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Autore: Cosmopolita    03/06/2015    4 recensioni
Cicerone, ritto, resosi visibile tra tutti gli altri Senatori, non aspettò neanche che Cesare gli desse la parola. Le labbra, increspate in una smorfia sprezzante e denigratoria al tempo stesso, sembravano fremere dalla voglia di interromperlo –Lascia perdere questi argomenti, ti prego! Non c’è bisogno che ti spinga oltre: qui, tutti sanno benissimo cosa lui ha dato a te e, più importante, ciò che tu hai dato a lui.
[Nicomede/Cesare];[Prima classificata al contest "L'amore non vuole avere, vuole soltanto amare", indetto da Road-sama sul forum di EFP]
Genere: Angst, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
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Gallias Caesar subegit, Nicomedes Caesarem

 




NISA S. C. I. CAESAR

Mi rallegra, Cesare, sapere che tu abbia conseguito così tanti successi a Roma  dall’ultima volta che ci siamo visti: mi è giunta notizia che il tuo cursus honorum procede senza battute d’arresto.
Un giorno, qualcuno mi annuncia l’avvento della tua Questura; il giorno seguente, quello del tuo Consolato. Sarai sicuramente destinato a compiere grandi imprese, mio padre lo ripeteva continuamente.

Non ti scrivo per complimentarmi della tua carriera, Cesare: di sicuro, non hai bisogno dell’approvazione da parte di una misera abitante della Bitinia.
Confesso: mi sono rivolta a te perché sono in difficoltà. In grave difficoltà. So che tu sei un amico e che puoi aiutarmi.

Sai perfettamente che il Senato è inviso a me, ignorando tutto quello che ha fatto mio padre per loro. Se lui fosse ancora vivo, non ardirebbero di offendermi in maniera così spudorata, come stanno facendo adesso.
Mi ricordano che è solo grazie ai romani, al Senato, che mio padre è riuscito a governare in Bitinia. Ma sono in pochi a ricordarsi che, altrettanto, la Bitinia è dei romani solo per causa sua.

Sei un uomo intelligente. Avrai sicuramente compreso quello che ti sto supplicando, china davanti alle tue ginocchia, di fare: sostieni la mia causa.
Fallo per mio padre, Nicomede IV di Bitinia. Ricordi com’era, quando eri alla sua corte?
Ricordi com’era, lui?
Ricordi, infine, l’amicizia profonda che vi legava?
Sono passati anni e tu non sei più un giovane ambasciatore incaricato da un propretore qualunque di svolgere incarichi a nome suo. Tuttavia, nonostante questo, sono certa che la memoria di mio padre è ancora viva in te.
Ebbene, rammentalo  anche ai Padri Senatori.
Ti imploro, per la prima e l’ultima volta in tutta la mia vita.
Vale.

 

Aveva imparato a memoria quella lettera.
Probabilmente, sarebbe ritornato a leggerla ancora, prevedendo, ad ogni rigo, la parola che vi avrebbe ritrovato subito dopo. E sarebbe rimasto fisso, più per minuti che per secondi, davanti a quel nome.
Nicomede.
In quel punto, ma forse era solo una sua impressione, la pergamena sembrava più sgualcita, come se Nisa avesse calcolato anche questo: il ricordo di Nicomede si spingeva lontano, ed era sbiadito, proprio come il suo nome, intriso su quella lettera attraverso la grafia obliqua ed elegante di sua figlia.
Cesare sospirò e riarrotolò la missiva, facendo attenzione a non rovinarla ulteriormente.
Nisa era una donna barbara, non c’era altra motivazione per giudicare la sua sconsideratezza: una matrona romana, una di quelle per bene, non gli avrebbe mai scritto per una questione del genere.
Di certo, non lo avrebbe fatto in quel modo.
Lo stava supplicando in nome di suo padre.
Fece scivolare una mano sul suo volto e, con le dita, prese a massaggiarsi le tempie; era la prima volta che non sapeva cosa fare.
Si alzò dalla sedia e lasciò la pergamena su un tavolino; il rotolo si allentò appena, ma lui non se ne curò. Sentiva solo il bisogno di uscire di casa, a prendere una boccata d’aria fresca.

