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Autore: Piperilla    02/06/2015    1 recensioni
Antonia e Federica non hanno nulla fuori dall'ordinario - tranne forse il nome della prima - e vivono come qualsiasi altro ventiduenne: per la maggior parte dell'anno casa, università, uscite con gli amici e qualche lavoretto part time di tanto in tanto. Anche le vacanze sono sempre le stesse: nascoste in un paesino pressoché sconosciuto dell'Abruzzo con altri amici d'infanzia ad ammazzare il tempo con i falò notturni, i tornei di carte e qualche volta troppo alcool. Come si è detto: nulla fuori dall'ordinario.
Almeno fino a quando non si scontreranno con le inaspettate conseguenze di una scelta a prima vista solo un po' azzardata.
[Il rating potrebbe salire]
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo, Violenza
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Quell’anno il clima si stava dimostrando clemente, con gli abitanti di Rocca Arsa. A dispetto del nome, infatti, era capitato spesso che in quel paesino della Marsica le temperature non salissero mai granché, neanche d’estate. Niente di strano, a ben vedere, visto che quel minuscolo agglomerato di case era inerpicato sugli Appennini abruzzesi a milletrecentoventisette metri d’altitudine e ombreggiato, da un lato, da un picco ancora più alto.
   Gli abitanti – perlopiù discendenti di chi vi aveva risieduto stabilmente e che tornavano lì nei fine settimana e durante le vacanze – erano quindi stati presi alla sprovvista dai quasi trenta gradi che ogni giorno riscaldavano quell’aria secca e pura, rendendo il paese una piacevole oasi confronto alla canicola estiva tipica delle grandi città che si erano lasciati alle spalle.
   Federica e Antonia, nonostante avessero compiuto ventidue anni, avevano conservato il gusto tutto infantile per le arrampicate sulle rocce appuntite che spuntavano un po’ ovunque nel paese. Rocca Arsa, infatti, nonostante le dimensioni ridottissime poteva vantare un’antica fortificazione medievale parzialmente scavata nella roccia oltre a una chiesetta costruita nel Rinascimento: una piccola perla nascosta tra i boschi dell’Abruzzo e sconosciuta ai più.
   Le due ragazze amavano quel posto: erano cresciute trascorrendo lì tutte le vacanze, passando il tempo con i vecchi giochi di una volta, e quando erano alla Rocca – come il paesino veniva chiamato con semplicità dai nativi – smettevano in parte i panni tipici del ventunesimo secolo per tornare ad attività come la morra e la ruzzica insieme a tutti gli altri. Dunque non era inusuale vederle in jeans e scarpe da ginnastica mentre passeggiavano per la Rocca o, come in quel momento, attaccavano la ripida salita che portava al punto più alto del paese, dove si trovava la chiesa.
   Da lassù, la vista era mozzafiato: da un lato svettava Ombrosa, la montagna che sorgeva a una manciata di chilometri da Rocca Arsa e dove tutti si recavano per fare passeggiate nei boschi, andare a cavallo o organizzare falò e picnic; dall’altro si stendeva una piccola vallata di campi arati punteggiata da tanti altri paesi più o meno piccoli, che di notte brillavano come le stelle nel cielo terso sopra di loro. In quell’angolino sperduto di mondo c’era la pace, e nessuno di quelli che vi si recava regolarmente rimpiangeva il tempo passato là: potendo scegliere tra Rocca Arsa e i viaggi in altri luoghi del mondo, molti avrebbero scelto sempre la Rocca.
   In effetti, valeva la pena affrontare quella salita – breve ma tutt’altro che semplice – solo per quella vista spettacolare. Antonia ne era particolarmente convinta: difatti quello era il suo posto preferito, dove andava almeno una volta al giorno e di cui sentiva la mancanza quando tornava alla vita di tutti i giorni, lontana dall’Abruzzo. Anche Federica la apprezzava, ma c’erano giorni in cui la fatica di quella salita l’avrebbe scoraggiata, se non ci fosse stata la sua amica a trascinarla.
   Quel dieci di Agosto era proprio uno di quei giorni.
   «Tonia, perché stiamo salendo?» si lagnò Federica.
   «Lo sai perché» rispose placida l’altra.
   «Ma dovremo tornarci stasera per vedere le stelle cadenti, e io sono già stanca!» ansimò Federica. «Vedi? Mi manca già il fiato!»
