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Autore: velvetmouth    07/06/2015    1 recensioni
Primi del Novecento, Emilia Romagna. Le vicende di due giovani nati nel medesimo giorno si intrecciano inevitabilmente: Bianca Catellani, figlia di un ricco proprietario terriero e Orso Grossi, figlio di contadini che lavorano le sue terre. Vicende storiche, personali, in un affresco dell'Italia del periodo che spero di essere riuscita a trasporre fedelmente e in modo coinvolgente.
Genere: Drammatico, Generale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento, Guerre mondiali
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La città  aveva sempre rappresentato un mistero per quelli come lui; uno di quei misteri affascinanti proprio perchè se ne aveva la piena coscienza del pericolo, il gusto ricco e eccitante del proibito.
Quando ci si recava percepiva addosso la pesante sensazione di sentirsi fuori luogo
, un estraneo in quel mondo di luci ed ombre dove nulla è come appare. Eppure, proprio come le emozioni più eccitanti e ambivalenti, Fernando non poteva fare a meno di immaginarsi camminare tra i viali acciottolati, bere un amaro nel caffè degli Artisti in piazza del Duomo, discorrendo di libri che non avrebbe mai letto, di donne che non avrebbe mai avuto.
Lo affascinava la vita scandita dai ritmi della città: nessun cigolare di catene all'alba, nè sudore acre sulla pelle fino a sera, ne' l'indolenzimento doloroso provocato dalla fatica.
Ma dopotutto quelli erano solamente sogni e l'unico piacere che avesse era quello di poter contemplare il profilo evanescente e fumoso della città, lontana, quasi un miraggio tra la nebbia della Bassa.
Quando era poco più che un bambino era solito venir innalzato al ruolo di mascotte dai cugini e parenti più grandi che, appena era loro consentito, fuggivano in città nella spasmodica ricerca dei suoi piaceri.
Era un susseguirsi di taverne, bettole e osterie di infimo ordine; le serate scandite dalle risse, gli insulti, le bravate in mezzo alla strada e ovviamente le visite ai bordelli. C'erano giovani che risparmiavano da mesi per poter usufruire del servizio che offrivano le case del piacere, malamente celate in vecchi palazzi scalcinati. La mercanzia che vi era esposta all'interno poteva assecondare i gusti di tutti: magre, in carne, bionde o brune, innocenti o sensuali fanciulle che per poche lire soddisfavano ogni desiderio maschile (tranne i baci, quelli erano esclusi).
Fernando ricordava con una vena di agrodolce quelle visite alla casa della Siora Flora, tappa affezionata e ormai inevitabile di ogni viaggio in città.
La signora Flora era una donna che aveva passato i sessanta, con lo sguardo furbesco e le labbra costantemente pitturate di rosso. Quando lui e i suoi cugini entravano dalla porta d'ingresso, anonima e scheggiata come tutte le altre, lei gli andava incontro stampandogli sulla fronte un grosso bacio scarlatto. Così marchiato Fernandino prendeva posto su una poltrona sfondata, unico mobilio del minuscolo ingresso male illuminato, mentre i ragazzi più grandi oltrepassavano un corridoio strettissimo, per poi ritrovarsi nella stanza della scelta. In linea di massima c'erano sempre le solite ragazze, apparte qualche raro caso in cui una nuova prendeva il posto di una qualche d'un altra che era riuscita a maritarsi o a trovare fortuna in qualche altro paese.
Suo cugino Maurizio sceglieva sempre una ragazza minuta, dai tratti gentili e innocenti, con grandi occhi azzurri e il nasino delicato all'insù, ne era probabilmente innamorato perchè, quando lei se ne andò dal bordello per sposare un carabiniere, lui pianse ogni giorno e non volle mai più tornare in quel posto.
Mentre i ragazzi si davano da fare con le loro rispettive scelte, Fernando se ne stava comodamente seduto, le scarpe che nemmeno gli toccavano terra e almeno una o due ragazze in pausa attorno. Lo coccolavano come fosse un figlio o un fratellino più piccolo, gli accarezzavano i capelli e gli davano da mangiare un sacco di cioccolata.
Una volta arrivarono persino a scommettere su quale di loro avrebbe preso la sua verginità, una volta che fosse cresciuto. Fernando le osservava come fossero creature extraterrene, che vivevano in quel mondo parallelo, dove la realtà sembrava non tangerle minimamente, quasi come se le loro esistenze iniziassero e terminassero nello spazio di quelle due stanze, come se, una volta oltrepassata la soglia non esistessero più, come in un sogno.
