Videogiochi > Kingdom Hearts
Segui la storia  |       
Autore: Hagne    04/06/2015    1 recensioni
"Non importa dove ci troviamo, i nostri cuori ci porteranno di nuovo insieme"
[ Aerith Gainsborough - Kingdom Hearts]
Genere: Avventura, Sentimentale, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Aerith, Organizzazione XIII, Riku, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Kingdom Hearts, Kingdom Hearts II
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo 11
“There’s gotta be another way out
I’ve been stuck in a cage with my doubt
I’ve tried forever getting out on my own.
But every time I do this my way
I get caught in the lies of the enemy
I lay my troubles down
I’m ready for you now”

[...]

“Bring me out
Come and find me in the dark now
Every day by myself I’m breaking down
I don’t wanna fight alone anymore

Bring me out
From the prison of my own pride
My God
I need a hope I can’t deny
In the end I’m realizing I was never meant to fight on my own”

[…]

“I don’t wanna be incomplete
I remember what you said to me
I don’t have to fight alone”

( On My Own – Ashes Remain)



Di cose difficili, nella sua vita, ce ne erano state molte, forse anche troppe se si prendeva in considerazione  la sua età come cintura su cui imporre le tacche.
Accettarsi. Fidarsi. Amarsi. Tante, e non tutte le aveva portate fino alla fine, ma ci stava lavorando, aveva deciso di lavorarci sù per  migliorarsi.
Cambiarsi d’abito, dunque, in comparazione a tutto ciò che aveva compiuto fino a quel momento, non avrebbe dovuto rappresentare una tale sfida o richiedere un tale dispendio di energie da parte sua, eppure, per quanto la cosa potesse risultare ridicola, Riku faticava a compiere un’azione semplice come quella.
Era incapace, inabile, quale che fosse l’aggettivo più appropriato a descrivere la sua inettitudine non lo sapeva, ma si trovava  comunque a essere completamente inerme di fronte ad una sfida che pareva più difficile di quelle che aveva affrontato in passato, ed erano state tante,  alcune, alle volte tanto complesse da aver richiesto più di un solo sforzo fisico, ma  la pila di abiti che fissava in silenzio da ore, con il cuore stretto in gola e le mani serrate lungo i fianchi sminuiva quasi ciò che aveva passato, tutto impallidiva di fronte ad un’azione che, quella volta, avrebbe richiesto troppo da parte sua.
Una sfida che gli avrebbe tolto più di quanto era disposto a cedere, eppure,  ogni qual volta la rabbia gonfiava i muscoli del suo braccio  distendendo i tendini nervosi dei polsi,  Riku arrivava quasi a sfiorare la stoffa con la punta delle dita  irrigidite dalla frustrazione prima di far  ricadere indietro la mano sotto il peso di un coraggio che tornava a mancargli ogni volta.
Codardo.
Riku lo masticò a labbra strette, gli occhi che guardavano con disprezzo  il sedicenne dallo sguardo impaurito e le labbra impallidite  riflesso nello specchio, un’immagine  che  sembrava prendersi gioco di lui, di quell’incapacità che ora risultava così ridicola se messa in confronto a ciò che aveva fatto, a ciò di cui ancora era capace.
Ma non era per vanità che Riku stentava a compiere una simile azione, perché, per quanto di bell'aspetto sapesse d'essere, nascondersi era sempre  stata una scelta ben più allettante e sicura del mostrarsi alla luce del sole.
Eppure, in quel momento gli pareva di starsi comportando come una tra le donne più sciocche e superficiali che si dibatteva su quale tonalità di rosa abbinare per mettere  in risalto il pallore delicato del proprio incarnato, ma lui non aveva nessun incarnato da mettere in mostra, nessuna vanità da soddisfare, solo la paura di un ragazzino che si rifiutava di tornare ad essere  ora che il suo fisico aveva preso le fattezze che gli erano proprie.
Quelle di un bambino.
Un gorgoglio di collera gli ruggì in petto, una violenta vibrazione di frustrazione che gli fendette il  viso strattonando in basso l’angolo della bocca che si trovò ad arricciare quando la consapevolezza di non essere altro che quello, agli occhi del mondo, ai suoi  occhi, lo fece ribollire di rabbia.
Di frustrazione.
Un bambino che si fingeva uomo. Ecco cosa vedeva in quello specchio. Cosa aveva sempre visto.
Come doveva sembrare agli occhi di Aerith.
Un bambino da aiutare, un adolescente da capire, ma non un uomo da amare.
Mai, un uomo da amare.
Come avrebbe potuto poi, se neanche lui amava ciò che vedeva. Come avrebbe potuto lei amare ciò che lui odiava?
Eppure, come Ansem, come l’ombra che si era abituato ad essere, avrebbe potuto avere la possibilità di essere visto da lei come un suo pari, come qualcuno al quale sentirsi attratta,  mentre ora, ora non gli rimaneva che guardare gli abiti ordinatamente riposti sul lavabo con  il viso mangiato dal dubbio e il cuore divorato dall’ansia.
Dall’incertezza.
Stupido. Si sentiva così stupido ad essere rimasto così a lungo a fissare quelli che chiunque avrebbe visto come abiti,  semplici e normali abiti, ma che per lui non lo erano, non lo sarebbero mai stati, non quando a spogliarsi non sarebbe stato solo il suo corpo, ma la sua anima.
Quell’anima stanca che con il suo nero pece avrebbe dato  troppo nell’occhio, facendolo sentire diverso.
Una macchia.
Non era stato che quello. Da sempre.
Una sbavatura che aveva penetrato la carta fino a corroderne la filigrana e fare marcire tutto ciò con cui era  entrato in contatto.
Una macchia,  una chiazza che passava inosservata nell’oscurità più nera alla quale era abituato.
Lì, lui non era diverso, non era strano, sbagliato, lì lui poteva persino diventarlo, oscurità, e persino trovare riparo, un  nascondiglio  in cui nessuno lo avrebbe giudicato, perché non ci sarebbe stato nessuno ad attenderlo, a compatirlo, lì.
Come biasimare dunque la sua reticenza ad abbandonare un simile angolo di pace, per quanto piccolo e scuro fosse?
Come mal giudicare la sua paura di abbandonarlo, quel timore viscerale per ciò che stava fuori, per chi, fuori da lì, avrebbe parlato, accusato, e odiato lui per quello che aveva fatto e che tuttora era disposto a fare?
Eppure, rannicchiarsi nelle ombre, bardarsi nella gobba del suo mantello non sarebbe servito a niente, perché ogni qual volta la possibilità si fosse ripresentata, ogni qual volta il bisogno di nascondersi, di tacere le sue colpe e con queste anche se stesso fosse tornato prepotente a spingerlo indietro,  ci sarebbe stato il ricordo di una promessa da mantenere a convincerlo a rimandare il riposo nelle ombre, ci sarebbe stato un pezzo di stoffa a rammentargli che lui, una via ancora ce l’aveva, che alla fine di tutto, qualcuno lo stava aspettando, fuori di lì.