   «Non si direbbe, Fede, visto il vigore con cui ti lamenti!» la prese in giro Antonia. «Zitta e sali: siamo quasi arrivate».
   Cinque minuti più tardi le due ragazze ansimanti osservavano il paesaggio dalla porta sbarrata della chiesetta, rabbrividendo appena al venticello fresco che soffiava lassù.
   «Non mi stanco mai di questo posto» mormorò Antonia.
   «Neanch’io» rispose Federica, «ma della salita per arrivare, sì!».
   La sua amica sorrise. «Andiamo sul promontorio» propose, accennando con la testa a un punto dietro di loro. Attaccata alla chiesa, su uno sperone di roccia alto qualche metro, c’era una piccola costruzione abbandonata che nelle intenzioni di chi l’aveva costruita avrebbe dovuto fungere da sagrestia: una parte della roccia era rimasta libera, e capitava spesso che qualcuno si arrampicasse fin lì, specialmente di notte, quando la totale assenza di luci artificiali permetteva di osservare perfettamente le stelle.
   Le ragazze si fecero strada attraverso le rocce disseminate sul ripido e dissestato viottolo che costeggiava lo sperone e si arrampicarono sull’ultimo tratto, aggrappandosi con le mani alle sporgenze e mettendo con sicurezza i piedi nelle fessure naturali.
   Adesso che erano davvero nel punto più alto del paese e non potevano salire più di così, entrambe sorrisero: ogni volta che si inerpicavano fin lassù si sentivano come se avessero espugnato e conquistato una cittadella fortificata. Eppure, Federica se ne accorse quasi con orrore, Antonia non era ancora del tutto soddisfatta.
   Quella sorta di promontorio in miniatura era, nella sua porzione non occupata dalla sagrestia, lungo circa sei metri e largo otto; una fascia larga tre metri e mezzo e coperta da un cortissimo strato d’erba precedeva un avvallamento profondo più di due metri e largo uno e mezzo, oltre il quale, sull’ultima porzione di pietra, crescevano piccole macchie di fiori variopinti. Antonia amava quei fiori, e spesso si calava giù per quella depressione del terreno per poi risalire scavalcando massi e rocce; ma quel giorno sembrava avere altri piani, a giudicare da come soppesava quel piccolo dirupo con lo sguardo.
   «Vuoi andare di là, vero, Tonia?» le chiese scoraggiata Federica.
   «Sì e no» rispose Antonia, continuando a osservare con aria meditabonda la sponda opposta. «Non ho voglia di scendere e arrampicarmi, e poi rifarlo per tornare indietro»
   «E allora?» insisté l’altra, non capendo dove la sua amica volesse andare a parare.
   «Allora voglio provare a saltarlo» fu la replica di Antonia.
   «Vuoi saltare? Ma sei impazzita?» protestò Federica. «Se non ci arrivi, se cadi lì sotto, rischi come minimo di romperti una gamba, se non peggio!».
   Antonia si strinse nelle spalle. «Dai, Fede, da quando sei diventata così fifona? C’è spazio sufficiente per la rincorsa e per l’atterraggio da tutte e due le parti. Che ci vuole?»
   «L’incoscienza» brontolò la sua amica. «O la totale assenza di spirito di sopravvivenza. O entrambi!».
   L’altra ragazza indietreggiò fin dove poteva, incurante delle parole di Federica. «Dai, vieni qui: salteremo insieme».
   «Certo» disse sarcastica l’altra. «Morire insieme o restare entrambe ferite e bloccate in quell’avvallamento è proprio in cima alla mia lista delle cose da fare!». Antonia la guardò con occhi imploranti e Federica sbuffò. «Va bene, d’accordo, vengo» cedette. «Ma sappi che se moriamo, ti ammazzo!».
   «Non essere così tragica: non moriremo» la blandì Antonia mentre Federica la affiancava. «Vedrai che dopo mi ringrazierai: quel pezzetto di terra al di là della voragine è un mondo diverso».
   Federica alzò gli occhi al cielo. «Saltiamo, prima che io cambi idea» grugnì.
   Le due ragazze si scambiarono uno sguardo prendendo un respiro profondo, corsero verso la buca e arrivate sul bordo si tuffarono nell’aria con tutta la forza che avevano.