 

Bitinia, alcuni anni prima

-… ed è per questo che Marco Minucio Termo Vi richiede una flotta, come aiuto per  l’assedio a Mitilene.
L’uomo, seduto di fronte a lui, era rimasto a fissarlo tacito, senza mai distogliere lo sguardo per tutto il tempo in cui aveva parlato. Continuava a passarsi una mano sulla barba nera, su e giù, massaggiandosela piano all’inizio del mento.
Sorrideva. Era un sorriso quasi compiaciuto, soddisfatto e Cesare all’inizio non seppe bene come interpretarlo.
-Siete un bravo oratore,- parlò allora il suo interlocutore, le mani adesso intrecciate tra loro, davanti alla sua bocca –davvero sprecato come ufficiale.
Anche la bocca di Cesare si curvò in un sorriso, la testa improvvisamente gli parve essersi fatta più leggera. Era consapevole delle sue potenzialità, ma sentirselo dire faceva ugualmente piacere –Vi ringrazio, Vostra Maestà.
Rimase in attesa.
Nicomede si alzò con lentezza, il triclinio sotto di lui emise appena uno stridio strozzato.
A Cesare sembrò più alto e imponente che mai. Non riusciva a credere che una persona dall’aria così salda, massiccia, fosse stato capace di farsi spodestare.
–Dimmi; ti piace il mio Regno?
Il giovane ufficiale assentì, trattenendo appena un sospiro. Una domanda del genere era talmente prevedibile che ne fu quasi deluso.
Non era un genere di quesito che si addiceva sulla bocca di quell’uomo.
–Molto. E voi siete un regnante eccellente. E’ una fortuna che Silla vi abbia rimesso sul trono. Probabilmente, una delle poche cose buone che ha fatto.
Il Re di Bitinia si lasciò andare ad una risata bonaria, che alle sue orecchie suonò semplicemente posticcia. Non sembrava offeso dalla sua constatazione: “E’ solo per merito nostro che siedi sul trono”. Era come se ne fosse consapevole e non se ne vergognasse affatto.
Rideva della sua stessa fortuna.
-Certamente, è solo per merito di un romano che io sono il Re di tutto questo,- e, con un gesto plateale delle braccia, indicò tutto il cortile, dai portici illuminati, fino alle statue, tutte dai volti uguali  –ma pensaci… quale romano può vantarsi di possedere questa immensa fortuna: essere Re?
Cesare sogghignò: questo era un discorso molto più stuzzicante del precedente.
Finse di pensarci un po’, anche se la sua replica l’aveva in mente già da tempo, ormai –Avete ragione: nessun romano potrà mai essere Re. Ma, se mi permettete, non è forse più importante un console romano piuttosto che il Re di uno stato cliente?
Nicomede, sulle prime, rimase rigido al centro del portico, gli occhi un po’ sgranati per la sorpresa. Cesare temette di aver esagerato con le provocazioni quando, ad un certo punto, quello parve come riprendere di nuovo vita. Scosse la testa, ma in una maniera singolare, come se stesse ammettendo di aver perso quello scambio di battute –Scommetto che, tra qualche anno, sarò io a dovermi inchinare a te.
Si avvicinò a lui, il romano dovette alzare la testa per vedergli meglio il viso.
-Mi piaci, ragazzo. Dico sul serio- e scoppiò di nuovo a ridere.
Continuava a camminare per la stanza, adagio, avvolto in chissà quali elucubrazioni. Solo di tanto in tanto si girava per guardarlo. E, ogni volta, Cesare si chiedeva a cosa pensasse, come facesse a sorridere in quella maniera così enigmatica e che cosa avesse di particolare quel suo volto da renderlo tanto interessante.
Ma non lo fece mai.
–Ti concederò quella flotta.- riprese finalmente a parlare, di nuovo avvicinatosi a lui - Non potrei fare altrimenti, giusto?
L’altro annuì un’altra volta, meno teso, più tranquillo: era stato certo, fin dall’inizio, che Nicomede non si sarebbe mai rifiutato di concedere alcunché al popolo romano –Certo che no, Vostra Maestà- si alzò in piedi, il viso a pochi centimetri dal suo. Non era poi così alto, visto da lì.
Il sovrano prese ad allisciarsi la barba –A proposito, come ti chiami?
Toccò a lui guardarlo fiero negli occhi –Caio Cesare, della famiglia Iulia.
Nicomede fece una domanda che non si sarebbe mai aspettato.
-Ti piacerebbe partecipare ad un banchetto, Cesare?