Che non tutti lo avrebbero odiato.
Era stata un ricordo al quale aggrapparsi, quello, un ritornello da canticchiare quando il buio diveniva troppo soffocante e la solitudine troppo angosciante, così da ricordare a se stesso, quando l’oscurità si faceva troppo fitta e lui faticava a distinguere il suo stesso profilo, di guardare in basso e ritrovare nel fiocco rosa che non aveva mai avuto il coraggio di strappare dal suo braccio la sua ancora di salvezza.
La corda allacciata attorno alla vita che gli aveva sempre impedito di cadere troppo giù.
Prezioso. Non aveva mai avuto nulla di più prezioso in vita sua di quello.
Un fiocco rosa.
Ironico che una cosa così sciocca potesse risultare tanto importante, ma per lui lo era, importante e troppo amato da potersene separare, da poterlo scambiare per altra forza, lui che in fondo, aveva barattato tutto per un po’ di potere, sacrificando ogni volta un po’ di se stesso, pezzo dopo pezzo, persino il suo cuore per l’orgoglio, ma quello, quello non sarebbe mai riuscito a lasciarlo andare.
Lei, non sarebbe mai riuscita a lasciarla andare.
Amore.
Riku non aveva mai saputo se si potesse chiamare così quella stretta al petto che, con il passare degli anni,  non aveva fatto altro che rafforzarsi, arrivando ad avvolgersi attorno al suo busto fino ad  abbracciare il suo cuore e ricoprirlo di una patina traslucida e delicata capace, nonostante la sua impalpabile consistenza, di riparare ciò che racchiudeva e porre una barriera tra il suo cuore e ciò che minacciava di avvelenarlo, di strappargliene un altro pezzo.
Un  battito mancato.
Aerith era sempre stata questo per lui.
Quel respiro strozzato  in gola per l’emozione, l’incosciente dilatarsi delle pupille nel cogliere qualcosa di tanto bello da far male.
Amore.
Riku non sapeva cos’era, l’amore, ma se qualcuno glielo avesse domandato, e lui avesse dovuto dare una risposta sincera, allora, in quel caso, avrebbe detto che Aerith era l’amore.
Il suo.
Il sussulto al cuore che lo coglieva ogni qual volta la sua mente, il suo cuore e i suoi occhi si aggrappavano all’immagine di  quella donna dal sorriso gentile che anni fa l’aveva trovato agonizzante in un sudicio vicolo.
Non aveva mai avuto modo di paragonarlo a nient’altro, neanche negli anni di solitudine e isolamento, ma se non era amore quell’insensato bisogno di vederla sorridere, di sentirsi chiamare da lei, di essere anche solo guardato da quegli occhi verdi, allora, non sapeva cos’altro potesse essere.
Amore. Lo era, o forse no.
Un  amore non ricambiato. Taciuto. Fragile. E forse troppo immaturo, ma un amore per il quale Riku ora si preparava ad affrontare quell’ennesima sfida, quel salto nel buio per trovare ancora una volta alla fine del tunnel  il suo sorriso.
 E se per ritrovarlo doveva tornare ad  essere se stesso e smettere di sembrare qualcun altro, allora, per lei, per quel sorriso, lui l’avrebbe fatto.
Avrebbe fatto di tutto per farsi amare un po’ da Aerith.
Come se davvero ci fosse qualcosa da amare in lui  schioccò la voce tesa della sua coscienza, maligna e cruda come una frustata tra le scapole, ma un colpo che Riku incassò con una smorfia, tentando invano di non perdere la presa su quella corda rosa alla quale strenuamente tentava di rimanere aggrappato, ricordandosi che lei sembrava crederci davvero, che qualcosa di bello, qualcosa da amare ci fosse lì, da qualche parte, in lui, dove, non era suo desiderio scoprirlo, gli bastava sapere che lei ci credeva, che lei lo vedeva.
Perché Aerith non gli aveva  mentito, mai, neanche una  volta, neanche quando farlo sarebbe stato più semplice e meno doloroso che dire la verità.
Ma lei non lo aveva fatto.
Non aveva mai negato la sua oscurità, non aveva mai fatto finta di non vederla, ma l’aveva sempre abbracciata, e persino consolata, quando le tenebre dentro di lui stentavano a colmare il vuoto nel suo petto, nella sua anima.
Lei, quel fiocco, erano il cammino che aveva scelto per sè, il confine tra oscurità e luce sul quale si destreggiava  a rimanere in equilibrio.
Nel mezzo.
Era sempre stato così.
In mezzo ad ogni cosa.
In mezzo a Kairi e Sora.
In mezzo tra ciò che era giusto e ciò che era sbagliato, una posizione che lo aveva sempre angosciato assieme al peso delle sue scelte che alla fine si erano sempre rivelate sbagliate, ma un posto che era suo, che si era scelto lui, e nessun altro.
In mezzo come ora tornava ad essere, a metà tra il bambino al quale voleva smettere di assomigliare e l’uomo che agognava a diventare.
Per lei. Era sempre, per lei.
Lei che non aveva smesso di aspettarlo, di pensarlo, di accettarlo e che, Riku sapeva, con uno strano nodo alla gola,  lo avrebbe cercato,  trovato e trascinato per mano via dalle tenebre che lei avrebbe rischiarato con la luce del suo sorriso.
Lo avrebbe fatto.
 Lui lo sapeva, ne era certo, e di certezze Riku nella sua vita ne aveva avute davvero troppo poche per lasciarla andare, per non tenerla stretta a sé con forza fino a lasciare i segni, proprio come si trovò ad allacciare le dita attorno al fiocco che gli fasciava il polso per prendere coraggio.
Non lo aveva rivoluto indietro.
Riku aveva temuto, aveva atteso con angoscia che lei glielo chiedesse indietro, che lo privasse di qualcosa che gli ricordava lei, che gli dava l’impressione di avere una parte di Aerith, con sé, quando era lontano.
In fondo, era stato un prestito, il suo, un gesto di carità quasi, ma a dispetto di quello che aveva pensato, creduto  e temuto, Aerith non aveva chiesto niente indietro.
Non gli aveva chiesto qualcosa in cambio come invece aveva fatto il resto del mondo.
Ed era stato quando, preda di una realtà virtuale, si erano trovati ancora una volta sugli angoli opposti della barricata  che Riku aveva capito.
Lui.
Aerith, più che al suo ornamento, più che a quel fiocco, si era riferita a lui.
Si era sempre riferita a lui.
Al suo, di ritorno.
E si era sentito spaesato, confuso dall’inaspettato fiotto di calore che gli aveva riempito il cuore e la bocca di un sorriso che aveva poi ingoiato a quella scoperta, perché il solo pensiero che qualcuno potesse tenere così tanto a lui, che lei, potesse tenere così tanto a lui dopo tutto quel tempo, dopo tutto quel silenzio, lo aveva scosso, turbato, e fatto sorridere.
Sì, sorridere, a lui, che sorridere non piaceva.
