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Autore: Gwen Chan    03/06/2015    5 recensioni
Ludwig era grande. Era alto, forte. Tanto forte da tenerla senza fatica su una spalla, lei che era uno scricciolo. Le piaceva quando la sollevava, perché da lassù il mondo sembrava diverso, più limpido. [...] . E lei rideva, rideva, con voce cristallina, perché aveva in sé il fuoco della giovinezza e del primo amore.
Erano momenti rubati alla guerra, i loro, consumati nei boschi, nei vicoli, in qualche stanza polverosa d'albergo, quando capitava. Attimi fatti di baci appassionati e carezze e amplessi che riuscivano a mantenere una certa delicatezza pur nella loro urgenza. Con Ludwig Alice si sentiva al sicuro. Lo amava, su questo non aveva dubbi.

[AU][Germania x Fem!Italia][Prequel a Serenella]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Germania/Ludwig, Nord Italia/Feliciano Vargas, Nyotalia
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Gender Bender, Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Cronache di una famiglia '
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Stella Stellina
 
Ludwig era grande. Era alto, forte. Tanto forte da tenerla senza fatica su una spalla, lei che era uno scricciolo. Le piaceva quando la sollevava, perché da lassù il mondo sembrava diverso, più limpido. 
Quando ballavano - sapeva ballare bene il tedesco - a volte la faceva girare con tale foga da alzarla da terra, con la gonna che si gonfiava come un palloncino. E lei rideva, rideva, con voce cristallina, perché aveva in sé il fuoco della giovinezza e del primo amore. 
Erano momenti rubati alla guerra, i loro, consumati nei boschi, nei vicoli, in qualche stanza polverosa d'albergo, quando capitava. Attimi fatti di baci appassionati e carezze e amplessi che riuscivano a mantenere una certa delicatezza pur nella loro urgenza. Con Ludwig Alice si sentiva al sicuro. Lo amava, su questo non aveva dubbi. Viveva di certezze. Le piaceva accoccolarsi contro il suo petto muscoloso dopo che lui l'aveva posseduta. Le piaceva quando infilava le dita fra i boccoli castani. 
Le piaceva scompigliargli i capelli, solitamente pettinati all'indietro. Sosteneva che così sembra più umano. Più giovane. 
Aveva occhi azzurri, Ludwig. Profondi e seri occhi celesti da bambino, così diversi dalle iridi fredde di certi militari che percorrevano con aria tronfia le vie acciottolate di Roma. Un giorno gli chiese a fatica perché si fosse arruolato. Le rispose che lo aveva fatto per amore della patria, certo, anche per seguire l'esempio del fratello maggiore, ma soprattutto perché l'inazione non avrebbe mutato il vicolo cieco in cui la Germania si era infilata di sua spontanea volontà. Alice annuì, pensierosa. I suoi fratelli erano sfuggiti alla leva. Uno era stato ritenuto troppo malsano, troppo fragile; l'altro si era dato alla macchia dopo aver minacciato con un coltello un commilitone durante una rissa, prima, e aver preso a pugni un superiore, poi. Entrambi, ora, combattevano nelle file della Resistenza. 
Solitamente, però, Alice e Ludwig non avevano il tempo per le coccole. C'era solo la foga di chi ha i secondi contati. Gli affondava le unghie nella carne, lasciando tante mezzelune rosse, segni che avrebbero dato il via a un numero imprecisato di pettegolezzi, per non perdere l'equilibrio quando si muovevano allo stesso ritmo, in mezzo a sospiri soffocati e frasi smozzicate. 
La faceva ridere, Ludwig, con quel suo buffo modo di parlare. 
Con il suo confondere le consonanti. 
Cercava di insegnargli un poco d’italiano, ma il giovane incespicava sulle sonorità liquide, melodiose, così diverse dai suoni ispidi cui era abituato e che, nove volte su dieci, facevano spaventare Alice. Per questo non si avvicinava mai agli altri soldati, nonostante i loro sorrisi e le loro moine. Con Ludwig era diverso. Sorrideva raramente, ma era sempre sincero. Permetteva alla ragazza di dimenticare cosa si era lasciata alle spalle. 