Dal canto suo Fernando aveva preso una grossa cotta per Gilda, una straordinaria bellezza meridionale con la pelle liscia e scura, gli occhi penetranti e il sorriso sensuale. Si ripromise che un giorno l'avrebbe avuta, ma lei smise di lavorare proprio quando lui aveva racimolato abbastanza denaro per poterle far visita. Fu anche per questo che nella sua mente di adolescente la bella Gilda dai capelli corvini rimase per sempre una fantasia con cui, ogni tanto, gli piaceva stuzzicare la sua mente.
Era probabilmente in quel preciso momento che Fernando capì cosa volesse dire provare qualcosa per una donna e fu senza dubbio in quella stanza che sperimentò le prime imbarazzanti e acerbe erezioni.

Ma la visita di quel giorno, come ebbe modo di scoprire più tardi Fernando, non era una visita di piacere.
Iniziava a pentirsi di aver accettato l'invito insistente di Labriola, vestito e improfumato di tutto punto nel suo abito migliore, quello della domenica, i baffetti lisciati e i capelli impomatati.
- Dì, Labriola, che siam venuti a fare in città?-
Gli camminava davanti, nervosamente, con un fare circospetto che a Fernando sembrò solo buffo e... Ancora più sospetto.
Il piccoletto lo zittì con un cenno della mano, per poi continuare a camminare, calpestando la strada acciottolata sotto i portici, che correvano attorno a tutto il centro storico.
Fernando osservava la gente che gli passava accanto, i vestiti che indossavano, il loro modo di parlare, gli atteggiamenti e i gesti; le cose che vedeva erano per lui quasi sempre una novità. Persino le foglie staccate dagli alberi sembravan diverse da quelle che c'erano in campagna, l'acqua doveva avere un sapore diverso e anche l'aria, la stessa aria che respirava gli sembrava in qualche modo unica, speciale.
Non era difficile star dietro al passo di Vittorio Grossi, detto Labriola, anche perchè Fernando aveva due gambe che forse eran più del doppio di quelle del cugino, ma iniziava a spazientirsi di quella marcia forzata diretti chissà dove.
Non gli piaceva non sapere cosa stesse facendo e dove stesse andando. Rimanere all'oscuro lo faceva stare a disagio.
Camminarono ancora un po', illuminati dal fioco chiarore del tramonto. Il cielo aveva preso un colore sanguigno, quasi di presagio e Ferdinando non riusciva a stare tranquillo. I suoi piedi enormi continuavano a pestare il suolo passo dopo passo verso una direzione a lui ignota.
Labriola col suo passo nervoso procedeva di gran carriera, di tanto in tanto continuando ad osservarsi attorno circospetto.
Stanco di tutto quel trottare, senza nemmeno una spiegazione, Ferdinando colmò la distanza con un balzo e agguantò per il colletto il cugino.
- Che accidenti fai, eh?-
Strillò quello, la voce acuta e strozzata di chi ha i nervi a fior di pelle.
- Stammi ben a sentire... Io mi son rotto di correrti dietro per mezza città, intesi? Ora tu me disi dove si sta andando o te faso passar la voglia di zampettare...-
Con una mano che teneva il colletto della camicia, sollevò l'altra proprio davanti al viso di Labriola, pugno serrato. Lo sentì deglutire con gli occhi sbarrati e la bocca semi aperta.
Fu lesto nell'alzare le mani, i palmi ben visibili.
- Ehi, Fernandin mica scherzerai? Sta calmo devi fidarti di me!-
Il sudore gli scendeva ancor più copioso dalla fronte, se possibile. No, Fernando non avrebbe mai menato le mani contro un parente, a patto che non fosse stato necessario, però confidava sempre nel terrore che incutevano la sua stazza e quelle mani, simili a pale, che si ritrovava.
Decise di mollare la presa, riservando al cugino uno sguardo truce come per dire ''Se non arrivi subito al succo, vedrai che questo pugno lo assaggi''.
Vittorio gli sorrise tirato, assicurando il cugino che stavano quasi per arrivare. Fernando sbuffò, sentendo aria di politica, di discussioni e di argomenti a lui totalmente oscuri.
Aveva acconsentito ad accompagnarlo in città perchè anche se ormai un abituè, il cugino rappresentava comunque una categoria di uomo che tutti consideravano un debole, almeno nell'ambiente di campagna.