Perché per un istante, per un solo, singolo istante, lui si era sentito felice, e quando Riku aveva pensato di non poterla amare di più di così, aveva  dovuto ricredersi ancora una volta quando, nel riaprire gli occhi, nell’abbandonare il buio sicuro dietro le sue palpebre, nel  tornare a vedere, aveva trovato tutto quello che gli serviva, che gli sarebbe servito per ripagarlo di ciò che aveva lasciato indietro, per ricordargli che ne era valsa la pena, alla fine, tornare.
E ne sarebbe valsa anche adesso, solo che quella volta avrebbe dovuto metter mano a tutto il coraggio che ancora gli rimaneva per scegliere chi essere.  
Una scelta difficile, combattuta, la sua, e forse persino sofferta, una scelta che forse non avrebbe neanche preso in considerazione, neanche per Sora, neanche per Kairi.
Nulla e nessuno sarebbe valso quel prezzo.
Nessuno, eppure, per lei ne valeva la pena, perché se fosse stato qualcun altro ad averlo privato di ciò che gli era familiare, a chiedergli di rinunciare all’oscurità, Riku se ne sarebbe risentito, ne avrebbe fatto una questione d’orgoglio,  ma per lei, e per il ricordo del tessuto grezzo della sua benda avvolto nei capelli di Aerith si decise a scegliere.
Ad essere.
Una benda per un fiocco.
Quello era stato lo scambio tra loro.
Qualcosa di vecchio per avere qualcosa di nuovo, di migliore, e Aerith aveva sempre avuto il potere di far sembrare il mondo migliore, di far sentire lui, migliore di quello che era in realtà.
Di come si sentiva.
Spogliarsi del suo mantello, scegliere,  nel suo caso prendeva quindi un significato più profondo, ben più angosciate di quello che sembrava.
Uno scambio che avrebbe  voluto dire spogliarsi di ciò che si era stato fino a quel momento,  privarsi di un ruolo che aveva ricoperto con fierezza e orgoglio,  perché era stato lui, a volerlo.
Era stato lui, per una volta, ad  essere scelto.
Ed anche se erano state le tenebre, a volerlo, qualcuno lo aveva comunque giudicato degno di poter essere preferito ad altri, di essere migliore ad altri, e Riku sapeva di esserlo sempre stato.
Migliore, a suo modo, di tutti.
Di Sora.
Degli altri bambini del villaggio.
Di chiunque altro.
Una presunzione che alla fine presunzione non era mai stata, non per lui, non per chi davvero avrebbe potuto fare grandi cose, se solo fosse stato lui, ad essere scelto come custode del Keyblade.
E c’erano state volte in cui aveva immaginato a come sarebbe stata la sua vita se fosse stato lui e non Sora, a diventare l’eroe dei mondi, se fosse toccato a lui il compito di salvare gli altri, di essere quel bambino speciale circondato da tutto quella meraviglia, da tutta quell’ammirazione, ma poi, poi quel se cominciava a sbiadire sotto la mano bianca che si tendeva verso di lui e pronunciava quattro lettere in un modo diverso da quello che il mondo era solito adottare.
Un nome facile da pronunciare, il suo, semplice  da ricordare, ma un nome che molti nel corso della sua vita avevano chiamato senza riuscire a ricevere da lui più di uno sguardo di traverso, diffidente, annoiato, un nome che era stato strillato, sibilato e mai, mai  semplicemente invocato, almeno fino a quando non era stata lei, a pronunciarlo, a chiamarlo.
E quando lo aveva fatto, quando Aerith aveva pronunciato il suo nome, lui aveva sorriso,  si era voltato,e  si era riempito il cuore e gli occhi  di quella gentilezza che aveva ingentilito anche il suo nome, il suo viso.
Il suo cuore.
Pareva quasi prendere un altro significato, sulle labbra di Aerith, quella parola così tanto abusata, una parola che risultava più una spigolosa successione di lettere dal taglio aguzzo, ma un sussurro che si ammorbidiva se pronunciato da quella voce che nella sua mente soffiò parole che, d'improvviso, nel ricordare quanto udito la notte prima,  gli riempirono  gli occhi d’orrore e la voce di sibili  che aveva dovuto soffocare contro le labbra mentre il suo cuore inciampava e rovinava in un oceano di oscurità, venendone inghiottito, divorato da denso, torbido liquido nero che aveva impastato la sua bocca in una sola domanda simile ad un ruggito.
Chi?
Chi aveva osato farle del male? Come si poteva trovare il coraggio di ferirla?
- …anche se sono stata braccata come un animale, anche se sono stata trattata come una cavia da laboratorio da dissezionare e accoppiare.
La porcellana del lavabo crepò sotto la pressione delle dita, i denti che penetravano con forza nella carne del labbro che si trovò  a mordere a sangue per non urlare la propria rabbia, per non dar voce al mostro che gorgogliava nel suo stomaco e chiedeva solo una cosa.
Un cuore.
Un cuore da strappare, rompere, spaccare e sbriciolare tra le sue dita fino ad arrivare a stringere solo polvere.
Semplice e appagante, lo sarebbe stato, ma troppo codardo per chiedere il nome di chi aveva provato a toglierle dal viso il sorriso, troppo confuso sul proprio ruolo nella vita di Aerith, su quale diritto potesse vantare per arrivare a tanto, tutto ciò che Riku poteva fare per lei  era proteggerla ora, quando poteva farlo, e alla luce del sole non avrebbe potuto.
Lì fuori, non avrebbe potuto, non se non avesse lasciato la presa su quel manto di tenebra che veleggiava alle sue spalle in attesa di tornare a coprire la sua vita e una realtà nella quale faticava a trovare il proprio posto come Riku, ma era arrivato il momento per lui di prendersi le sue colpe e gli sguardi di sbieco.
Era arrivato il momento di essere l’eroe di qualcuno, e aveva scelto di essere quello di Aerith.  
Un lungo, profondo respiro e un ultimo sguardo lanciato di sbieco allo specchio fu tutto ciò che Riku si concesse prima di sfilare il cappuccio  dal proprio capo con lentezza, quasi ad abituarsi al freddo che, filtrato dal collo oramai scoperto, scivolò lungo la schiena nuda che lo specchio rimandava assieme ad ogni sua mossa, aiutandolo a mantenere un contatto con ciò che stava per abbandonare, con ciò che stava per diventare.
Perché, mentre il fruscio degli abiti accompagnava il guizzo teso delle sue pupille, mentre il pavimento accoglieva quello che un tempo era stato, l’ombra che il buio ora avrebbe faticato a riconoscere con quelle tonalità accese a renderlo così diverso, così normale,  un nuovo viso sbucava dal collo della maglietta, e un uomo nuovo tornava a fissare il riflesso di un Riku che non era più Riku il traditore, Riku l’ombra, Riku il disperso.
Ma Riku.
Riku e basta.


°°°


Il senso di colpa era uno di quei noiosi e sgradevoli stati d’animo di cui Axel, in quanto Nessuno, non avrebbe mai dovuto subirne l’influenza.
