accomodarsi come si conveniva da una signorina. Aveva la testa insaccata nel collo e scorreva con lo sguardo le dita sulle pieghe di Macchia, il bassotto. Premeva e grattava il dorso del cane. I suoi tesori erano sparsi tutti intorno a lei e sui fiori finti. Nessuno di essi le arrecava gioia. Di tutti i ninnoli di cui si era circondata per apparire una matura giovinetta, non vedeva che la scia della sua infanzia, dei giochi e di quelle lune che sono i genitori a raddrizzare.
Il padrone le aveva promesso che presto sarebbe arrivato il pittore per catturarla. Teresòt non aveva ben capito come un uomo che giocava coi colori riuscisse a confinare le persone su una tela; tuttavia, non volle contraddire il signor padre.
Era un omino da niente, pensò, quando lo vide varcare la stanza. La voce di sua madre le imponeva di salutare e presentarsi con un inchino, ma non accompagnò lo sconosciuto e si ritirò dalla sua vista. Aveva una barba brutta e rada e i denti neri, come il figlio di una strega. Nemmeno questo le diede conforto o spunto per trascorrere con interesse il pomeriggio.
Sparpagliò i libri, le mele e l’uva. Erano finti come la sua voglia di posare per un signore sporco di olio e cera. Non le piaceva affatto quel regalo; si era lasciata comprare dalle promesse degli adulti, ma si annoiava da sola in compagnia di uno sconosciuto.
Cullò fra le braccia la bambola di celluloide e provò a tenersi il ventre come sua madre in attesa del fratellino. Presto abbandonò l’idea, perché il ventre era piatto e il vestitino nero lo sfinava ancora di più. Macchia aprì un occhio e mugolò per richiamare l’attenzione. Teresòt poggiò lontano da sé il ventaglio e i carillon. Lanciò i fiori freschi, presi dal vaso della madre. Dal piatto fece sparire ogni traccia da biscotto, senza degnarsi di offrirne all’artista.


La vecchia Mòna era intenta a lavorare il pane e le robiole con le due servette sue lontane parenti. C’era tanto da faticare e pochi soldi per mandare avanti la famiglia. Alzò le mani dalla tavolata e si mise a strattonare il nipote. Due ganci lo tiravano: dita nodose e curve, con poca carne a riempirle. Lo avrebbe preso a schiaffi, ma il lavoro chiamava sempre e a voce grossa.
Era un ragazzo scuro, dai ricci corti che gli ingrandivano la testa. La fronte, così scoperta, dava l’impressione di essere troppo alta. Si chiamava Pinin ed era un briccone. Figlio di grandi lavoratori, perdeva il giorno a cacciar rospi e grilli.
Quando Teresòt veniva giù nella langa era sempre in cucina a dar fastidio alle donne, perché lei lo sentisse e gli comandasse di giocare. Soltanto allora si faceva agnello e la seguiva dappertutto, senza darle a vedere quanto tenesse ai suoi vezzi capricciosi.
Pinin aveva il viso di terra. Fiorivano lentiggini sul suo naso, che col sole diventavano più cupe.
— Teresòt! — chiamò, vedendola in un angolo. Il ceffone della nonna Mòna lo colse su una natica e si parò la bocca per non urlare di fronte a una ragazza. Non poteva venir meno il suo coraggio da uomo.
— La nonna ha detto che t’è venuto un pittore in casa!
— Sì, è vero, — fece lei, alzando le spalle. Aveva ancora addosso la serpe del tedio. Si lisciò la treccia attorno al capo, come per farne sfoggio, ma Pinin non se ne curò e ciò la deluse un po’. Batté i tacchi delle scarpe nuove e massaggiò le calze perché la guardasse, ma anche allora Pinin stette muto.
— E com’è questo pittore?
— Nulla di che, — rispose.
— Guardiamo come t’ha conciata. Ormai è tanto che viene a trovarti, — la provocò lui, con un sorriso da un orecchio all’altro.