*

Nel momento del salto, Antonia e Federica avevano istintivamente chiuso gli occhi; per un attimo avevano temuto di non farcela, di cadere e sentire l’impatto con le rocce appuntite del fondo della depressione, invece erano atterrate sul terreno duro ma privo di asperità. Nonostante l’assenza di pietre, però, l’atterraggio non era stato indolore: le due rimasero sdraiate a terra, gli occhi serrati mentre mugugnavano e si tastavano le parti del corpo indolenzite dal colpo.
   Quando finalmente si decisero a riaprire gli occhi, impiegarono qualche istante per registrare un dettaglio bizzarro e tutt’altro che trascurabile: sopra di loro, invece del cielo sereno d’agosto, si stendeva una cupola di rami e foglie attraverso cui la luce del sole filtrava in sottili lame dorate.
   Ancora stordite, si rialzarono. Si trovavano in un bosco, e ovunque volgessero lo sguardo vedevano file infinite alberi altissimi che si innalzavano verso il cielo per metri e metri, intervallati da cespugli e piccoli arbusti: l’insieme era così armonico e regolare, anche da un punto di vista geometrico, da far pensare che fosse tutta opera dell’uomo e che qualcuno avesse preso le misure prima di mettere a dimora tutte quelle piante. Il terreno era secco e polveroso; l’erba cresceva a chiazze, stentando a sopravvivere in quel caldo secco ma non per questo meno spietato, e l’intera scena sembrava dipinta nei toni del marrone.
   «Oh Dio, Tonia, che…che succede?» balbettò Federica, guardandosi intorno. «Questa non è Rocca Arsa, non è il picco accanto alla chiesa…noi…che è successo?»
   «Non lo so» rispose piano Antonia, guardandosi intorno a sua volta: non c’era niente di familiare, in quel luogo. Si voltò: alle loro spalle l’unico elemento estraneo in quel bosco altrimenti perfetto e privo di punti di riferimento erano le rovine di un vecchio arco di pietra, piazzato esattamente tra due alberi. Sembrava un rudere: un tempo doveva essere stato spesso almeno tre metri, ma parecchi massi erano rotolati giù e ora giacevano inutili alla base della costruzione, mentre nel punto più alto pareva che l’arco stesse per crollare del tutto. La ragazza richiamò l’attenzione dell’amica con un leggero colpetto alla spalla. «Fede, che ne pensi?».
   L’altra si voltò e socchiuse gli occhi. «È…è un arco» rispose. Scrutò con aria dapprima confusa e poi meravigliata i segni sul terreno che le separavano dall’arco: foglie smosse, rametti spezzati, impronte. Si avvicinò all’ammasso di rocce, incredula. «Credo…credo che…»
   «…siamo sbucate da qui» concluse Antonia per lei, raggiungendola e sfiorando l’arco.
   «Questo significa che possiamo tornare indietro» considerò Federica. Rivolse uno sguardo eloquente all’altra. «Questo posto…non mi piace. C’è qualcosa di tremendamente sbagliato in tutto questo. Tonia, ti prego, torniamo indietro».
   Antonia annuì. Anche lei era turbata da quella situazione – non riusciva a spiegarsela, niente di quello che conosceva poteva aiutarla a comprenderla – e prese la mano dell’amica. «Al mio tre» disse. Indietreggiarono di qualche passo, per sicurezza. «Uno…due…tre!».
   Le due ragazze corsero in avanti e saltarono nell’arco. Stavolta, però, dall’altra parte c’era ancora il bosco.
   «Perché siamo ancora qui?» mormorò Federica, preoccupata.
   «Non lo so» disse Antonia: anche lei era nervosa. «Forse dovremmo…».
   Il resto della sua frase fu inghiottito da un boato assordante; la terra tremò così violentemente da farle cadere, mentre il boato veniva sovrastato da quello che sembrava il ruggito di un animale feroce.
   «Che diavolo era?» ansimò Antonia, sconvolta, rimettendosi in piedi.
   «Non ne ho idea» rispose Federica, accettando la mano che l’altra le offriva e facendosi tirare su.
   Le ragazze si scambiarono uno sguardo inquieto, interrogandosi silenziosamente sul da farsi.
   «Non credo sia saggio restare qui» disse Antonia. Lanciò uno sguardo triste all’arco. «Vorrei riprovare ad attraversarlo, ma…».
   Nuovo boato, nuovo terremoto; per la terza volta in poco tempo le due giovani donne si ritrovarono sdraiate sulla terra secca, ma stavolta il suono che seguì il sisma risuonò più chiaro e vicino: più che un ruggito, si resero conto Federica e Antonia, somigliava al grido dapprima profondo e poi stridulo di una creatura enorme. Se possibile, ne furono ancora più spaventate.