CAESAR NISA SALUTEM DICIT

Si Vales Bene Est;  Ego Valeo.
Mi dispiace per te e per le sofferenze che stai provando in questi giorni.
Volevo bene a tuo padre. E’ stato un buon amico.
Anche se è morto da molto tempo, ormai, questo non vuol dire che non senta ugualmente la sua mancanza.
Per quanto riguarda ciò che mi chiedi…

Lo stilo rimase bloccato a mezz’aria: non sapeva come andare avanti.


Alle sue orecchie giunse la risata di Nicomede.
Era strana, per niente bella; grassa, cavernosa, sapeva di ozio e smoderatezza.
Era da Barbaro, incurante del Mos Maiorum e di tutto quello che a Cesare, o, se non lui, ad ogni cittadino romano, stava a cuore.
Eppure, a lui piaceva.
-Passami altro vino, Romano!- una pacca gli colpì le spalle. Malgrado il ruolo di coppiere non gli si addicesse affatto, alzò l’anfora e versò il Falecio dentro il calice di Nicomede. La donna al suo fianco, era certo fosse ormai ubriaca, alzò la coppa, rossa in viso.
-A Nicomede!- urlò, prima di ingurgitare con una sorsata tutto il suo contenuto.
E bevve anche Cesare, storse appena la bocca per l’eccessiva annacquatura del vino. Mandò giù un altro goccio, mentre i colori si facevano più vividi e gli schiamazzi dei convitati più ovattati.
Più di tutti, sentiva lontana la risata di Nicomede. Era diventata un vociare distante, un confuso sospiro uguale a tutte le altre voci dei banchettanti.
Sapeva che, se si fosse girato alla sua destra, lo avrebbe trovato, con il calice in una mano e le dita dell’altra inanellate tra i capelli di una bella donna.
Eppure, non sentire più la sua risata, gli fece uno strano effetto.
Si sentì afferrare con irruenza per una mano. Non aveva bisogno di voltarsi per sapere chi fosse.
-Ai Romani!
Nicomede gli alzò il braccio. Sentì ancora la sua risata, ed era così bello poterla sentire in netto contrasto con quella degli altri.
Bevve ancora, quella volta alla sua salute, e il vino non gli sembrò più troppo diluito.
La mano di Nicomede era ancora stretta alla sua. A Cesare non dispiacque affatto.

Attraversavano i corridoi bui del palazzo soffocando sogghigni dovuti più al vino che a chissà quale sofisticata battuta.
La sua guancia era posata sulla spalla del Re, il suo corpo quasi accasciato contro il suo: si lasciava trasportare.
-Sei stanco?- gli sussurrò Nicomede ad un orecchio, avvertiva il suo solito accenno di riso bonario, così fastidioso, eppure in quel momento tanto piacevole.
-No- tentò di mormorare, muovendo appena la bocca.
Sentì le labbra di lui poggiarsi sulle sue e non sapeva decidere se fosse stato inaspettato o meno.
La barba gli pizzicava il volto, ma non lo fermò. Si aggrappò ancora di più a lui, sempre più stretto, sempre meno assonnato. Poteva sentire le sue mani scendere verso il suo fondoschiena, con irruenza, senza curarsi del fatto che qualcuno potesse vederli.
Fuori, dal cortile, s’intravedeva la coltre del buio incominciare a schiarirsi.


… per quanto riguarda ciò che mi chiedi, Nisa: sarà fatto.
Vale.

Lo stilo poggiato sul banco, le labbra appena strette in un sorriso mesto.
Dopotutto, lui era uno degli uomini più importanti di Roma. Niente gli era impossibile.