Pinin incrociò le braccia, mentre valutava con serietà la tela finita.
— Mi sa che la padrona lo ha trattenuto, — bisbigliò.
Teresòt annuì, punta nel vivo. Persino un estraneo poteva parlare di più con sua madre. — Forse è per il compenso, — mentì timidamente.
- —Quella è una faccenda da uomini! — Fortunatamente il dipinto cominciò a distrarlo. — Guarda che gambe lunghe… siamo sicuri che sei così alta? E poi sei bianchissima. Io gli avrei detto di disegnarmi su una bestia, — ammise, infine.
— Ma tu non sai andare a cavallo né su un mulo, — obiettò Teresòt.
— Ehi, chi ti dice che non possa farlo?
— Non prenderti confidenza!
Teresòt esalò un respiro e spinse le braccia sui rami del faggio.
— La signora madre non mi parla più, — confessò.
— Almeno tu la vedi, — Pinin passò le dita sotto le narici perché il naso colava. Non visto, le asciugò all’interno della tasca dei calzoni. Succhiava lo stelo di un filo d’erba.
— Ma è come se non ci fosse… Non cambia nulla, — ribatté lei, — perciò siamo pari, io e te.
"Non è mica una gara", pensò Pinin; però non ebbe voglia di discutere. Strinse il pugno nella tasca e sfiorò il portagioie sul fondo. Avrebbe dovuto darglielo, ma in quel caso non ci sarebbero state altre scuse per tornare a trovarla. Pinin era una bestiola diffidente. Una volta tradito si rivoltava contro la mano tesa per carezzarlo e ringhiava un po’ da cane. Il suo latrato era un pianto lungo che sapeva d’abbandono.
Guardò Teresòt di sottecchi e le iridi affilate si domandarono se potesse fidarsi di lei. Perché la sua parola valeva poco. Anche a esser figli di padroni si era servi.
— Tu pensi che io sia nato dietro l’orecchio di una capra, come tutti? — le domandò d’un tratto. L’espressione sul volto si era fatta tetra. E Pinin era raggio fra le foglie, non l’ombra a raccoglierle.
— Certo che sì! Oppure sotto i noccioli… come tutti. Come mio fratello, anche se lui è ancora nella pancia della signora madre… e chissà quando ne uscirà.
— E se fosse come dicono gli altri? Se fossi… un bastardo?
— Cosa importa di quello che dicono gli altri?
Pinin tornò con gli occhi al sole e poi abbassò lo sguardo. Non disse altro.



Macchia non c’era. Dalla mattina le servette e gli uomini lo avevano chiamato invano per zittire i pianti della bambina e l’emicrania della padrona. Dicevano che fosse fuggito a cacciare tassi o a snidare la tana di una volpe.

— Posso trovartelo io…
Teresòt alzò gli occhi verso la voce di Pinin. Vedeva l’orgoglio di uomo scavato nel suo viso smunto, che aveva già incontrato la fame. Si rallegrò della sua visita e lo abbracciò stretto. Lui, però, inselvatichito com’era, la scacciò subito e strusciò la pelle rossa d’imbarazzo.
Teresòt gli prese una mano e lo trascinò sulla scala di pietra. Gli occhi di Pinin le ricordavano quelli bigi di suo padre; ma nei suoi c’era qualcosa di selvaggio. Non erano occhi da piegarsi alla cinghia, nonostante Tista gliela desse in assaggio a ciascun ritardo. In essi c’erano le punte degli aghi di pino e il dondolare delle fronde.
Lo menava con sé perché era il suo compagno di giochi preferito. Sua madre non approvava. Ed era un altro dei motivi per cui era più contenta di averlo accanto.
— Fammi venire con te. Aspettami!
— Se piangi, ti mollo nel bosco…
— Non piango, non piango. Io sono una padrona.
— E poco fa cosa ti impegnava tanto?
— Era il vento. Mi ha cacciato un moscerino nell’occhio.
La risata di Pinin scosse le fronde dei primi alberi. Teresòt non seppe spiegarsi perché mai trovasse la situazione divertente. Le bastò allungare la gamba per raggiungere il suo passo. Pinin le arrivava alle spalle.
— Perché vuoi trovare Macchia?
— Così non frignerai più!
— Guarda che ti ho detto di no!
Pinin non rispose. Invece, alzò gli occhi al cielo e fissò le nuvole.
— Io ci vedo la coda del Macchia…
Teresot mise le mani sui fianchi e arricciò il naso. Le narici si allargarono indignate.
—Che dici? Macchia ha una coda più bella e snella. E poi ha il pelo lucido.
— Per essere una che frigna ti ripigli in fretta! — borbottò lui.
Gli arrivò un buffetto sulla guancia.
— Ai padroni si obbedisce! Sta’ cheto! —
Lo vide calcare la falda del basco e stringersi nelle spalle. A Pinin non piaceva prendere ordini; neanche da suo padre. Tista aveva le mani forti e tanti anni di lavoro sulle spalle che pareva non aver mai visto un tetto sulla testa, all’infuori del cielo.
Eppure, Pinin diventava mansueto con lei.


