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Autore: Sonomi    31/05/2015    6 recensioni
Il suo profilo era vagamente illuminato dalla luce soffusa della lampada, la fotocamera prendeva tutto il suo corpo con una maestria tale da renderlo quasi angelico. Eppure, Alec lo sapeva bene, in lui di angelico non c'era proprio niente.
Solo un'aura distruttiva, come il suo cognome sembrava voler annunciare.
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AU!Malec. In cui un timido ragazzo si ritrova a essere il fotografo di un eccentrico modello.
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Magnus Bane, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Sonomi's home:
Hola. Ebbene si, sono tornata. Non riesco a stare distante da questo fandom, avevo bisogno di tornare a scrivere qualcosa e mi sono detta "diamoci da fare!". Ho deciso di buttarmi in un'altra minilong, sarà lunga come Al di là della Magia più o meno, e... insomma, non so da dove mi sia uscita questa trama. Le cose più improbabili le trovo io ahaha! Che dire, spero che anche questa storia, così come la prima che ho fatto qui, vi piaccia. 
Lasciate un commentino se vi vaaa ^-^ mi renderebbe felice :3



 
PARTE PRIMA


 
-Jace, ti voglio più convincente. Non siamo a una festa di compleanno, questo è un servizio per Vogue
Le parole di Alexander Gideon Lightwood suonarono serie, seppur mantenendo una certa sfumatura di divertimento. Guardava con gli occhi straordinariamente blu il migliore amico, nonché fratellastro, dallo schermo della macchina fotografica, cercando di mettere a fuoco quali fossero le espressioni facciali che non lo convincevano in Jace. Forse era troppo esigente, forse no, ma se doveva fare un lavoro pretendeva che uscisse fuori nel miglior modo possibile. Non sopportava le cose fatte per metà.
-Come potrei essere più convincente di così? Io sono sempre convincente-
-Indossi un gilet senza maglietta, ci vuole uno sguardo accattivante, non da ragazzino per bene!-
-Espressione da pornodivo? Bastava chiedere-
Alec scosse la testa e vide Jace sorridere sotto i capelli biondicci, spettinati per l‘occasione. Cercare di lavorare seriamente con lui era come sperare nella buona sorte al gioco della bottiglia. Jace era un eterno bambino sotto certi punti di vista, ma Alec lo adorava anche per quello. E poi era uno dei suoi modelli di punta.
-Il sorriso che hai appena fatto andava bene, fratellino. Facciamone ancora due poi puoi staccare- lo ignorò alla fine Alec, riaccostandosi alla macchina fotografica e aspettando che il biondo si rimettesse in posa. Lo osservò infilare le mani nelle tasche dei pantaloni neri, guardò le curve delle braccia, come i muscoli si tendevano, per poi controllare lo sguardo del fratello. Scattò tre foto, regolando in maniera diversa l’obiettivo, per poi allontanasi di nuovo dalla fotocamera e fare segno a Jace si andarsi a cambiare. 
Quando avesse deciso di diventare un fotografo Alexander non sapeva dirlo. Un giorno si era ritrovato a un corso di fotografia per pura noia (aveva appena terminato l’università di Lettere Moderne, e in quel campo il lavoro scarseggiava), e quel mondo lo aveva affascinato a tal punto da iniziare a seguire corsi su corsi, prendendo certificazioni in diversi campi. A soli venticinque anni era diventato uno dei fotografi più ricercati di New York, soprattutto da grandi testate di moda come Vogue o Cosmopolitan. Effettivamente, nessuno da lui si aspettava un simile successo, in primis lui stesso: non aveva un carattere esuberante, tipico degli eccentrici fotografi di moda, non amava gli eventi mondani (cercava di evitarne il più possibile), odiava le interviste e preferiva tornarsene a casa a leggere un libro la sera, dopo un lungo servizio, piuttosto che andare a festeggiare con i modelli. Era tutto fuorché il classico fotografo di successo newyorkese. 
Con quei pensieri per la testa Alec si sedette sulla sua personalissima sedia, passandosi una mano fra i capelli corvini, guardando Isabelle correre nella sua direzione con un sorriso a trentadue denti.
-Sono arrivate le foto di Jace sul pc, i direttori di Vogue impazziranno!-
Alec sorrise. -Come sempre. Mi chiedono continuamente di lui ogni volta che hanno bisogno di un modello biondo-
Isabelle era sua sorella, poco più piccola di lui, e da quando aveva iniziato a lavorare nel settore aveva preteso di essere la truccatrice del suo staff. Ma era bravissima dopotutto, per cui Alec non aveva motivo di lamentarsi. 
-A proposito, mezz’ora fa mi ha chiamata la redazione di Vanity Fair. Vorrebbero sapere se prossima settimana saresti disposto a fare un servizio per loro. Modello: Jace- 
Come ormai aveva d’abitudine, Alec fece mente locale di tutti gli impegni che lo attendevano, figurandosi davanti agli occhi la sua agenda. Lunedì aveva due interviste, quella correlata al servizio di Vogue appena terminato e una per una rivista online di cui non ricordava nemmeno il nome; il martedì doveva recarsi a Los Angeles per fare un servizio con un altro fotografo (di cui anche in quel caso non ricordava il nome) e quel lavoro gli avrebbe occupato anche il mercoledì; giovedì..
-Digli che sono disponibile giovedì e venerdì- concluse alla fine il moro scattando in piedi, mentre Isabelle passava da un’espressione felice a una palesemente seccata.
-Alec, abbiamo la cena con mamma e papà giovedì sera..-
-Lo so-. Alec non battè ciglio. -Per questo ti chiedo di chiamare Vanity e confermare per quel giorno-
-Non puoi continuare così, lo sai?-
Se c’era una cosa che Alexander odiava era sentirsi fare la predica da sua sorella, e lei lo sapeva benissimo. Nonostante tutto, quello non riusciva a trattenerla dal lasciare commenti a volte poco piacevoli sul comportamento che lui aveva nei riguardi dei propri genitori, senza successo poi. Alec era entrato in rotta di collisione con la propria famiglia circa due anni prima, quando aveva deciso di intraprendere la carriera di fotografo. Inutile dire che a suo padre la cosa non fosse andata giù: aveva accusato Alec di voler svolgere un lavoro poco consono alla “dignità della famiglia”, un lavoro che lo avrebbe portato su una brutta strada, un lavoro da gay. Ed era proprio questo il punto. Alec era gay. E non aveva intenzione di avvicinarsi più a suo padre dopo tutte quelle parole piene di astio che si era sentito rivolgere. 
-Non importa Izzy. Chiama Vanity, fissa quell’appuntamento-
-E Jace? Non pensi che dovresti chiedere a lui, prima?-. Isabelle sembrava spazientita.
-Chiedermi cosa?- 
Jace spuntò alle spalle di Alec come un fantasma, vestito di tutto punto. Senza gel i suoi capelli erano ancora più disordinati.
-Vanity ci ha richiesti. Ho detto a Iz di mettere disponibilità per giovedì e venerdì-
-Come scusa per saltare la cena?-. Jace fece un sorrisetto sbilenco.
-Ti va bene?-
-Ok- affermò il biondo, e Isabelle sospirò. -Non che io abbia molta voglia di vedere Maryse e Robert- 
-Finiranno per diseredarvi!- sbraitò la ragazza e Jace sorrise di nuovo, con quella dannata faccia da schiaffi che si ritrovava. 