A volte discutevano del futuro, di cosa avrebbero fatto una volta finita la guerra. Perché la guerra sarebbe finita, non poteva essere altrimenti. Lo avrebbe presentato ai suoi fratelli, certo, e a Chiara e avrebbero capito e tutto si sarebbe sistemato. Poi sarebbero andati in Germania, da quel suo fratello strano di cui raccontava sempre. In un modo o nell'altro, sarebbero rimasti insieme. Sposarsi? Sì, sì, mille volte sì. Se Ludwig si spostava, Alice lo seguiva, a distanza, senza farsi notare, sforzandosi di soffocare il proprio comportamento esuberante. Perché non aveva freni, Alice, non aveva pudore. Era schietta, limpida, senza limiti, senza incertezza. Quando le scarpe furono tanto consunte da bucarsi, proseguì scalza. Al principio pianse per le piaghe che rendevano una tortura ogni passo, poi le vesciche scoppiarono e divennero calli. I rari regali che Ludwig le faceva ella li spediva a Chiara alla prima occasione. 
Un giorno, però, il tedesco le disse che non poteva andare con lui. Alice scosse la testa, con vigore, premendo i pugni sulle orecchie. "No. Io ti seguo" ripeteva, cocciutamente. "Vengo con te." 
Fece dondolare le gambe abbronzate oltre il bordo del letto cigolante, affusolate nel vestito corto. Le piante dei piedi erano sudice. La camicetta tirava sulla pancia. Dietro le orecchie e sul collo si vedevano strisce di sporcizia. Ludwig cercò di blandirla, a fatica, poco abituato a tutto ciò che sfuggiva agli schemi. Alice era aria, inafferrabile, imprevedibile.
"Ascoltami, è importante. Ascoltami, ascoltami", ma lei continuò a scuotere la testa.   "Alice!" 
Ludwig aveva gridato, per l'esasperazione. Si pizzicò la punta del naso tra pollice e indice. La ragazza sgranò gli occhi, si morse le labbra, ma non pianse. Al contrario si alzò, con calma, e andò alla finestra. "Vengo con te. Non ho nient'altro."
Si lasciò cingere da dietro, da quelle braccia che avrebbero potuto stringerla fino a spezzarla, se solo avessero voluto. Ludwig la baciò sulla nuca, scivolando a sfiorarle il ventre. Alice fremette. "Non voglio che accada nulla al bambino, capisci?"
La ragazza annuì. Sì, lo capiva, non era stupida. Era ingenua, non stupida "Mi manca la mia famiglia" sospirò. Chinò la testa all'indietro per guardarlo negli occhi, arricciando il naso e corrugando la fronte. "A te no?"
"Ja."
La casa in campagna e le battute di Julchen e i dolci di Monika e le pazzie di Gilbert e i suoi tre cani, che saltano, corrono, gli fanno le feste. Ja. Sì. Un'unica sillaba. Casa. Abiti puliti e lenzuola e una tavola imbandita. Ricordò le ultime parole di Gilbert prima di partire alla volta del fronte russo: "Si sono spinti troppo oltre."
C'era anche un'altra domanda, non pronunciata, ma che rimase sospesa nell'aria, prima di essere affidata al vento.
Perché non ve ne tornate tutti a casa? Perché non ve ne andate? Al pari dei suoi fratelli e di Chiara, Alice non condivideva il comportamento dei tedeschi, soprattutto dopo l'armistizio. Quello che aveva cercato di spiegare alla sorella ... No, che avrebbe voluto spiegare, senza mai riuscirci, era che si era innamorata di Ludwig come persona, perché era lui, indipendentemente dalla nazionalità. Eppure Chiara l'aveva chiamata traditrice, con odio, fissandola come una straniera pazza e pericolosa. Alice aveva pianto tanto.
Ludwig sapeva che, con ogni probabilità, dopo la missione prevista per l'indomani li avrebbero trasferiti in blocco seduta stante, troppo lontano perché Alice potesse raggiungerlo a piedi. Le ordinò di non allontanarsi troppo da Roma, le promise che l'avrebbe ritrovata. Alice si volse e gli puntò un dito all'addome: "Entro sei mesi."
Guerra o non guerra. Lo voleva accanto per quando sarebbe nato il bambino. "Sei" ribadì. 