Era smilzo, bassino e aveva l'aria nervosa e schiva, sempre sul punto di scattare come una molla. Aveva sempre preferito i libri al lavoro manuale, ma quello che aveva imparato lo aveva fatto da solo; non erano certo signori che potevano permettersi un maestro o addirittura una scuola. Più che per un moto d'animo suo personale, Fernando aveva voluto quietare le ansie della zia, madre di Vittorio, ogni volta in apprensione sulle visite del figlio in città.
Una sorta di guardia del corpo, insomma. Le paure della donna non erano del tutto irragionevoli. Il fermento delle riunioni socialiste e comuniste stava iniziando a preoccupare seriamente le forze dell'ordine, nonchè quei proprietari terrieri a cui le sommosse e l'ideologica Rivoluzione (ormai tutt'altro che utopistica) miravano.
Non era raro che le manifestazioni organizzate pubblicamente o in luoghi debitamente nascosti finissero in malo modo.
Ma Labriola, da piccolo così preso in giro e maltrattato per la sua codardia, sembrava aver trovato uno slancio di coraggio indomabile. Non c'era comizio che si perdesse o riunione a cui evitasse di partecipare. Era diventata una missione vitale, un obiettivo primario.
Fernando non capiva appieno i motivi che spingessero a questo cambiamento, ma a volte si fermava a riflettere su quanto un'idea potesse cambiare la natura umana, su quanto quel fervore politico sembrava impossessarsi della mente e delle membra di coloro che ci credevano fermamente.
Sbuffò di nuovo, il rumore delle suole delle loro scarpe sul selciato.
Oltrepassarono il ponte sul fiume, per poi addentrarsi in un labirinto di viuzze strette, dentro le quali Labriola sembrava orientarsi agile e veloce come un topolino. C'era una puzza incredibile e una sensazione di oppressione che non aveva mai provato in aperta campagna.
Svoltarono un angolo, ritrovandosi in una piazza chiusa da alti muri che la costeggiavano. Sembrava più un cortiletto interno o una corte a dire il vero. Nemmeno una luce che rendesse chiari i loro movimenti, ma questo sembrò non importare a Labriola che camminava sicuro come se fosse pieno giorno.
Dalla parte opposta dalla quale erano giunti, se ne stava un gruppo di 5 o 6 persone, totalmente immerse nell'ombra e le cui sagome erano appena visibili.
Al rumore di passi si voltarono tutti a guardarli.
Non aveva propriamente paura, ma un grosso nodo iniziò a stringere la gola di Fernando. Non avrebbe avuto problemi a riempirli di botte, anche così nella semi oscurità, se le cose si fossero messe male, ma avrebbe comunque preferito che non ci fosse bisogno. Avvicinandosi ulteriormente notò che erano tutti vestiti in maniera elegante, con giacca di panno e scarpe pulite. Molti indossavano un cappello e quasi tutti portavano i baffi lunghi, come Labriola.
- Te sei degnato di venir, allora...-
Una voce parlò, ma non apparteneva a quelli che se ne stavano in semicerchio.
Sia Fernando che Vittorio si voltarono. Alla loro sinistra avanzava un tipo magro, con le spalle larghe e la mascella ben pronunciata, sebbene in armonia col resto del volto spigoloso.
Un uomo accanto a lui, più tarchiato, portava un lume, così che almeno mezza figura fosse visibile.
Fernando corrugò la fronte, interrogativo.
Per tutta risposta l'uomo sorrise, un sorriso furbesco e aperto, che sembrava appartenere a chi conosce i segreti dell'universo e non è poi così propenso a svelarli.
Arrivò a pochi metri da loro, per poi fermarsi ad osservarli di nuovo, con quel sorriso che non accennava a scomparire.
Fernando si fece ancor più vicino a Labriola.
- E questo chi s'è, lo conosci?-
Gli chiese, senza temere di essere sentito dall'altro.
- Semmai dovrei chiederti chi sei tu...-
Ribattè il tipo con un tono saccente di superiorità, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni.
Un altro sguardo interrogativo di Fernando, che iniziava a spazientirsi per quella situazione paradossale. Odiava i giochi di parole e le situazioni che si protraevano all'infinito come brodo annacquato.
- S'è mio cugino, un tipo apposto, si può star tranquilli!-
Labriola aveva parlato, la voce più flebile di uno squittìo da topolino.