I boschi non stavano mai zitti. Per quanto ordinasse il silenzio, le rispondevano le chiome degli alberi e lo scricchiolare della neve a ogni passo. I rami si spezzavano o buttavano a terra i cumuli di bianco, con la stanchezza e i malanni degli anziani, fiaccati dall’età. Teresòt trasaliva e dava una stretta più forte alla mano gelata di Pinin.
— Hai paura? — le chiedeva lui, senza neanche voltarsi. Andava dritto, col passo che barcollava e si assestava nella terra bianca, fino al ginocchio. Il freddo gli formicolava addosso, ma non se ne lamentava e teneva cucita la bocca.
Per non dargliela vinta, Teresòt negava a viva voce e sentiva il sangue tornare a scorrere nelle guance.
— Non mangiarla, devi solo succhiare per bene, — le suggerì Pinin. Conosceva i segreti dell’inverno e i sentieri della collina.

La neve non sapeva di nulla. Le spaccò le labbra per entrare nella bocca e rubarle calore. Teresòt si zittì di colpo e tremò sotto lo scialle.
— Possiamo fare un fuoco più in là, — soggiunse. Pinin sembrava più adulto di lei e questo la fece sentire sola. Gli adulti la lasciavano in disparte. Il signor padre lavorava tanto e rincasava poco. La signora madre aveva un bambino dentro di lei e poca pazienza da dedicarle. Un giorno anche Pinin sarebbe cresciuto e le distanze fra loro sarebbero aumentate. Gli tenne la mano come a scacciare quel pensiero, ma esso non se ne andò.
Era già notte e di Macchia nessuna traccia. Persino lui l’aveva tradita.



***



Tista pregava in un cantuccio vicino al suo paglione, con gli angoli della bocca screpolati dal freddo e la saliva nivea sulla pelle. Alle suppliche alla Madonna seguivano bestemmie e pugni sulla nuda pietra.
La roccia però era una donna cruda. Gli apriva i geloni sulle nocche e beveva le tracce di sangue. Poi lo fissava severa. Tista dondolava in ginocchio e sembrava un truciolo inghiottito dalle fiamme, che non sapeva dove rivolgere la schiena.
Perché erano andati lì? E sentiva le urla del padrone, che a stare coi bastardi si poteva soltanto finir male e Tista si malediceva, pensando che non era altro che un cornuto. E aveva dovuto mandare la sua donna lontano, quando il padrun Fonso era tornato. E aveva dovuto crescere il figlio bastardo di sua moglie per quattro miseri scudi in più all’anno. E alla fine s’era ritrovato ad amarlo, nonostante lui e sua moglie conoscessero l’amarezza di quel segreto e le insolenze dei compaesani.
Si dannava a cercare di capire come mai si fossero inoltrati su per la macchia.
Perché col bosco non c’era mica da scherzare. Tutti giù nella valle lo sapevano e compativano già le madri dei bambini. Nel bosco s’agitavano i lupi e le megere, che col freddo tessevano le anime da donare alla gola delle colline.