   «Federica, andiamo via» esclamò con urgenza Antonia, alzandosi di scatto seguita dall’amica. «Quella specie di urlo non mi piace affatto: dobbiamo trovare un posto in cui nasconderci».
   «Sì, ma dove?» chiese Federica, scoraggiata e intimorita.
   «Ovunque» rispose sbrigativa l’altra. «Dovrà pur esserci qualcuno, in questa foresta, a cui possiamo chiedere aiuto!».
   Un coro di urla stridule e assordanti si fece strada fino a loro, seguito dal rumore pesante – troppo, troppo pesante – di passi.
   Le due amiche si bloccarono, agghiacciate.
   «Sembra che vengano da questa parte, di qualunque cosa si tratti» mormorò Federica, terrorizzata. «Come faremo a difenderci?».
   Antonia scrutò rapidamente il terreno circostante con lo sguardo. «Là!» disse brusca, indicando due grossi rami secchi e nodosi. «Useremo quelli!».
   Insieme si slanciarono in avanti; afferrarono un ramo ciascuna, e non appena vi ebbero stretto intorno il pugno, il legno si trasformò in metallo lucente proprio sotto il loro sguardo attonito.
   «Ma che accidenti…?» balbettò Antonia, lasciando cadere quello che fino a un attimo prima era stato un ramo inutile e che si era appena tramutato in una massiccia spada.
   «Tonia, non ci capisco più niente!» disse disperata l’altra, facendo per lasciare la propria spada: sembrava in procinto di crollare.
   «Ce ne preoccuperemo più tardi» decise Antonia, di nuovo padrona di sé, mentre recuperava l’arma. La terra tremò ancora tre, quattro, cinque volte in una successione talmente rapida da sembrare un’unica scossa. «Corri, Fede, corri!».
   Le due ragazze scattarono più veloci che potevano nella direzione opposta a quella da cui provenivano i versi e i passi, le spade strette convulsamente nei pugni, inciampando e cadendo ogni volta che un nuovo terremoto faceva tremolare la terra sotto i loro piedi. Eppure, più correvano e più erano spaventate: non sapevano dov’erano né da cosa fossero minacciate, non avevano idea di dove andare e se avrebbero trovato aiuto. Macinarono chilometri e chilometri, senza osare fermarsi nonostante fossero senza fiato e le loro gambe bruciassero per lo sforzo; ma quando un lupo grigio grosso quanto un cavallo sbucò dal nulla di fronte a loro, le due si bloccarono tanto repentinamente da cadere a terra, urlando.
   «Fermi, in nome del principe!» disse una voce.
   Antonia e Federica aprirono gli occhi: erano circondate da una dozzina di quei lupi e da altrettanti uomini armati fino ai denti. Uno di loro, con ricche rifiniture dorate sull’armatura, si avvicinò impugnando una spada affilatissima.
   «Tiratele su» ordinò secco; quattro uomini si avvicinarono solerti e trascinarono in piedi le ragazze afferrandole per le braccia. Il capitano le guardò con sospetto e nessuna pietà. «Gettate immediatamente le armi, se ci tenete alla vita!».
   Le due, incredule e terrorizzate, obbedirono: lasciarono le spade, e nel momento in cui toccarono terra, le lame tornarono ad essere inutili pezzi di legno.
   In perfetta sincronia, tutti gli uomini fecero un passo indietro.
   «Stregoneria!» tuonò il comandante, gli occhi che mandavano lampi. «Nemici stranieri nelle nostre terre!».
   «Stregoneria? Nemici? Noi siamo soltanto…» cercò di dire Antonia, allargando le braccia.
   La spada del capitano mulinò a due centimetri da lei. «Resta immobile, o ti ritroverai senza mani!». Antonia si bloccò, trattenendo persino il respiro; Federica scoppiò a piangere, spaventatissima. «Ammanettatele: le portiamo al castello» decise il comandante, la spada sempre puntata contro Antonia. Le guardie si affrettarono a obbedire, allacciando ai polsi delle ragazze delle spesse manette così pesanti da impedire loro anche di sollevare le braccia. Con due lunghe catene, il capitano assicurò le manette delle prigioniere alla sella del proprio lupo prima di rimontare, imitato dagli altri, e lanciò la bestia al galoppo.