-Ho detto che dovevo recarmi in Bitinia per conto di un certo mio liberto… non ho specificato bene la questione, ma spero sia sufficiente.
Per tutta risposta, la sua bocca dell’altro gli sfiorò appena le spalle. Sentì piano piano le sue labbra schiudersi ed emettere uno sbuffo gutturale.
-Ridi pure, se vuoi- gli concesse Cesare, non voltandosi neanche quella volta.
Con il tempo aveva cominciato ad apprezzare la risata di Nicomede, tanto da non poter farne più a meno.
-Scusami.
Sentiva il suo naso premere sulla schiena e le braccia che, adagio, ripresero ad avvolgerlo a sé.
–Perdonami se ti dico questo, ma la tua è stata una mossa alquanto azzardata… e la motivazione che hai dato lo è altrettanto- un altro scoppio di ilarità, questa volta meno contenuta, più da lui –Chi lo avrebbe mai detto? Giulio Cesare, l’abile stratega, s’inventa scuse tanto banali e sciocche per recarsi in visita da me! Sono libero di sentirmi onorato.
-Pensavo ti facesse piacere- i suoi occhi si voltarono per accusarlo.
-E mi fa piacere, ovviamente. Ma non credo ti vada a genio essere chiamato “Regina di Bitinia” dai tuoi concittadini.
Il Romano non rispose. Rimase semplicemente in attesa che Nicomede riprendesse a baciarlo.
Ma il Re di Bitinia sciolse la presa e si sdraiò sul letto.
Improvvisamente, si era fatto serio –Ti ricordi il nostro primo incontro? Quando ti chiesi, implicitamente, se invidiavi la mia posizione?
L’altro assottigliò lo sguardo e con il viso gli si avvicinò: non riusciva a capire dove volesse andare a parare –Certo, me lo ricordo.
Sorrise, Nicomede, mentre con una mano gli accarezzava la guancia –Ne sono contento. E allora, adesso ti domando: non ti piacerebbe essere un uomo comune? Un uomo libero dagli impegni, libero dal dover pensare alla politica e al cursus honorum? Cosa sei, adesso, un questore o un pretore? In ogni caso, non sarebbe più auspicabile, per noi, rimanere rinchiusi in questa stanza per sempre, senza doverci preoccupare delle nostre fortune là fuori?
Per un attimo, Cesare parve prendere sul serio quell’idea e a dire il vero non gli parve neanche tanto malvagia.
 Ma quel barlume di possibilità, quello squarcio luminoso che comparve all’orizzonte, sparì subito, come una folgore –No, non mi piacerebbe.
E fu lui a baciarlo –Ricordi anche cosa mi dissi in seguito?- domandò retorico, dopo essersi separato da Nicomede –Che un giorno ti saresti inchinato a me. Da quel momento, credimi, non vedo l’ora che arrivi quel giorno. Per questo non potrei mai abbandonare la mia carriera.
E finalmente, Nicomede scoppiò a ridere, quasi gli si vedeva l’ugola per quanto sguaiatamente lo faceva.
-Il passare del tempo ha fatto diventare me noioso e te ambizioso- passò un braccio dietro la sua testa e lo attirò a sé –Almeno, concedimi una cosa: quando diventerai console, non dimenticarti del Re di questo misero stato.
-Non potrei mai dimenticarmi di te.
Nicomede, allora, si alzò dal letto e ci girò intorno, fin quando non fu davanti al suo amico. Poi, un sorriso sornione ancora impresso sul volto, piegò le ginocchia e abbassò lo sguardo –Ti rendo omaggio, futuro console di Roma.
Solo in quell’istante, Cesare notò che la barba di lui si era fatta sempre più candida e i suoi occhi sempre più lattiginosi e le rughe del suo viso sempre più pesanti.
Gli prese le mani e lo attirò di nuovo a sé.
In quella stanza non c’era nessun console e nessun Re.