Eppure, per quanto ostinatamente si sforzasse di non dar un nome e un significato  all’amarezza che gli comprimeva il petto scosso dall’affanno della corsa, il Nessuno sapeva con una sconcertante e altrettanto irritante certezza che il suo, era solo il tentativo di ignorare il disagio che faceva fremere d’orrore le pupille ogni qual volta sulle pareti di mattoni che gli sfrecciavano di fianco nella sua fuga disperata compariva un’ombra dalle fattezze femminili.
Un’ombra dalla quale istintivamente distoglieva lo sguardo per paura di incrociare il verde acceso di grandi iridi nelle quali, la sola possibilità di leggere la delusione e la consapevolezza di aver dato fiducia, una casa e forse, anche un futuro migliore di quello che spettava ad uno come lui, a qualcuno che non se lo meritava, lo atterriva.
Lo angosciava.
Anche se Axel sapeva, e aveva sempre saputo, quanto immeritevole fosse di fronte tutto ciò che Aerith gli aveva dato e che lui, in un battito di ciglia, aveva scrollato di dosso come un peso irritante.
Attenzione. Comprensione. Qualcuno con cui condividere i propri patimenti e nel quale trovare aiuto, un alleato.
Aveva sprecato la sua unica possibilità di non essere solo in quell’accanita lotta per la propria sopravvivenza, ma se da una parte il rimorso per aver tradito la fiducia di Aerith gli gonfiava la gola di un ringhio frustrato, dall’altra, il palmo sottile e sudato che sentiva ricambiare la presa nel dover superare una via meno riparata gli ricordava che fuggire e lasciarsi inghiottire dal nulla fosse nella loro natura.
Dopotutto, non erano che ombre.
Non c’era salvezza per quelli come  loro.
Non c’era possibilità di fermarsi, perché, se mai lo avessero fatto, se mai avessero permesso ai loro desideri di prendere il sopravvento sull’istinto di sopravvivenza, allora gli altri  li avrebbero trovati, puniti, ed infine, gettati in pasto all’oscurità più nera che di loro non avrebbe lasciato che un sussurro angosciato di chi non avrebbe mai più riuscito a trovare la pace.
Non c’era che morte, per quelli come loro, e se non quella, ci sarebbe stata una lenta e dolorosa agonia che prima o poi li avrebbe portati alla pazzia, perciò Axel correva.
Correva e nel mentre, malediva se stesso.
Malediva la sua essenza. La sua inadeguatezza. La sua impotenza. E infine, malediva Aerith. Sì. Anche lei.
Soprattutto, lei.
Lei che gli aveva ridato ciò di cui non aveva bisogno, ciò che aveva abbandonato da tempo. La speranza.
La speranza di poter cambiare, di potersi salvare, di potersi fermare, e persino, di poter avere un lieto fine come tutti gli altri.
Gli aveva concesso, semplicemente, la speranza di poter continuare a vivere, e Axel la odiava per quello, perché ora aveva trovato un motivo in più per soffrire per qualcosa che non poteva avere, qualcosa di cui poteva solo immaginare l'entità, la sostanza.
Aerith gli aveva donato un “se”.
Se avesse potuto seminare l’organizzazione senza dover continuare a fuggire e nascondersi.
Se avesse potuto trovare per sé e per Roxas un lembo di mondo nel quale poter vivere senza dover temere di svanire.
Se avesse potuto finalmente capire come sarebbe stato avere qualcuno che in sua assenza  avrebbe sentito la sua mancanza, chiamato il suo nome, regalato un sorriso.
Se, ma lui non sapeva che farsene, dei se.
Axel, non poteva permettersi di pensare ai se, alle possibilità, perché lui semplicemente non ne aveva, proprio come Roxas.
 Roxas che  aveva sentito gli occhi pungere di lacrime di delusione quando, nel cuore della notte, mentre Hollow Bastion dormiva e le risate al piano di sotto concedevano al suo spirito stanco uno strano senso di calore, di appartenenza, di famiglia, si era visto strattonare verso il bagno per arrampicarsi al davanzale della finestra e fuggire.
Dove. Neanche Axel lo sapeva. Ma lontano, il più lontano possibile dal prescelto che non sembrava capire quanto vicino e crudele fosse il nemico contro il quale credeva di poter vincere.
Perché non poteva. Nessuno avrebbe potuto.
- Ho trovato delle impronte qui!
L’urlo che volò sopra le loro teste giunse inaspettato e, Axel, notò con orrore, tremendamente vicino, troppo vicino per non convincerlo ad imboccare alla cieca una biforcazione e tirare a sé Roxas  per allontanarsi dalla ninja che assieme al soldato dello sguardo di ghiaccio e alla compagnia di eroi li stava cercando.
Prevedibile.
Axel sapeva che prima o poi si sarebbero accorti della loro assenza, ma aveva sperato che gli concedessero almeno un paio di ore di vantaggio prima di doversi sobbarcare in una corsa contro il tempo che ora li vedeva schiacciati contro un muro, con il fiato corto, e gli occhi sgranati dall’angoscia di essere scoperti e riportati indietro.
E forse, si ritrovò a pensare il Nessuno mentre riprendeva fiato e si permetteva di socchiudere gli occhi con il capo ripiegato all’indietro contro il freddo muro, questa volta l’uomo dallo sguardo di ghiaccio non sarebbe stato tanto permissivo nei loro confronti.
- Credi che se ne siano andati?
Con un verso d’insofferenza volto più alla situazione che al sussurro concitato di Roxas Axel si costrinse a schiudere le palpebre e fissare il compagno stretto tra le braccia con attenzione, stiracchiando un sorriso storto per smorzare la propria e la sua ansia mentre con una mano gli scompigliava affettuosamente i capelli.
Roxas.
Una luce morbida gli accarezzò lo sguardo quando la sua mente bisbigliò quel nome.
Era per lui che continuava a combattere.
Era per quello sguardo sperduto. Per quelle mani sottili e bisognose di aggrapparsi a qualcosa. Per quel sorriso che lentamente, come lo schiudersi dei petali di un timido fiore, sbocciò nel viso delicato che Axel sfiorò in una carezza prima di scostarsi dal muro e osservare con un sospiro l’ennesima biforcazione che li avrebbe condotti, con un po’ di fortuna, alla loro salvezza.
- Coraggio – lo incitò, avvolgendogli un braccio attorno alle braccia minute per sospingerlo verso destra – è meglio continuare prima che –
Fu un attimo.
Un lieve scricchiolio alle loro spalle, e la parola che Axel stava per sospirare si tramutò nel ringhio minaccioso con il quale accolse la venuta di uno dei loro inseguitori, i denti snudati in un ghigno sinistro e le braccia rigonfie di fiamme che nella loro languida discesa verso il terreno illuminarono lo stretto sentiero di mattoni e un paio di vecchi e consumati scarponi marroni che videro fermarsi assieme alla figura flessuosa appena uscita dall’ombra dell’arco.
- Bella serata, non trovate?