Senza Ludwig, Alice si sentì sola per la prima volta. Era una sensazione per lei inafferrabile, abituata a vivere in una famiglia numerosa, coccolata e vezzeggiata per il fatto di essere la più piccola. Quando Chiara l'aveva rinnegata, c'era sempre stato Ludwig al suo fianco. La solitudine, rotta unicamente dal grumo di cellule che cresceva giorno per giorno in lei, le era sconosciuta. Tuttavia non era tipo da abbattersi. Cominciò a lavorare come sguattera in cambio di un minimo di vitto e di alloggio. Per quanto paresse impossibile, i clienti non mancavano mai. Quello che mancava era il cibo, sempre più razionato, e la libertà. Prima di partire, Ludwig si era raccomandato che non uscisse in strada, soprattutto se da sola, ma la ragazza ancora per poco avrebbe sopportato la clausura forzata. Alla fine per lei fu inevitabile disobbedire. Lasciò un biglietto vergato con la sua grafia infantile ed incerta, in cui ringraziava, perché era una brava ragazza e così le avevano insegnato, poi se ne andò. Con sé portò solo i vestiti, un coltello e una coperta. Presa in prestito. Vivere senza un tetto sulla testa non la preoccupò mai. Contava le stelle prima di addormentarsi. Ludwig le aveva insegnato a trovare l'Orsa Minore e la Stella Polare.
"Indica il nord. Puoi seguirla quando ti perdi."
Nemmeno i morsi della fame la scoraggiavano, insistenti soprattutto ora che avrebbe dovuto mangiare per due. La vecchia levatrice al suo paese, se l'avesse vista in quei momenti, avrebbe detto che era troppo magra per partorire. Il tutto masticando lo stesso fico secco, che la donna era in grado di tenere in bocca per ore. Alice era fermamente convinta che il buon Dio l'avrebbe aiutata. 
Parlava spesso col suo piccino. "Tua zia Chiara" diceva "sembra tanto burbera, ma in realtà è dolce come il miele. E tuo zio Lovi, lui sa pescare le cozze. Nessuno sa come faccia, ma trova sempre gli scogli giusti. Non abbiamo mai sofferto la fame. Oh, e la nostra casa ha tutti i muri dipinti. Ci sono le onde e i pesci e i fiori. È stato tuo zio Feli" raccontava, eccitata. Forse era solo una sua impressione, ma le sembrava che il feto si calmasse. "Mi piace il mare, credo che potrei morire se restassi troppo a lungo lontano dal mare. Ludwig dice che anche in Germania c'è il mare, solo più freddo. Che non potrei farci il bagno. A me piace tanto fare il bagno, anche se mia madre ripeteva sempre che sono una scostumata" concluse, incespicando sui vocaboli più difficili.
Si passò pensierosa le dita sulle ginocchia, dove erano rimaste le cicatrici delle innumerevoli volte in cui se le era sbucciate. Raccontò del sale, quando s’incrostava sulla pelle e fra i capelli, oppure dei pomodori rossi come gioielli, delle file di acciughe lasciate a seccare al sole. "E i limoni, hanno un profumo così intenso!"
Raccontava di agrumi e molluschi da succhiare anche il giorno in cui il Fato, da abile e crudele burattinaio, la condusse presso un complesso di cave. All'epoca non avevano nulla di speciale, presto sarebbero divenute tristemente famose. Eppure, prima dell'eccidio, per Alice e per tanti altri, le fosse erano solo un luogo da usare a mo' di rifugio. 
Canticchiava un'antica ninna nanna in dialetto quando udì lo sbraitare dei soldati. Non era un parlare, ma un latrare, un abbaiare, un vomitare ordini con quel tono duro e violento che le faceva paura. Dovevano avercelo nel sangue, i tedeschi, l'abitudine a urlare, nemmeno Ludwig ne era immune.  
"Va tutto bene, piccolo" mormorò sfregandosi la pancia con le dita sudaticce. "Adesso gli uomini cattivi se ne vanno."
Non fu così. Alice contò fino a trecento, ma i militari erano ancora fuori dalle cave, a infettare l'aria con la loro rabbia. La ragazza indietreggiò, alla cieca. 
"Non avere paura, ci sono qui io. La mamma ti protegge."
Lo ripeteva come una nenia per scacciare il malocchio, mentre percorreva le gallerie in preda al terrore. Dietro di lei udiva un rumore di passi. Alice era appiattita contro una parete quando una SS e un gruppo di uomini in ceppi le passarono a fianco. Il cuore mancò un battito. L'avrebbero vista. Non appena il lucore delle torce si fosse diretto verso la zona d'ombra dove si trovava, l'avrebbero vista e uccisa. Goccioloni salati iniziarono a correre lungo le guance. Pregò, appellandosi alla Vergine Maria. A tutti i Santi che conosceva. Che vegliassero su di lei e sul suo bambino. La sua piccola creatura adorata. 