***



Allungò la mano e incontrò Pinin. Convinta che fosse Macchia lo chiamò, ma la voce strusciò e si inerpicò sulle labbra con un rantolo; si arrese, infine, e boccheggiò senza emettere verbo. Batté i denti e immaginò il caldo tappeto rosso. Il tappeto rosso e i suoi fiori sparsi, imprigionati nella trama del tessuto; Macchia raggomitolato su se stesso, mentre il sonno lo accompagnava a un riposo beato e qualche verso di piacere, mentre le unghie di Teresòt lo coccolavano.
Carezzava Pinin che di morbido non aveva neanche più i capelli, seccati dalla notte alla ghiaccia.
Era Pinin: muto e docile, come mai era stato. Le venne da piangere. Il cuore le batté più forte. La mente era debole, già pronta a raccogliere l’acqua sotto il manto della terra.
E pensava ai balocchi, al tappeto morbido e alle scarpe. Non avrebbe più detto no a una tazza di latte caldo né espresso capricci; purché sua madre l’avesse abbracciata e le avesse permesso di giocare con Pinin. Veniva il buio dentro le scarpe e la veste. Tirava per le ossa e strappava le carni. Non c’era colore che resistesse al suo abbraccio. Pure il fuoco s’era spento e di fiamma c’era solo la lingua del gelo, che si spandeva a ogni minimo respiro.
Quando li trovarono dalla neve spuntava una macchia rossa dai fiori imbevuti d’acqua. Recisi e vividi, come appena bagnati di brina, i vestiti di Pinin coloravano il candore del suolo. La mano di Teresòt stringeva quella di Pinin. Era diventata viola, ma tremava ancora.
Gli uomini abbassarono i baschi, come se potessero calare la sera e con essa portare le fredde stelle e una notte più serena.



***



Buio. Dalla sala il tocco di legna crepitava e sua madre mugugnava una ninnananna. La cantilena stonava e si frantumava nelle lacrime.
Teresòt provò invidia. Lei fra quelle braccia non poteva più stare.
— Sei grande, — le dicevano le vecchie della cucina nelle loro sentenze granitiche. — Alta come sei che altro vuoi prendere dalla tua povera mamma?
Ed erano le stesse voci che ricordava, quando coi piedi gelati si girava nel letto e le calze di lana non riuscivano a scaldarla. Erano le stesse voci, fatte di antico e di rughe; per quanto le riempissero le orecchie, l’invidia correva alla culla e al vagito del bebè, ai canti per placarlo e alle mani che lo tenevano al sicuro.

— Madre, perché piangete?

Teresòt carezzò piano i capelli morbidi e castani della madre. La mano scivolò sulla spalla e la coccolò.
— La mia bambina… — singhiozzò e sollevò gli occhi a guardarla. Dal dipinto Teresòt manteneva un’espressione mesta, intenta a donare grattini a Macchia. Non c’era più verso di vederla sorridere.
Il bassotto, ai piedi di Balbra, aveva il muso alzato. Puntava verso lo sbuffo bianco dello spettro. Balbra rabbrividì per il freddo e strinse al petto il neonato.
Teresòt chiuse gli occhi. E vide di nuovo il tappeto rosso, i fiori sparsi e Pinin dalla finestra. Non avvertiva né gelo né tepore.
Ricordò la tormenta di neve che li aveva colti e Pinin che le donava le ultime croste e i torsi di cavolo, pur di darle da mangiare. Ricordò la febbre e il delirio a strapparle parole.
Ricordò e fissò i nidi di crucci di sua madre.




L'angolo di Son: La oneshot è contestualizzata nelle langhe piemontesi, in seno alla vita contadina. Accenna a gran parte delle tradizioni e del folklore dell’epoca del primo Novecento: le mondine, le masche (streghe e megere capaci di maledire o di guarire e aiutare il popolo), le faie (le fate), le langhe a far da sfondo alle vicende, detti e superstizioni dei braccianti. Lo spaccato di vita contadina è quello in cui si colloca parte della vita di Teresòt (Teresa) e dei suoi famigliari. La madre della bambina ha subito vari aborti spontanei che il popolino ritiene castigo divino per la condotta paterna. Alcune espressioni quali “ammascato”, “menarlo con sé” e altri termini più colloquiali sparsi nel testo intendono ripercorrere la vita dell’epoca e i suoi travagli.
  
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