Una settimana dopo, giovedì mattina. 

-Jace, dimmi che stai scherzando-
Alec non aveva mai sentito la propria voce così arrabbiata in venticinque anni della sua vita. Camminava avanti e indietro nello studio fotografico di Vanity Fair, dove tutto il suo staff e quello del giornale si stavano mettendo in moto in attesa che Jace arrivasse. 
Peccato che Jace, a quanto pareva, non sarebbe arrivato.
-38,5 di febbre, non riesco nemmeno ad alzarmi dal letto..-
Il biondo tossì dall’altra parte del telefono ed Alec fece una smorfia.
-Ti avrò ripetuto mille volte di stare attento a non prendere freddo prima di un servizio, razza di sconsiderato! Cosa dovrei fare adesso?!- sibilò il moro sedendosi sulla propria sedia. -Dovrei dire a Vanity che non si fa più nulla?-
-Oh andiamo Alec, vuoi dirmi che Vanity non ha dei modelli di punta da offrirti?- altro colpo di tosse. -Mi dispiace, dico davvero. Ora va a domandare e chiedi scusa da parte mia-
Alec non rispose nemmeno a quel commento del fratello, e chiuse la chiamata senza salutare. Guardò con espressione tesa i tecnici montare le luci e disporre le varie fotocamere, sistemare la connessione ai computer, e un moto di puro sconforto lo colse. Per la prima volta nella sua carriera, seppur breve, avrebbe dovuto chiedere l’ausilio di modelli che non fossero i suoi. 
Con un sospiro di sconforto si diresse a passo svelto oltre la porta dello studio gettandosi nei corridoi della redazione alla ricerca disperata del direttore, fino a quando l’ufficio di quest’ultimo non apparve sotto i suoi occhi. Bussò due volte, e attese. 
-Prego!-
Alec aprì la porta silenziosamente, e lo sguardo simpatico dell’uomo dietro la scrivania lo tranquillizzò di colpo. Sembrava disponibile per lo meno, o forse quell’aria era data dalle guance paffutelle, ma aveva una speranza di non farsi fare una scenata. 
-Oh, signor Lightwood, che piacere. Spero che non ci siano problemi di sotto con i miei ragazzi, è tutto ok?-
-No, signore. Non c’è niente di “ok”-. Alec si stupì del suo esordio. -Non è per colpa dei suoi ragazzi, ma del mio modello- spiegò. 
-Cosa è successo?-
-Febbre alta, non può venire al servizio-
Il direttore spalancò le palpebre tanto che Alec temette di veder cascare sulla scrivania i bulbi oculari, e si portò le mani sotto il mento con espressione contrita. Il moro lo fissava in silenzio.
-Questo è un bel problema- annunciò.
-L’unica soluzione è affidarmi uno dei vostri modelli, se fosse possibile-
L’uomo paffuto sospirò, sistemando la targhetta con scritto “Mr. Thompson” sopra (ah, si chiamava così), e prese fra le dita una piccola agenda dall’aria vissuta. 
-Sa signor Lightwood, c’è un motivo per cui abbiamo richiesto la presenza del suo Herondale per questo servizio- iniziò il direttore continuando a cercare fra le pagine. -E tale motivazione è la seguente: il modello di punta della mia rivista, in teoria, è in ferie-
-Come?-
-Già. In ferie, vacanza, per almeno due settimane. Dovrebbe partire oggi stesso per le Hawaii-
Alec si abbandonò sulla sedia di fronte alla scrivania e si infilò una mano fra i capelli. L’uomo al contempo lo guardava con una faccia tale da sembrare sia spaventato sia arrabbiato.
-E altri modelli non ne avete?-
-Questo servizio è troppo importante per un modello qualunque, signor Lightwood. Per questo avevo chiesto di Jace, era un valido sostituto del mio- spiegò Thompson. 
L’aria della stanza sembrò farsi quasi irrespirabile. Solo in quel momento Alec si rese conto di come fosse fatto quell’ufficio e, diamine, era la cosa più strana che avesse mai visto: la scrivania del direttore era a forma di V, alle spalle dell’uomo c’erano una trentina di quadri con altrettante copertine di Vanity Fair, probabilmente le più vecchie; piante finte erano ovunque, quasi opprimenti, così come un quantitativo indescrivibile di puff e divanetti e altrettanti tavolini. Sembrava quasi la casetta delle bambole di qualche bambina viziata. 
-E cosa suggerisce di fare allora, signor Thompson?- chiese il moro alla fine, mentre l’uomo davanti a lui afferrava il telefono.
-Semplice- proruppe. -Qualcuno deve rimandare il volo per le Hawaii-