- Questo lo decido io...-
L'uomo sorrise di nuovo, un angolo della bocca leggermente sollevato. Fernando sentiva bollire il sangue, ma cercò di mantenere la calma. Poi, l'uomo si accostò alla parete, spostò quella che sembrava una cassa per consegne da fattorino, scoprendo un passaggio nella muratura. Fece segno ai due di entrare, poi, sempre con l'uomo con il lume dietro di sè, li seguì.

All'Olga non era mai importato delle visite di Fernando in città.
Gli uomini lo facevano, tutti. E non era una novità. E poi lei si fidava del suo uomo, anche se l'idea che visitasse quelle case non le andava giù del tutto, ma comunque... Lo facevano tutti.
Era un modo per evadere dalle fatiche quotidiane, dai figli, le mogli, la dura vita del contadino.
Lui le assicurava ogni volta che tutto quello che faceva era stordirsi in qualche taverna e che non visitava ''quei posti'' da quando l'aveva conosciuta.
Lei si limitava a sollevare le spalle, mimando un'ostinata indifferenza che, apparte un leggero velo di fastidio e gelosia, era autentica.
Fernando la amava, anzi... Amare sarebbe troppo poco per definire ciò che quell'uomo grande e grosso provava per la sua donna. Non aveva occhi che per lei, quando la osservava dormiente accanto a se', ancora stentava a credere di possederla.
Ma la sua non era una possessione animalesca, no, lui la desiderava e la rispettava, spaziando quasi nell'idolatria, ma senza stucchevolezze. Olga lo amava, di rimando, proprio per questo. Il suo gigante buono non era il suo padrone, ne' il suo zerbino... Era il compagno ideale di una donna forte, cocciuta e tremendamente attraente. Una donna che in mezzo a quelle campagne stonava come un fiore esotico tra anonime piante di campo. Una donna che teneva testa ad un uomo un po' fumino, ma dal cuore grande come un bue e che era riuscita a cambiarlo in meglio, già con la sua sola presenza.
Olga era arrivata nelle terre dei Catellani con una manciata di parenti, gran parte cugini e zii, sola e orfana, i genitori spazzati via dal colera appena un anno addietro. Aveva 14 anni, i capelli lunghi corvini le arrivavano fino a metà schiena, aveva un paio d'occhi come tizzoni, vigili, scuri come pozzi e tristi, tremendamente tristi. Ma dentro a quelle due voragini ardenti, fiammeggiava uno sguardo fiero, forte... Non era una ragazzina come tutte le altre.
Era schiva, ma tremendamente ostinata.
I ragazzi ne erano attratti, ma era un'attrazione spaventosa, potente e inquietante... Quella creatura era difficile, impossibile da avvicinare. Se gli uomini la guardavano con desiderio, le donne ne avevano timore.
D'estate, quando era tempo di mietitura e il caldo sembrava serpeggiare e pulsare nei campi, Olga sembrava una visione: una dea bellissima e madida di sudore, la pelle cotta sotto i raggi che splendeva di rugiada salata. Tirava su il vestito, scoprendo le gambe magre e toniche, il muscolo che pulsava ad ogni passo. Era impossibile non ammirarla, era come se rilucesse di un'aura tutta sua. Era una creatura unica, magnetica e pericolosa.
Molti avevano cercato di avvicinarla, senza alcun successo. Lei si limitava a sorridere di veleno, prendendoli in giro con la sua acuta intelligenza, rideva di loro e dei loro approcci, non lasciava avvicinarsi.
Sarebbe stato riduttivo  ritenere che quel suo comportamento scostante, da selvaggia fosse dovuto unicamente alla perdita dei genitori, all'essersi trovata spiantata in un luogo nuovo, abbandonata dagli affetti più cari, e i giovanotti insistenti preferivano credere che si comportasse in quel modo proprio per questa serie di motivi.
Col passare del tempo e collezionati una serie infinita di insuccessi, l'Olga venne lasciata da parte e additata come una puledra impazzita, una con non tutte le rotelle al posto giusto, una pazza imprevedibile insomma.
C'era stato un ragazzo, qualche mese dopo il suo arrivo al podere, che si era messo in testa di volerla sposare.
Era un bel toso: alto, muscoloso, con una gran massa di capelli di pece e, come tanti altri, era caduto nella rete fascinosa di quella bellezza sfuggente.
Tutti avevano cercato di metterlo in guardia sulla malìa distruttiva dell'Olga, ma Pietro non si era lasciato abbattere e insistente come quando caricava sacchi e sacchi di granaglie, aveva cominciato a corteggiare la giovane.