Il tono era stato fra i più affabili e leggeri, come quello di chi si trova a discorrere sulle bellezze del mondo con uno sconosciuto attorno al fuoco di un falò improvvisato nel deserto, e proprio come un girovago dall'animo curioso non ci furono ombre nello sguardo gentile  nel quale Axel aveva tanto temuto di cogliere la delusione e l’amarezza.
Ma non c'era niente, negli occhi di Aerith illuminati dal bagliore delle fiamme.
Nessun rammarico, disprezzo, avversione, rancore, solo, una morbidezza piena che ingentiliva l’aria e riscaldava il cuore.
- Così – continuò Aerith con l'aria di chi si trovava a discorrere con vecchi amici che non vedeva da tempo e non con due fuggitivi che avevano rifiuato il suo aiuto, fuggitivi  ancora troppo scossi dall'aria rilassata della donna per riuscire a ritrovare una qualsivoglia compostezza – volevate andar via senza neanche un saluto?
Abbassare la testa e mormorare un mortificato ‘scusa fu un gesto istintivo per Roxas, il primo fra i due Nessuno a reagire all’inaspettata ma piacevole apparizione, le spalle incurvate in una aperta dimostrazione di rimorso a cui Aerith rispose con una risata leggera, abbozzando un paio di passi in avanti per poter guardare da sotto le folte ciglia castane lo sguardo che per un attimo, solo un attimo, Axel seppe di essere stato sul punto di diventare lucido prima che un paio di battiti di ciglia ripulissero ogni traccia del sollievo che gli aveva stretto la gola.    
Ma, nonostante tutto, la bocca continuava ad essere impastata, la voce troppo tremante da poter fare uscire e il cuore troppo debole per potersi permettere altro all’infuori di quel fissare insistente che Axel sapeva, poteva risultare sgradevole, uno sguardo che si tinse di nuova ansia mentre il mento di Roxas scattava verso l’alto quando una voce maschile, livida di rabbia, si alzò nell’aria per chiamare la donna che in silenzio li fissava con un sorriso.
La donna dallo sguardo mite e dal sorriso leggero che, senza curarsi di quelle voci insistenti, fece scivolare i palmi morbidi e asciutti verso quelli sudati e gelidi delle due figure bardate di nero che gentilmente strinse a sè per tirarli verso sinistra, imboccando una strada che Axel aveva scartato e che, nel più completo silenzio, cominciarono a percorrere un po’ alla volta.
Lentamente.
Come se ci fosse tutto il tempo del mondo.
Ed anche se non ne avevano, anche se il pericolo di essere scoperti era ancora dietro l’angolo,  e le voci scoccavano come dardi sopra le loro teste, tutto ciò che Axel riusciva a pensare era che, ancora una volta, Aerith aveva scelto di aiutarlo a dispetto di tutto.
Di ciò che avrebbero potuto dire i suoi compagni.
Di come fossero loro nel torto.
Di come crudelmente avessero tradito la sua fiducia infrangendo la promessa di rimanere lì, con lei.
Perché?
La domanda premeva sulle sue labbra sigillate in una linea secca,  ma per quante volte tentasse di emettere un suono, dalla bocca di Axel usciva solo un verso rauco come se soffrisse di arsura.
Ma era solo commozione quella che gli grattava la gola e appesantiva lo sguardo, una riconoscenza che Roxas non riuscì a tenere nascosta, aggrappandosi con forza  alla mano fresca e con lo sguardo alla schiena sottile ad  un passo di distanza da loro.
Salda, sicura, e incrollabile come niente Axel e Roxas avessero mai visto nella loro vita.
E fu forse per quel senso di protezione, per quell’inaspettata consapevolezza di non dover temere nulla, con lei, che si lasciarono trascinare senza porre  domande su dove li stesse portando, perché, in cuor loro, Axel e Roxas conoscevano già la risposta.
Al sicuro.
Lo scricchiolio dei sassi sotto le suole e il flebile ululato del vento accompagnò la loro lenta avanzata per una manciata di minuti, minuti nei quali  le voci si erano fatti distanti, il buio un po’ meno soffocante, e la sensazione di libertà un po’ più a portata di mano.
Una libertà che Axel e Roxas ritrovarono in uno spiazzo del quale, per un attimo, la parte più pragmatica del Nessuno dai capelli rossi fu confusa, perchè non c'era mai stato un posto simile ad Hollow Bastion, e lui lo sapeva, lo ricordava, ma quella era una voce fin troppo flebile per poter infrangere l’improvvisa meraviglia di cui si colorarono gli occhi di Roxas quando le sue caviglie vennero sfiorate dagli steli di fiori.
Fiori che riempirono  lo sguardo di Axel di incanto quando il Nessuno tentò di abbracciare completamente quel luogo che pareva quasi irreale come un sogno ad occhi aperti.
- Attenti a non calpestare i fiori.
Axel ingoiò il grugnito e il commento al vetriolo che era stato sul punto di brontolare ma che cavallerescamente si ostinò a ingoiare, preferendo non farle notare piccatamente quanto irragionevole fosse la sua richiesta dal momento che ogni.dannato.centimetro quadrato era occupato da fiori, ma se Roxas poteva farlo, allora anche lui poteva.
 Con un grugnito incastrato in gola, sì, ma poteva farlo anche lui. Si, ce la poteva fare.
Ce la fece. E quando Aerith si decise a fronteggiarli con ancora quel sorriso leggero ad accarezzarle il volto, Axel strizzò gli occhi per impedire a se stesso di non mostrare il dispiacere che lo assalì nel sentire la presa allentarsi attorno alla sua mano, cosa che Roxas non riuscì a fare, incurvando le labbra e fissando insistentemente la donna che li scrutava tra le ciglia con aria distratta e una luce di aspettativa in fondo al verde acceso dell'iride.
- Che aspettate? Coraggio!
La sorpresa lampeggiò sui loro volti quando Aerith agitò d'improvviso la mano nell’aria con quell’incoraggiamento, un incoraggiamento che oltre a prenderli alla sprovvista,  entrambi faticarono a capire per una buona manciata di minuti, trincerandosi in un attonito mutismo dal quale faticarono a liberarsi.
La risata che d'improvviso vibrò nell’aria si tramutò in una nuova ondata di sorpresa per Axel che, seppur habitué delle stranezze di quella stramba donna, ebbe l'ennesima  dimostrazione di quanto bizzarra e sconclusionata  potesse  ancora essere Aerith.
- Oh avanti – li pungolò scherzosamente con il gomito la donna, agitando subito dopo le braccia in un ingarbugliamento di arti che tentavano di ritrarre qualcosa, cosa, ancora Axel, faticava a comprenderlo – è ora di fare quella cosa che fai sempre, il ‘puff.
- Puff ? – le fece eco Roxas con aria perplessa, sbattendo le palpebre con aria sconcentrata.
- Avete capito – tornò a ribadire la ragazza, poggiandosi una mano sul fianco e piegandosi leggermente in avanti per scutarli negli occhi  e bisbigliare alla stregua di un segreto una  confidenza che fece sgranare gli occhi di entrambi all'unisono – la barriera magica non arriva fin qui, potete smaterializzarvi. 