"Tra poco è tutto finito. Andremo a cercare i funghi" pensò intensamente. "Sono buoni ma difficili da scovare" continuò a raccontare per immagini, mentre il suono secco degli spari echeggiava nelle fosse. 
"I pini. Sì, i pini. Non perdono mai le foglie ... "
Spari. Urla. Lamenti.
"Però pungono. Se incidi il tronco esce la resina che ha un buon odore."
Puzza di sangue. Puzza di polvere da sparo. Di sudore. Di chiuso. 
La povera italiana quasi gridò di disgusto quando qualcosa di freddo le sfiorò le gambe. Si chinò, giusto in tempo per vedere un uomo spirare ai suoi piedi. Ne seguì un altro. Un altro ancora. Cadaveri, cadaveri  di uomini, davanti a lei, attorno a lei, dappertutto. 
"I campi biondi di grano d'estate e ... E i sacchi gonfi di farina bianca, morbida e fresca."
Chiara impastava sul ripiano di marmo, all'aperto, con i capelli raccolti in una morbida coda, le maniche della camicia arrotolate sopra i gomiti e i gesti esperti di chi ha cucinato pagnotte ancor prima di saper parlare. Stendere, tirare, rivoltare. Alice osservava, con quaderno degli esercizi sulle ginocchia, a volte aiutava. 
Chiuse gli occhi e attese che l'incubo finisse. 
Quando infine fu silenzio, totale, benedetto, Alice era esausta. Il corpo doleva per la prolungata immobilità. La testa ronzava. La pancia le faceva male. Tanto. Barcollando si fece strada fino all'uscita, bramosa di rivedere il cielo, come un animale selvatico dopo un lungo periodo di cattività. Prima che i soldati tornassero. Trovando l'accesso alla cava sbarrato, si gettò sui detriti con disperata foga. Scavò a mani nude. Graffiò la roccia. Si scorticò le nocche. Si consumò le unghie. Urlò. Picchiò i pugni. Infine riuscì a creare un passaggio sufficiente in cui potersi infilare, carponi, contorcendosi, perché era piccola e magra. Il ventre per un momento, un unico momento, venne schiacciato contro la roccia. Giusto una compressione perché anche la parte sotto il busto potesse sgusciare fuori.
Nell'aria gelida della notte l'italiana sentì qualcosa di caldo colare dall'intimo fra le cosce. Lo toccò, lo annusò: sangue. Fissò le dita sporche al chiarore freddo delle stelle senza comprenderne il significato. 
"Andiamo a casa" mormorò con voce rotta. Un passo dietro l'altro, dietro l'altro, dietro l’altro. Insozzata di morte. I capelli scarmigliati si appiccicavano alle guance e al collo sudati. Un conato la costrinse a piegarsi a punto interrogativo. Vomitò. 
Si voltò verso le Ardeatine, la bocca istintivamente formulò una preghiera. La stella polare era particolarmente brillante quella sera. "Puoi seguirla se ti perdi."
"Ma il Nord non è la mia casa" aveva replicato, assottigliando gli occhioni color ambra. Ludwig l'aveva fatta girare su se stessa, lentamente. "Questo è il Sud" spiegò. "La strada per tornare a casa."
"E poi?"
Egli l'aveva fissata. Era parso indeciso se ritenere il suo quesito una presa in giro o una domanda dettata da una reale ignoranza. 
"Poi trovi il Mediterraneo e l'Africa. Hai studiato geografia a scuola, no?"
Alice si strinse nelle spalle e abbozzò un ghigno. "Poco. Non era la mia materia preferita."
Non disse che le piaceva sentirlo raccontare, in un intreccio scomposto di vocaboli italiani e tedeschi, con i gesti che spesso andavano a compensare ciò che non era possibile esprimere a parole. 
"Percorsa l'Africa si arriva al Polo Sud"
"E la gente non cade laggiù? Cioè, non stanno a testa in giù?"
Ludwig era scoppiato in quella sua risata tanto simile a uno sbuffo, quasi ne fosse imbarazzato. "No, non cadono."