Le ronzava intorno giorno e notte, si offriva di aiutarla quando la vedeva in difficoltà, le faceva regali (per quanto potesse), insomma... Le tentò tutte.
Ma lei niente. Rimaneva algida e austera, apparte qualche sorriso cattivo, qualche sguardo di fuoco, che il poveretto nella sua cieca ostinazione, scambiava per segni di cedimento.
La situazione durò per parecchio tempo, fin quando, ormai accecato dalla passione, il ragazzo non tentò di baciarla. Il giorno dopo, nei campi, tra le risate e gli sghignazzi degli altri, Pietro portava sul collo quattro profondi segni purpurei, ancora pulsanti di sangue. Era finita lì ed anche quell'occasione non fece altro che accrescere la ''fama'' dell'Olga.
Le contadine sputavano quando la vedevano, sussurrando insulti a bassa voce. Eran tutte calunnie, perchè si sa, l'invidia corrode dentro e il rimedio più efficace si rivela essere l'infamia.
Olga dal canto suo non ci faceva caso, le bastava lavorare (e in questo era instancabile, a dispetto del suo aspetto che rimaneva unico e raro quanto il suo carattere), avere un tetto sopra la testa e sostentamento per vivere.
Fu durante una calda sera di fine estate, che il destino di quella puledra indomabile subì un' inaspettata svolta.
La terra sprigionava ancora tutto il bollore che l'aveva ingravidata durante il giorno. Ogni cosa pareva immobile, sospesa nell'afa incredibile che si sprigionava da ogni cosa, eppure, la vita era lì a ricordare propotentemente della propria presenza.
Le cicale frinivano senza sosta, sprigionando nell'aria una nenia monocorde, che intorpidiva le membra. Il disco incendiato del sole scompariva sempre più dietro l'orizzonte piatto e liscio della Pianura; le lucciole si accendevano a intermittenza giocando a nascondino con i bambini, che correvano scalzi per l'aia.
Era uno degli ultimi giorni di mietitura, poi i campi, mutilati dai loro steli dorati, sarebbero stati fatti riposare fino alla prossima semina; gli uomini e le donne, stracchi di lavoro e di fatica, se ne stavano in cerchio, bevendo, parlando e amandosi.
Una musica allegra e corale sferzava l'aria: erano canti popolari emiliani, caldi e a tratti malinconici.
Era un momento magico, di stallo... Come se per un attimo il duro lavoro dei campi potesse essere dimenticato, la mente immersa soltanto in quel canto cadenzato, la musica avvolgente e ritmata, la gioia nel cuore.
I più giovani ballavano attorno ai musicisti improvvisati, cercando quel casto contatto fisico che li univa in un saltarello indemoniato. Il tutto ovviamente sotto gli occhi scrutatori dei padri.
Dal canto suo Olga se ne stava sul bordo della finestra più alta della cascina, dove si trovava una sorta di enorme mansarda, nella quale venivano ammassati vecchi attrezzi e ogni genere di strumento contadino.
Era il suo posto, la sua piccola evasione quotidiana. Amava passare il tempo là sopra, osservare dalla grande finestra aperta la città in lontananza, rimanere sola con i suoi pensieri.
Ed era così anche quella sera. Nulla importava se più in basso tutti si stessero divertendo, ballando, bevendo fino a tarda notte. Le sembrava che quella gioia fosse esagerata, esasperata e fasulla... Come potevano zampettare, ridere a squarciagola, fino a farsi venire gli occhi lucidi, quando a pochi metri campeggiava la pesante inferriata con i cigolanti lucchetti che scintillavano ai primi raggi di luna. Dopotutto erano in trappola, come animali. Un circo coloratissimo e ingabbiato.
Non riusciva a non pensarci, certo, non odiava la sua condizione perchè se non avesse avuto quella possibilità, dopo la morte dei genitori sarebbe sicuramente finita peggio; ma d'altro canto non si sentiva nemmeno in grado di poter dimenticare che eran tutti una proprietà, così come lo erano le bestie chiuse nelle stalle, i campi, nè più nè meno del legno tarlato su cui stava seduta.
Strizzò gli occhi, rimanendo sdraiata e reggendosi il mento con i palmi delle mani. C'era un fuoco scoppiettante, poco lontano al divertimento generale. Le lingue di fuoco cercavano di raggiungere il nero profondo della notte, senza riuscirci, ma il gioco di luci ed ombre che avviluppavano le figure in movimento era meraviglioso. Olga osservava i suoi coetanei ballare, saltare, ridere alla luna, mentre la musica si faceva sempre più forsennata ed esagitata.