 Il corpo reagì ancor prima che il cervello potesse dare l’ordine, e quando Axel vide la propria mano sfumare in una nuvola di fumo si trovò a rialzare sul viso di Aerith uno sguardo sorpreso che ben presto si costrinse a distogliere quando una nuova assurda consapevolezza si fece strada in lui.
Li stava aiutando a fuggire.
Il sorriso sul viso di Aerith si ammorbidì assieme allo sguardo quando la donna colse il guizzo nervoso nella mascella di Axel e il lieve luccicore nello sguardo di Roxas, ma non vi era nulla di straordinario in quello che stava facendo, nulla di eccezionale.
Stava aiutando degli amici. Nulla di più.
Non stava facendo fuggire dei criminali.
Non stava tradendo la fiducia di Leon.
Non stava facendo nulla di sbagliato, solo, quello che sapeva, era giusto fare.
Aiutare.
Non poteva che fare quello, per loro.
Dargli un po’ di tempo in più per pensare a cosa volessero fare, a come desiderassero vivere.
Vivere.
Non sopravvivere.
Perché era quello che avrebbero fatto fintanto che la paura, l’angoscia e l’ansia non avessero permesso loro di puntare i piedi e capire che non erano soli, che non lo sarebbero mai stati.
Un pensiero che le carezzò la voce in un sussurro che, nel silenzio della notte e nel gelo della sera, ebbe l’effetto di una scarica violenta negli occhi che d’improvviso Axel e Roxas puntarono su di lei, sul suo sorriso leggero, sul suo sguardo comprensivo e sul quella figura minuta dall’aria fragile ma salda come una montagna.
Un appiglio al quale istintivamente gli arti di Roxas si allacciarono in una stretta goffa e disordinata mentre la spalla di Aerith  accoglieva il peso  della fronte che  Axel premette ad occhi chiusi mentre quelli di Aerith si incrinavano nel percepire un lieve tremore scuotere le membra stanche di quei corpi  magri e nervosi che ora sembravano così fragili contro il suo, come quelli di un bambino spaventato.
E solo.
Roxas schiuse le palpebre che aveva serrato per trattenere le lacrime quando sentì la mano di Aerith accarezzargli la testa un’ultima volta prima che Axel si scostasse un poco per incrociare lo sguardo verde e stringersi lui al fianco con un lieve cenno del capo a sancire la separazione.
Quanto lunga, non stava a loro deciderlo, e forse, non volevano neanche saperlo.
Eppure, c'era qualcosa che poteva ancora fare, una cosa in cui Axel aveva perso fiducia ma che, per una volta, dopo tanto di quel tempo passato a lasciarsi condurre dagli eventi,si decise di tornare a fare.
Di tornare a sperare.



°°°


Eroe.
Cosa significava davvero essere un eroe?
Cosa si doveva fare per diventarne uno?
Bastava davvero solo salvare qualche vita per esserlo?
No. Riku chiarì il proprio dubbio con una convinzione e fermezza tale da far sembrare la risposta data a se stesso il  frutto di un profondo rancore nutrito verso il soggetto del quesito.
Ma non lo era.
La sua era, in realtà, una semplice constatazione, una presa di coscienza che difficilmente avrebbe potuto mutare.
Perché  il modo in cui la gente lo fissava non sarebbe mai cambiato, neanche, se avesse cominciato a fare l’eroe, neanche se avesse deciso di seguire le orme di Sora.
Sora che quando passava, calamitava su di sé sguardi bonari, grati e alle volte, persino ammirati, mentre a lui, a lui toccava la diffidenza, la paura e persino il sospetto.
Riku mantenne l’espressione granitica e impassibile quando sentì gli occhi dell’anziana vecchia che aveva appena sorriso a Sora gravitare su di lui, uno sguardo scrutatore al quale oramai si era abituato, avvezzo com’era a ricevere ben più che smorfie perplesse e guardinghe, ma l’anziana lo studiava con una tale meticolosità da fargli credere che forse, quella vecchia non era poi così svampita come appariva.
E ne ebbe la conferma quando la vide aggrottare le sopracciglia in un cipiglio serio mentre una frase a cui non diede voce ma forza con lo sguardo arrivò fino a lui come una scudisciata in mezzo alle scapole.
Sbagliato.
L’accusa di una vita.
Quanto sciocco era stato a pensare di aver lasciato l’ombra delle sue colpe in quel piccolo bagno profumato di fiori, quanto ingenuo e patetico si era scoperto a tornare, ora che era adulto, ora che avrebbe dovuto essere più forte, più duro, più insensibile a ciò che di lui veniva detto, ma la decisione era stata presa, la maschera era stata tolta e la volontà di non sembrare ma di essere lo portò a ignorare la donna e guardare Sora scambiare ancora qualche parola con Leon prima di partire.
Partire.
Riku non aveva voluto che quello.
Partire. Lontano. Scoprire mondi nuovi. Visitare luoghi sconosciuti.
Era tutto a portata di mano ora, non più il sogno di un bambino sognatore, non più il desiderio mai del tutto esaudito di un ragazzino deluso, ma la reale e concreta possibilità che tuttavia Riku aveva rifiutato.
Ironico.
La sua vita non faceva che tingersi di ironia ogni volta.
Poco tempo prima avrebbe dato di tutto per accompagnare Sora nei suoi viaggi, salvare mondi, diventare un eroe, mentre invece, ora, tutto ciò che voleva era rimanere fermo in un posto.
Era cambiato tutto.
Lui. Il suo modo di pensare. I suoi motivi per combattere, ed ora, anche il suo desiderio più grande.
Scoprire. Sì, ma non più un mondo, non più un posto lontano, ma una persona.
- Sei sicuro di non voler venire con me ?
La domanda giunse all’udito di Riku come un sussurro lontano, perso com’era in pensieri che avevano fatto nascere involontariamente sul suo viso un’espressione concentrata, ma quando i suoi occhi si focalizzarono sull’aria dubbiosa di Sora e non più su un’immagine che inconsciamente si era messo a cercare nei ricordi, Riku si trovò a dare un cenno di conferma all’amico di una vita.
Un cenno sicuro come forse mai le sue decisioni erano state, e Sora, che conosceva la sua ostinazione nel raggiungimento di quanto prefissato, non potè che incurvare le spalle con aria sconfitta prima di sentire la mano salda di Riku stringergli la spalla mentre un sorriso a labbra strette si apriva sul viso pallido del ragazzo.
- Ci rivedremo presto.
Tanto bastò a Sora per tornare a sorridere, ed anche in quello, Riku, trovò un motivo in più per sottolineare  la differenza  tra lui e Sora.
Tra l’eroe e l’anti-eroe.
Ma andava bene così, se lo ripetè mentre il viso sorridente del suo migliore amico svaniva in un cono di luce, se lo ricordò quando lo sguardo livido di Leon si puntò su di lui con la violenza di uno sparo quando il motivo della sua presenza lì venne meno.
- Stai andando da lei?