Quando il cellulare squillò da dentro la borsa da viaggio di Prada che stava per chiudere, Magnus Bane fece una smorfia. Le dita laccate di nero presero a frugare con maestra nelle varie taschine interne, fino a quando non afferrò il suo iPhone e un brivido di orrore corse lungo la sua spina dorsale. Il nome “Thompson” accompagnato da una faccetta poco carina troneggiava sullo schermo con aria macabra, e Magnus sapeva benissimo che quella chiamata sarebbe stata l’inizio di qualcosa di spiacevole. 
E probabilmente anche la fine delle sue ferie. 
-Se pensa di dirmi che devo tornare a lavoro per qualche motivo la risposta è “NO”. Neanche se le fosse morto il gatto e lei avesse deciso di fare un funerale in suo onore-
-Ehm.. Mi dispiace disturbarla signor Bane-
Magnus alzò un sopracciglio non appena si rese conto che quella non era affatto la voce di Thompson. Era molto più giovane, molto più leggera e soprattutto molto meno sfacciata.
-Oh oh, tu non sei il mio direttore. Nuovo segretario per caso? No, non è possibile, non avresti chiamato con il telefono di quella scimmia- affermò Magnus secco, mentre dall’altra parte si sentiva chiaramente il suono di una risata soffocata.
-Mi dispiace disturbarla signor Bane, ma abbiamo bisogno di lei per un servizio urgente-
Il modello fece una smorfia, e si abbandonò di peso sul proprio letto a baldacchino. Sfiorò con le dita sottili il tendaggio di pizzo chiaro e sospirò.
-Quale parte della parola “ferie” non rientra nel vocabolario di Vanity?- sbottò.
-Non se la prenda con il suo direttore signor Bane, temo sia colpa mia questa volta. Anzi, del mio modello-. Il modo in cui il giovane puntualizzò quel dettaglio fece sorridere Magnus. Aveva l’impressione che anche lui fosse parecchio irritato. -Si è preso un brutto malanno e non può venire. Il suo direttore mi ha esplicitamente detto che non avrebbe voluto nessun altro che lei, a questo punto-
Magnus non perse il suo sorrisetto, e rotolò su un fianco per appoggiarsi sul gomito.
-E scommetto che ha chiesto a te di chiamare perché aveva paura di parlarmi, non è così?- rise. 
-…diciamo di si-
La risata del modello si fece pronunciata, e il ragazzo scosse il capo.
-Questa è la vostra giornata fortunata. Mi hai messo di buon umore, perciò farò questo favore al mio capo- annunciò alla fine e la persona dall’altro capo del telefono sospirò sollevata.
-Non sa come le sono riconoscente, signor Bane-
-Sarai tu a occuparti del servizio deduco-
A Magnus non piacevano le formalità. Si era accorto di come il ragazzo con cui stava parlando si rivolgesse a lui in maniera così sagomata, ma lui proprio non ci riusciva. Sperò che quella confidenza non desse fastidio all’altro.
-Esattamente. Le porgo le scuse anche da parte del mio modello a questo punto-
-E dimmi, posso sapere il tuo nome?-
-Alexander Lightwood, signor Bane-
E a quel punto Magnus si congelò sul posto. 


 
 
  
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