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Autore: Alfred il sanguinario    05/06/2015    1 recensioni
Scotswood, periferia londinese, estate del 1968.
Quest'area povera e violenta si macchia dell'ennesimo crimine. Ma non è un crimine come tutti gli altri, non è il classico omicidio per droga, non è la prostituta morta che ormai ai poliziotti del luogo sa di routine.
La vittima è solo un bambino di quattro anni, Matthew, che non può avere nessuna colpa.
Allora perché ucciderlo?
Quando anche un secondo bambino viene profanato come il precedente, i poliziotti cominciano ad interessarsi al 'mostro dello Scotswood'.
Ma è Patrick a narrarlo, all'epoca dodicenne. Non è un investigatore, non è un prodigio, ma suo malgrado si ritrova coinvolto in questa triste storia.
Chi è l'assassino? Ma soprattutto, chi è il vero mostro in un posto dove i valori non esistono?
Genere: Dark, Mistero, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Rimanemmo per diversi e interminabili attimi attoniti, a fissarci vicendevolmente con sgomento.
Riconoscemmo quasi subito quel bambino. I riccioli biondi, la pelle diafana, gli occhi azzurri, in quel momento fissi nel vuoto e glaciali.
“E’ il figlio di June Fynch, la moglie del tabaccaio!” mi disse Martha.
Non le risposi.
Prese a camminare nervosamente intorno alla panchina, trattenendo con difficoltà la voglia di urlare, di correre. Forse tutto quell’entusiasmo incontenibile era dovuto anche alla cocaina appena consumata. Non ci pensai.
Non pensai a niente, in realtà.
Martha tirò fuori un’altra sigaretta, impugnandola con la mano tremante, la accese fremente e se la ficcò in bocca, inalando tutto il fumo che poteva.
Sembrò calmarsi.
Con quella poca lucidità apparentemente acquisita mi disse: “Dobbiamo fare qualcosa!”
Annuii.
Guardai il cielo. Vedevo delle nere e minacciose nubi temporalesche che incombevano minacciose. Avevamo poco tempo per avvisare i Fynch.
Corremmo a perdifiato dal tabaccaio, che distava poche miglia. Il cielo cominciava a farsi grigio e scuro.
Non appena giungemmo davanti al tabacchino, Martha mi precedette e si fiondò nell’angusto antro odorante di fumo che era il negozio del signor Fynch.
Lo trovammo in piedi, dietro al bancone, rinchiuso dentro una canottiera sudata di due o tre taglie più piccole della sua notevole massa corporea.
“Hai già finito le sigarette?” scherzò lui, non appena la vide entrare, sudata e ansimante.
Martha contorse il viso in un nervoso sorriso.
“Mike” dissi io “c’è un bambino steso una panchina… ci sembra tuo figlio Tom, sai dov’è?”
Il suo sorriso si spense immediatamente, lasciando spazio ad un viso vagamente preoccupato. Come se avesse già il peggiore dei presentimenti.
Lo conducemmo alla panchina. L’afa persisteva, ma si mescolava all’umidità del temporale imminente, creando una strana sensazione sulla pelle, che da allora ho sempre associato a questo macabro avvenimento.
Giunto lì, riconobbe immediatamente il figlio. Si gettò su di lui, in preda ad un primordiale istinto paterno, tentando di risvegliarlo.
Quando cominciarono le grida e le lacrime, accorsero altre persone. Io e Martha ci defilammo.
Sgomitando senza dare troppo nell’occhio, corremmo via.
Prese a piovere. Dapprima si trattava di goccioline di pioggia quasi impercettibili, ma in poco tempo si tramuto in una pioggia torrenziale.
Ci rifugiammo dentro una vecchia fabbrica abbandonata, in attesa che il temporale cessasse, o quantomeno si attenuasse.
Non spiccicammo una parola. Le nostre menti brulicavano di informazioni diverse, i nostri sguardi colmi di incredulità e immotivata stanchezza.
Osservavamo la pioggia che cadeva, la grandine che si mescolava ad essa, ticchettando ritmicamente.
“Credi che sia morto?” mi chiese.
“Non sarebbe il primo.” Risposi. Le nostre voci rimbombavano lungo le spoglie pareti della squallida struttura.
Mi osservò con i suoi occhi corvini, sembravano inumiditi da lacrime.
Nei giorni successivi Scotswood vide solo cieli sereni. Le temperature si alzarono ulteriormente, le giornate si fecero sempre più afose, sino a diventare insopportabili.
Per le strade c’era un’atmosfera surreale.
Cominciarono a girare strane voci, che mi venivano riferite da altri ragazzi del luogo. Si diceva che i signori Fynch arrogavano la colpa dell’omicidio allo spacciatore più importante della zona, Tyler Smith.
Io non mi feci un’idea precisa.
Tre giorni dopo era una mattina qualunque. Stavo in piedi appoggiato ad un muretto, quando mi si avvicinò un’undicenne del luogo, Mary, la figlia di una prostituta. Aveva un caschetto di capelli rossi, il viso diafano punteggiato da qualche lentiggine sulle guance e gli occhi azzurri.
“Oggi pomeriggio ci vediamo dalla scuola. C’è anche Martha.” Mi disse.
Sollevò la giacchetta di pelle mostrandomi una bomboletta spray colorata e sorrise.
“Okay. Ci vediamo là.” Le risposi, impassibile.
Poi mi si avvicinò, e, quasi bisbigliando, aggiunse: “Comunque forse so chi ha ucciso Tom.”
Poi se ne andò, senza proferire altre parole.
Rimasi fisso a guardarla allontanarsi. 



 
  
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