Non ci fu bisogno di specificare a chi fosse riferito quel lei ringhiato tra i denti, lo strascico di una rabbia che il soldato non sembrava aver ancora digerito, non dopo  ciò che Aerith aveva fatto la notte scorsa.
Quando, dopo l’infruttuosa caccia ai fuggitivi si erano ritrovati tutti nel laboratorio di Merlino per ragionare su una nuova modalità di ricerca e Aerith, da poco rientrata dal suo giro di perlustrazione, aveva confessato candidamente di aver lasciato andare Axel e Roxas, la rabbia di Leon non aveva fatto in tempo a manifestarsi in tutta la sua devastante violenza che il ‘non erano prigionieri di Aerith  aveva arginato il fiume di parole e la rabbia che l’uomo aveva ingoiato di fronte allo sguardo saldo della donna.
Occhi verdi capaci di tramortirti con la forza di quello sguardo di vetro verde, una forza contro la quale Leon aveva dovuto cedere, rinfoderando le domande e le maledizioni e trincerandosi dietro un mutismo che, a detta di Aerith, sarebbe venuto non appena avesse sbollito la rabbia.
Una rabbia che Leon non si faceva però problemi a sfogare su di lui ma che Riku faceva cozzare contro il proprio gelido disinteresse, proprio come si decise a fare anche in quel momento, ignorando l’aperto scontro che il soldato cercava per andare dalla donna per cui aveva deciso di restare.
Non fu difficile trovarla.
Yuffie lo aveva già informato sui posti in cui Aerith amava soffermarsi a pensare.
E sebbene la ninja gli avesse dato modo, con quell’informazione, di sfoltire le numerose possibilità, Riku aveva avuto lo strano istinto di cercare per primo il posto nella conca, lì dove Merlino gli aveva confessato che la sua allieva amava passare del tempo con Axel.
Bastò il solo pensiero di quel nome a far nascere sul viso di Riku una smorfia mentre i suoi occhi mettevano a fuoco la  schiena di Aerith in lontananza e un ricordo richiamava alla mente l’irritante voce del Nessuno che lo aveva  disturbato durante la sua lotta interiore nel bagno della casa.
- Ehi fiore di luna, il bagno serve anche agli altri sai? Hai finito di metterti il rossetto o ti serve altro tempo per farti le unghie?
Quando la porta si aprì, lo fece con uno schianto secco che fece sobbalzare Roxas ma non lui, non  l’uomo dalla chioma color fiamma che Riku si trovò a fissare in cagnesco mentre Axel, quasi estraneo all’aria tesa che cominciava a frizionare tra loro, si trovava ad allargare un sorriso scaltro ed ad aggirarlo per sistemarsi i capelli con noncuranza guardando attraverso lo specchio, tra una sistemata ed un sorriso scanzonato gli abiti che sembravano finalmente dare un’età a quel ragazzino impertinente prima  che Riku, accortosi  di quel fastidioso e inopportuno scrutamento, lo fulminasse con lo sguardo.
- Problemi?  – soffiò malevolo il Nessuno, una mano corsa a lisciare con accuratezza il collo della giacca che Aerith aveva ripescato da uno dei bauli di quel vecchio strambo dal cappello a punta per dare a lui e Roxas qualcosa da indossare.
Un verso di insofferenza fu tutto quello che Riku gli concesse prima di voltarsi ad osservare il Nessuno di Sora e rifilargli una spallata per la quale Roxas si trovò a strizzare gli occhi prima che Axel  lo fulminasse con un’occhiata cattiva.
- Vedi di tenere il tuo amico lontano da Roxas e da me se non vuoi che si faccia male– nella sua voce Riku captò una scia di  rancore fin troppo violento per non farlo reagire, per non farlo ruggire.
- Sarai tu quello a farsi male, invece, se non smetti di mostrarti così ingrato. – lo riprese con un sibilo.
- Ingrato? – ringhiò il Nessuno, ruotando il busto per mettere a fuoco il profilo affilato del ragazzo dai capelli di argento –   Io? E per quale motivo sarei un ingrato?
Riku fece forza sul suo buon senso per non metter mano alle armi, le labbra agitate da un ringhio che si costrinse a rigettare in fondo alla gola assieme a parole che avrebbero acceso la miccia di una tensione che faticava a ignorare.
- Perché  hai ancora una voce per parlare.
Credere davvero di non stracciare il filo sul quale entrambi si erano trovati a fare i trampolieri era stato sciocco, era stato inutile, ma quando i loro corpi si tesero come archi pronti a scoccare frecce avvelenate ci fu un muro a franare loro in mezzo, una barriera umana che Roxas rappresentò nello scivolare di fianco al compagno, afferrandogli l’avambraccio e frapponendosi tra loro con sguardo serio.
- Levati di mezzo – gli ringhiò contro Riku in un eccesso d’ira, la mano libera dall'arma corsa ad afferrare il polso che il Nessuno di Sora gli lasciò prendere, ma solo per averlo tanto vicino da poterlo guardare negli occhi e fargli leggere l’irreprensibilità del suo gesto, l’irremovibilità del suo cuore.
- Aerith non ne sarebbe felice se venisse a sapere quello che stavate per fare.
Axel lo liberò dalla presa ferrea di Riku con uno scrollo nervoso del braccio, scortando il compagno sul primo gradino  sul quale lui si fermò mentre Roxas lo precedeva nella discesa delle scale e Riku rimaneva indietro, lo sguardo proiettato in avanti ma la mente rimasta indietro, in quel bagno stretto dal grazioso lavabo rosa dal quale si decise a distogliere lo sguardo poco prima calato nuovamente quando lo udì parlare.
- Non esistono solo gli eroi in questo mondo, tu per primo sai che dall’altra parte della barricata ci sono persone di cui non importa a nessuno – lo sentì sussurrare come se avesse paura di alzare la voce, di rendere altri coscienti della sua presenza – e sai che quando la morte tocca chi si trova dall’altro lato questa  conta poco più di una goccia d’acqua gettata in un oceano, per questo non devo niente, né a te, né al vostro salvatore dei mondi. Se anche noi morissimo, se svanissimo  da un momento all’altro voi non ve ne rendereste neanche conto, non ve ne accorgereste.
Perché non siamo eroi, non siamo indispensabili, non siamo i protagonisti, siamo solo delle ombre di passaggio, e nessuno piangerebbe per delle ombre.
E fu su quell’ultima parola, su quella più breve ed intensa emissione di fiato che Riku si voltò per incrociare gli occhi che in silenzio lo fissavano, ricordandogli  una cosa che lui sembrava dimenticare troppo spesso.
- E perché non è stato lui, a salvarci.
L’asse scricchiolò rumorosamente prima che il Nessuno svanisse oltre il primo scalino, una scia di vento freddo che spirava d’improvviso, ecco cosa sarebbero stati loro, cosa sarebbe stato lui.
Una brezza di passaggio, un tocco che sarebbe durato un battito di ciglia, troppo poco per venire ricordato, visto come più di quello che era.