Gli occhi dei Padri Senatori convergevano tutti su di lui.
La sua voce, un rimbombo nella stanza, non tradiva alcun tremolio. Cesare continuava a parlare, imperterrito, nella mente una sola immagine, impressa come un affresco.
Lo stava facendo in suo memoria, per non dimenticarlo del tutto.
-Conosciamo tutti il padre di Nisa,- percorse tutta la circonferenza della stanza, scrutava con gli occhi uno ad uno dei presenti –Nicomede IV. Per quanto mi riguarda era... era…- sospirò.
Cos’era stato, Nicomede, se non una breve parentesi di una vita che gli si prospettava ben più ricca e lunga? Chi era stato, se non il Re di uno stato che non aveva avuto altro futuro se non finire nelle mani di Roma?
Tuttavia, non riusciva a considerarlo solo come tale.
Non era stato un inciso buio e privo di senso. Nicomede era stato, senza ombra di dubbio, qualcosa di più nobile: una luce o piuttosto, un fulmine.
Senza indugio, riprese a parlare, la voce era divenuta più appassionata –era un gran uomo. Fedele a Roma come solo pochi sovrani lo sono stati. Ricorderete certamente quanto è stato benevolo verso di noi. Io personalmente ho potuto vedere con i miei occhi di quale generosità era capace e…
-Oh, ma per favore!
Un urlo si elevò, come un grido di guerra, dalle gradinate.
Cicerone, ritto, resosi visibile tra tutti gli altri Senatori, non aspettò neanche che Cesare gli desse la parola. Le labbra, increspate in una smorfia sprezzante e denigratoria al tempo stesso, sembravano fremere dalla voglia di interromperlo –Lascia perdere questi argomenti, ti prego! Non c’è bisogno che ti spinga oltre: qui, tutti sanno benissimo cosa lui ha dato a te e, più importante, ciò che tu hai dato a lui.
Un silenzio irritante regnò in Senato e parve durare ore. Di tanto in tanto, si poteva sentire qualcuno tossicchiare sommessamente, come se volesse a stento arrestare una risata.

“Non credo ti vada a genio essere chiamato “Regina di Bitinia” dai tuoi concittadini”.

Quella frase sembrò improvvisamente diventare realtà.
-Ti ringrazio, Cicerone, per la tua precisazione.
E Cesare, nessuna emozione impressa nel volto, riprese a pronunciare il suo discorso.

 

«Gallias Caesar subegit, Nicomedes Caesarem: ecce Caesar nunc triumphat qui subegit Gallias, Nicomedes non triumphat qui subegit Caesarem »

Le urla dei canti festosi dei soldati gli giunsero alle orecchie, come trasportate dal vento.

“Cesare ha sottomesso la Gallia, Nicomede Cesare: ecco, ora Cesare, che ha sottomesso la Gallia, trionfa, Nicomede, che ha sottomesso Cesare, non trionfa”.

 



 

NOTE
Allora, sarò brevissima, per quanto ci sia davvero moltissimo da dire (ma non vorrei tediarvi oltre).
Prima di tutto, la storia di Nisa è vera: non so fino a che punto fossero in confidenza questi due, e neanche quale fosse il reale motivo per cui Nisa avesse chiesto aiuto a Cesare (nessun testo latino, ahimè, lo menziona, neanche quel pettegolo di Cicerone, che su Cesare ne ha scritte di ogni), per cui sono andata molto sul generico e ho ipotizzato che si rivolgesse a lui per essere difesa da accuse di ingiurie ai suoi danni (considerato che all’epoca andava tanto di moda…).
Anche la frase detta da Cicerone è vera. Il solito simpaticone!
Per quanto riguarda la vicenda tra Nicomede e Cicerone, la questione si fa un po’ più complessa: anche qui, i testi latini sono pochi e sono tutti poco lusinghieri sull’argomento: ho cercato di essere verosimile a grandi linee (il lavoro di ambasceria, il banchetto e il loro secondo incontro sono tutti avvenimenti che sono comunque realmente accaduti). Questi due non si sono visti che un paio di volte, anche perché Nicomede è morto nel 74 a.C. (considerato che Cesare era del 100 e si sono visti per la prima volta quando aveva all’incirca una ventina d’anni…), quindi non ho descritto moltissimo dei loro incontri ravvicinati, proprio perché ce ne sono stati pochissimi. Ho voluto piuttosto concentrarmi sul puro ricordo che Cesare ha di lui.
Un’ultima cosa: l’ultima frase, che poi è anche il titolo della storia, è un pezzo di un Triumphalia (canti scherzosi che i soldati dedicavano al proprio comandante dopo una vittoria) riportato da Svetonio.

   
 
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