   Federica e Antonia furono costrette a correre come non mai per tenere il passo. Per quasi mezz’ora resistettero, poi la seconda crollò: restò attaccata alla catena, mentre il lupo la trascinava sul terreno come un’inerme bambola di pezza.
   «Fermati, bastardo!» urlò Federica col poco fiato che le restava; prese la catena tra le mani come meglio poteva e iniziò a strattonarla pur continuando a correre. Lanciò uno sguardo alla sua amica, e vide con orrore la pelle delle sue braccia lacerarsi ovunque al contatto con il suolo e la testa rimbalzare sulla terra dura. «FERMATI, MALEDETTO!».
   Il capitano arrestò la corsa del lupo e si voltò: Federica lo fissava con odio, il volto congestionato, mentre Antonia era rimasta semisvenuta a terra. L’uomo afferrò la catena della seconda e la strattonò con cattiveria. «In piedi!» ordinò. «In piedi, o non saranno un mio problema le condizioni in cui arriverai a palazzo!».
   Con uno sforzo immenso Antonia si rialzò, le gambe malferme e le braccia e la testa sanguinanti. Federica fece per avvicinarsi e sostenerla, ma un nuovo strattone alle catene le separò. «Vi conviene tenere il passo, o sarà peggio per voi» disse il comandante. Un colpetto delle redini e il lupo ripartì, stavolta al trotto; a fatica le due ragazze rimasero in piedi, ormai svuotate di qualsiasi cosa – paura, rabbia, dolore, niente esisteva più – fino a quando, dopo quelle che a loro parvero ore, il gruppo si fermò di fronte a un’altissima, massiccia murata di pietra che sembrava racchiudere una porzione di bosco più fitta delle altre.
   «Chi va là?» gridò un uomo invisibile ai loro occhi.
   «Capitano Grant e ronda» urlò in risposta l’uomo con l’armatura decorata.
   L’enorme portone di legno si schiuse lentamente quel tanto che bastava a permettere il passaggio del piccolo contingente; una volta all’interno delle mura, il capitano scese dalla propria cavalcatura e avanzò a passi decisi attraverso il giardino, tenendo con fermezza le catene delle prigioniere tra le mani.
   Le ragazze, stordite dagli avvenimenti e da quel trattamento brutale, non riuscirono neanche a guardarsi intorno. Tutto quello che riuscirono a notare fu che anche lì, all’interno di quella cittadella fortificata, tutto sembrava essere stato invaso dagli alberi.
   Ben presto non furono più all’aperto, ma immersi nelle viscere del palazzo; trascinate e strattonate dal loro carceriere, circondate dai soldati, Federica e Antonia percorsero lunghi corridoi in cui le chiazze di luce solare che filtravano dalle finestre protette da spesse inferriate si alternavano a zone d’ombra. Senza quasi rendersene conto, si trovarono al centro di un’ampia sala rettangolare rivestita di legni e marmi pregiati: una serie di nicchie nei muri erano chiuse da tende cremisi e all’estremità opposta alla porta, su una piattaforma, faceva bella mostra di sé un grande, strano trono che sembrava scavato nelle radici e nel tronco di un albero enorme.
   «Cosa volete?» chiese un uomo vestito di nero sbucando da dietro una delle tante tende.
   «Chiedo udienza urgente e straordinaria a Sua Maestà, Mastro Devall» rispose formale il capitano Grant. Diede un lieve strattone alle catene. «Insieme al resto della ronda ho catturato due straniere: potrebbero rappresentare una grave minaccia per il regno, e credo che la questione vada sottoposta a Sua Altezza il prima possibile».
   Il Mastro annuì una sola volta. «Informerò immediatamente Sua Maestà. Aspettateci qui: sono certo che anche lui vorrà affrontare subito il problema».
   Devall si allontanò con passo rapido, sparendo di nuovo dietro la tenda da cui era emerso. Dopo qualche istante di silenzio, Antonia si schiarì la voce e guardò Grant.
   «Chiunque tu sia, dopo tutto quello che ci hai fatto…vuoi almeno dirci che diavolo succede?» disse.
   Il capitano strinse le labbra. «Succede che voi sapete usare la Magia e potreste essere una minaccia per le nostre terre. Ora il principe del regno verrà qui: vi osserverà, interrogherà, e se vi riterrà pericolose…», Grant le guardò senza pietà, «sarete giustiziate all’alba».
   
 
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