Fortunatamente l'italiana non aveva voluto approfondire la questione. "E a Ovest?" indicando il punto cardinale col braccio teso. "Quello è l'Est. L'Asia. La Russia, dove combatte mio fratello."
Ludwig tacque. Le lettere di Gilbert, prima già sporadiche, avevano smesso di arrivare da quasi un anno. Alice lo riscosse: "E dopo?"
"L'India. La Cina. Il Giappone. L'Oceano Pacifico" elencò solo alcuni dei numerosi Stati che componevano il massiccio continente, quelli che sapeva sarebbero stati più familiari ad Alice.
"L'America."
"L'America. E l'Oceano Atlantico."
Avevano continuato così per tutta la sera. Al solito avevano anche fatto l'amore, sebbene Ludwig fosse restio a prenderla da quando Alice era rimasta incinta. Era di circa un mese, all'epoca. Era felice. 
La ragazza camminò per tutta la notte, sorretta unicamente da una forza di volontà sempre più flebile, mentre il vuoto nei pressi dell'ombelico minacciava di inghiottirla. Ogni tanto sfiorava il manico del coltello infilato alla cintura. Che fosse in grado di servirsene, in caso di necessità, era tutt'altro discorso.
Il sole era già alto nel cielo quando la ragazza entrò a Roma. Guardava tutto come se fosse immerso in un sogno. Guardava i tedeschi che pattugliavano le strade come strani animali. Guardava i cittadini, chiusi ciascuno nel tentativo di conservare una parvenza di normalità, e rimaneva immobile, incapace di chiedere aiuto. Una suora le sfiora un braccio. 
"Qualcosa non va figliola? Hai un aspetto orribile."
Alice la fissò. Subito scoppiò a piangere. Si lasciò prendere per mano. 
"Su, vieni cara. È un brutto periodo per tutti. È terribile quello che hanno fatto, proprio terribile. Ma sei tutta sporca di sangue! Ma cosa ti è successo? Vieni, ti porto in convento. Povera piccola."
Alice non rispose. Riusciva solo a mormorare: "Il mio bambino. Il mio bambino."
Non appena si fu seduta, la testa cadde ciondoloni sul petto. Quando si ridestò, in un letto dalle lenzuola profumate di lavanda, disse: “È morto." 
La suorina nella stanza annuì, prima di andare a chiamare la propria superiora. Sì, il suo bambino era morto, le spiegarono, torcendosi le mani e tormentando i rosari che portavano al collo. Un bel maschietto, aggiunsero. Una tragedia, davvero una tragedia. Lo avevano seppellito nel cortile e, no, non doveva preoccuparsi: il suo bambino adesso era con il buon Dio.
Alice ripeté con ostinazione: "È morto." 
Non si stava riferendo al figlio che mai avrebbe visto la luce, il mare, la casa dipinta. Non parlava del grumo di cellule con cui aveva parlato negli ultimi mesi. Ludwig era morto. Lo sapeva, semplicemente. Non l'avrebbe più sollevata per baciarla. Non l'avrebbe portata a Berlino. Non l'avrebbe sposata. 
A ogni "non" la consapevolezza, già limpida, della sua perdita, affondava gli artigli nel corpo della ragazza. 
"La stella polare indica la via di casa."
Lei non aveva più una casa. Non aveva più un posto dove tornare. Per la prima volta nella sua breve vita si sentì sola, nel senso pieno e terrificante del termine.
Rimase a letto per un paio di settimane. Sotto le coperte, tirate fin sopra la testa nonostante il caldo, udiva il continuo via vai che veniva messo in scena oltre la porta chiusa della cella. Un girotondo di anime unite da una devozione che non era solo religiosa. Udiva sprazzi di conversazione, abbastanza per comprendere come il convento collaborasse con la Resistenza, nascondendo partigiani e, sì, anche qualche ebreo, miracolosamente sfuggito alle retate degli ultimi mesi. Se era ancora possibile credere ai miracoli.
La suora di turno che le portava il cibo aveva sempre l’indice posato sulle labbra, a formare una croce con esse, a chiedere qualcosa che andava oltre il semplice silenzio. Pietà.