Un viso, un nome, un’ombra che con il tempo sarebbe sbiadita fino a scomparire.
Perché lui non era l’eroe, lui non sarebbe divenuto qualcuno di cui il mondo avrebbe sentito la mancanza, ma sarebbe rimasto un ragazzo sperduto in un mondo di tenebre che lo aveva inghiottito, che lo aveva mangiato fino a non lasciare nulla se non ossa e il sentore della paura.
Un mondo dal quale Riku, nel discendere le scale e nell’incrociare a metà di queste lo sguardo sollevato del custode del Keyblade, si ricordò di non essere stato salvato da Sora.
Quando Riku riaprì gli occhi socchiusi per meglio focalizzare il ricordo ciò che trovò di fronte lo portò ad aggrottare le sopracciglia con una nota di confusione quando Aerith entrò completamente nel suo campo visivo.
Gli stava di profilo, con la lunga treccia abbandonata in grembo alla cui fine il ragazzo riconobbe con un certo imbarazzo la propria benda, ma dal modo in cui teneva le palpebre leggermente socchiuse e il viso reclinato di lato non pareva essersi accorta di lui.
Bizzarro, ma la sua attuale distrazione gli diede modo di scrutare un po’ più approfonditamente la donna che gli stava davanti con un’aria che per un attimo gli parve malinconica, e triste.
Riku non capì perché la sua mente scelse proprio quell’aggettivo, ma c’era qualcosa di profondamente triste nel profilo di Aerith, come se vi fosse un velo a dividerla dal mondo che in quel momento non sembrava vedere.
Era una persona misteriosa, Aerith.
E avventata, alle volte.
Quello Riku lo aveva pensato fin da bambino, dal modo curioso e quasi ingenuo con il quale la donna  approcciasse  gli sconosciuti,  dal suo modo innocente di sorridere a chiunque, persino a lui.
 All’inizio  aveva scambiato l’impavido comportamento della giovane come ingenua curiosità, benevole ignoranza, ma Aerith sembrava capire più di quanto desse a vedere.
Era solo una sensazione quella di Riku, ma qualcosa gli diceva che il più delle volte, quando Axel o Leon provavano ad attirarne l’attenzione, lei stesse ascoltando altre persone oltre a loro, quasi ci fossero altre creature con le quali dialogare.
Persino in quel momento Aerith  sembrava ascoltare pazientemente il racconto di un fantasma, perché non c’era nulla davanti a lei, nulla se non un una conca di terra e sabbia e il vento a soffiarle nei capelli.
E il vento non parlava. Non in quel mondo. E non con gli esseri umani.
Fu dunque per  istinto più che per un vero e proprio desiderio di farsi notare che Riku la chiamò, così da strapparle dal viso quell’espressione malinconica e non sentirla così distante, così lontana da lui.
Troppo lontana per poterlo sopportare.
- Aerith ?
Un piccolo sussulto scosse il profilo immobile della fioraia a quel richiamo, e per un attimo Riku si maledì per averla spaventata, ma quando, sbattendo un paio di volte le palpebre come a riprendersi da un sogno, Aerith si voltò a guardarlo con un velo di sorpresa ad accenderle lo sguardo, il ragazzo scacciò il rammarico per sorriderle a labbra strette.
- Ho deciso di rimanere.
La sua era stata una constatazione alquanto sciocca, come se Aerith non potesse vederlo lo rimproverò la propria coscienza, come se non lo avesse intuito dalla sua presenza lì, e per un attimo Riku si trovò a maledire se stesso e quella goffagine che lo assaliva proprio di fronte a lei, ridicolizzandolo,  lei che però si limitò a sorridergli conciliante e con quella che intuì e in cuor suo sperò essere sollievo, prima di tornare a rimirare il cielo con le mani unite abbandonate in grembo.
- Scusami se non ti ho risposto prima, una vecchia abitudine – la sentì sussurrare sofficemente tra sè e sè,  picchiettando la  mano sul posto vacante accanto al suo che Riku guardò incerto prima di osservare il suo profilo e decidersi con un sospiro a sederle di fianco.
Rimasero in silenzio per quelle che gli parvero ore, ma quello fu un silenzio che a Riku trasmise quiete e pace, tanto che si trovò a sua volta a chiudere gli occhi e ascoltare il vento come Aerith, nella speranza, magari, di capirla un po’ di più e svelare il mistero che si celava dietro quello sguardo che, qualche volta, si colorava di tristezza.
Strano come il solo respirare potesse trasmettergli una simile tranquillità, a quanto calmante  fosse inspirare, espirare.
Dentro. Fuori.
Dentro. Fuori.
- Riku?
Sentirsi chiamare per nome fu più destabilizzante di quanto mai avesse creduto, e fu per puro orgoglio che Riku non si voltò a guardarla, costringendosi a tenere le palpebre chiuse per impedirsi di mostrare l’evidente sgranarsi delle  pupille che gli avrebbe dato le sembianze di un bambino spaventato, e lui, lui non voleva essere più un bambino.
- Hmm.
La sentì sorridere.
Un pensiero bizzarro il suo, perché il sorriso non faceva rumore, eppure, anche a palpebre chiuse, Riku potè  giurare di aver sentito un sorriso increspare le labbra di Aerith che, a sua insaputa, stava ammirando il profilo tagliente  del suo viso che con il rosso accesso del tramonto  come sfondo sembrava capace di fendere il cielo.
- Sono contenta che tu sia rimasto.
Un tremore nelle dita.
Riku riuscì a catalizzare la sorpresa, l’emozione e il turbamento in quel semplice e all’apparenza naturale reazione al freddo della sera mentre sentiva levitare su di sé lo sguardo di Aerith, penetrante e probabilmente bellissimo con le luci delle prime stelle a illuminarle il viso, ma quello se lo tenne per sè, aspettando di sentirla muoversi per tornare a guardare in alto il cielo che da bambino lui aveva fissato con meraviglia chiedendosi se fosse lo stesso in ogni parte del mondo.
Un cielo che i suoi occhi sbirciarono da sotto le ciglia grigie, trovando la risposta a quella vecchia e sciocca domanda rivolta al vuoto nel silenzio della sua stanza.
Perché quello, quello era il cielo più bello che avesse mai visto, ma anche quello, se lo tenne per sé, tornando a chiudere le palpebre e a tacere assieme al breve luccicore negli occhi quell’anche io che il sole morente portò via con sé assieme al suo sospiro di sollievo.



Continua…

In ritardo, tremendo ritardo, ma l’ispirazione è una bestia rara che poche volte, se si è fortunati, si riesce ad imbrigliare e la mia nell’ultimo periodo mi ha rifuggito come la peste.
Ringrazio chi ancora, nonostante la lunga pausa tra un capitolo e l’altro, continua ad interessarsi e a leggere la storia.
Dedico questo capitolo alla gentilissima Kelloggs Snowflakes che ringrazio con un inchino per il commento e per i complimenti, davvero, grazie infinite.  
Un saluto,
Hagne
 
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Kingdom Hearts / Vai alla pagina dell'autore: Hagne