Alice avrebbe voluto aiutare, tanto. Avrebbe desiderato scrollarsi di dosso il torpore che le aveva preso le membra, chiudere in un cassetto quanto accaduto e dimenticarsene, come si faceva con la dote delle bambine in attesa che crescessero e fossero pronte per il matrimonio. Fu così che, una mattina di maggio, chi le portò il latte caldo della colazione la trovò in piedi di fianco al letto, con la camicia da notte che lasciava scoperte le ginocchia ossute e le gambe pallide.
“Vorrei dei vestiti, per favore” chiese. “Un paio di pantaloni” precisò subito dopo.
“Un paio di pantaloni?” protestò suor … suor? Suor Lucia, concluse convinta l’italiana. “Ma sei una ragazza!”
“Per favore. E un paio di forbici.”
Suor Lucia uscì, borbottando a mezza voce qualcosa a proposito di costumi degeneri e modernità e strumenti del Demonio. Pantaloni! Che idea malsana! Tuttavia, tra un brontolio e l’altro, alla fine porse ad Alice quanto richiesto. I pantaloni erano tanto larghi che arrivavano al seno della giovane. “E una cintura.”
La cinta non migliorò molto la situazione: i pantaloni continuarono a conferirle un aspetto ridicolo, tirati su così fino alle ascelle e con l’orlo rivoltato una, due, cinque volte perché non strusciasse a terra e non la facesse inciampare. Erano rimaste tracce di fango sulla stoffa.
Tagliare le trecce fu più semplice. Due colpi e caddero sul pavimento di pietra. Nel vedersi nel riflesso appena accennato della finestra, comprese quello che parenti e amici le avevano ripetuto spesso da bambina, di quanto fosse simile al fratello maggiore. Era identica a Feliciano. Stessi occhi ambra, stesso viso sottile, stessa corporatura femminea. Gli stessi ideali. La stessa propensione ad abbracciare il mondo, ad accoglierlo, ad aprirsi ad esso. Feli avrebbe saputo come farla sorridere, avrebbe battuto le mani con allegria, le avrebbe preparato un piatto di pasta fumante. E poi un altro, per sicurezza.
Per Alice la guerra doveva finire perché potesse tornare a casa; perché potesse gustare la cucina di Feliciano; perché potesse di nuovo parlare con Chiara, a viso aperto, con le mani esperte impegnate nel ricamo; perché potesse lasciarsi cullare dalle onde e ascoltare gli improperi di Lovino contro i granchi o il governo, non necessariamente in questo ordine. Starsene con le mani in mano non avrebbe aiutato a liberare l’Italia.
Pur sapendo che le suore avevano contatti con i partigiani, avvicinarsi a questi ultimi non fu immediato come ipotizzato all’inizio. Eppure ci riuscì. Il resto venne di conseguenza. Dopotutto, era come le aveva detto Ludwig: l’inazione non porta mai a nulla.
 
Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita.
(Antonio Gramsci)

Note: questa fan fiction non sarebbe dovuta esistere. O, almeno, non sarebbe dovuta comparire adesso. Invece, come è tipico, l’ispirazione si rende introvabile quando serve e compare quando non serve. E così, nel mentre di una OS RuPru, sempre inserita nel contesto di Cronache di una famiglia e che al momento non so come far finire, ecco che mi sono trovata a scrivere questa OS Gerita.
E’ una sorta di prequel a Serenella e ho cercato di essere il più coerente possibile (potrebbero tuttavia esservi delle contraddizioni nella narrazione che mi sono sfuggite. Vi prego di farmele notare, cercherò di trovare una soluzione). Inoltre vi consiglio di leggere anche Serenella per sapere cosa è successo dopo questa OS. Poi probabilmente mi detesterete per il crack (?) pairing là usato, ma questa è un’altra storia. Consiglio anche una sbirciata a “Come una ferita” (dove Ludwig fa da comparsa) e “Dice che era un bell’uomo e veniva dal mare”, perché è comunque l’inizio di tutta la serie.
Gestire Alice non è stato semplice. Ho deciso di non mettere l’avviso OOC, ma ciò non significa che io sia riuscita a mantenermi perfettamente IC. Questo perché le informazioni relative alle Nyotalia sono davvero poche.
Il titolo viene dalla canzone omonima di De Gregori.
Il linguaggio semplice e le ripetizioni sono volute.
Ultima nota: Alice e Ludwig riescono a comunicare, ma a fatica. Tuttavia ho ritenuto noioso ribadire ogni due per tre il concetto.
Enjoy!
   
 
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