Non sentiva l'esigenza di scendere dabbasso e partecipare a quella danza scalmanata, le bastava osservare la felicità altrui, forse perchè non si sentiva del tutto partecipe o forse perchè le piaceva convincersi di questo.
I suoi occhi si fermarono su ognuna di quelle facce, colorate d'arancio per via del fuoco. C'erano una fila di ragazze sedute, che ciarlavano e chiocciavano a voce alta; tra loro c'era anche Lina, una ragazza bruttina e scialba che la odiava dal primo momento in cui aveva varcato il cancello. Non aveva mai voluto sapere il motivo, non le interessava, ma in fondo sapeva che non sarebbe mai stata benvoluta in quel posto, come non lo era mai stata da nessuna parte. Le sembrava di allontanarsi ogni giorno di più dalla realtà, di sentirsi sempre più scollata dal resto del mondo. Si sentiva diversa, era diversa, ma non ne soffriva, solo era abbastanza intelligente da rendersene conto. Non era orgoglio il suo, ma semplicemente riconosceva di essere migliore di tutta quella gente, sotto certi versi, speciale. Poteva essere un bene, come no.
Sapeva già che se fosse scesa una quantità indescrivibile di quegli uomini avrebbero tentato di ballare con lei, di fare due passi nel buio, appena poco lontano dal fuoco. Non le interessava neanche questo, ma col tempo sapeva che avrebbero smesso. Già molti voltavano la faccia quando incontravano il suo sguardo. Molti di quelli che avevano provato a conquistarla adesso erano sposati, con qualche figlio, con un ripiego per moglie. E loro lo sapevano bene, per questo il tacito odio che serpeggiava era ancora più velenoso.
Olga osservava di nuovo le stelle, la musica stavolta un po' più mesta e delicata. I ragazzi si tenevano stretti, muovendosi lentamente di fianco, i padri che non staccavano di dosso gli occhi dalle loro figlie ancora nubili.
L'aria era ancora pesante, sapeva di polvere e solleone, entrava nelle narici di prepotenza e non voleva uscire.
Chiuse gli occhi e sorrise, felice di quel momento di pace.
Mentre se ne stava ancora con le palpebre abbassate, sentì lo scricchiolare delle scale.
Si voltò di scatto, cercando di abituare gli occhi al buio pesto. Non vedeva la fine dello stanzone, aver guardato troppo fisso il fuoco l'aveva resa cieca.
- C'è qualcuno?-
Chiese, rimanendo in posizione prona, il volto girato.
Scrollò le spalle, tornando a osservare in basso e a dondolare i piedi, tirati su a mezz'aria, a tempo di musica.
Percepì dei passi dietro le spalle, stavolta si girò completamente, portandosi a sedere.
C'era qualcuno veramente.
Non avrebbe avuto paura di solito, era impossibile avere più di un attimo di solitudine in un posto dove le persone erano ammassate molto più di quanto lo spazio potesse permettere. Ma sentiva che c'era qualcosa di diverso: l'aria era diventata elettrica e pesante, non era ancora venuto il momento di avere paura, ma si sentiva a disagio.
- Chi s'è là??-
Chiese di nuovo, stavolta mettendosi in piedi.
Ancora passi e poi, il fascio di luce della finestra illuminò un paio di piedi scalzi e dei calzoni sdruciti.
A torso nudo di fronte a lei c'era Carlo.
Era un Grossi, la famiglia che lavorava per i Catellani da sempre, generazioni e generazioni di contadini instancabili e dalle spalle larghe. Lo chiamavano Carletto, anche se di piccolo non aveva niente, a partire da quel naso tuberoso e sproporzionato che gli campeggiava in una faccia larga e cotta dal sole.
L'Olga non si sentì del tutto tranquilla, anche se con Carlo non aveva mai avuto niente a che fare. Era un personaggio come altri, un colosso che serviva bene da bestia da soma con poca materia cerebrale.
Dire che lo disprezzava era esagerato, ma di certo non voleva averci niente a che fare.
- Carlo, m'hai spaventato...-
Gli disse, senza però concedere alla voce quel brivido che sentiva alla bocca dello stomaco.
- Che se fai qui, tutta sola?-
Chiese lui, la bocca come un grosso taglio lasciato lì per errore. Il tono di voce in cui aveva parlato era basso e grave, poco più di un sussurro vibrante.
- Fatti miei, no te sono certo tuoi...-
Ribattè lei, voltandogli le spalle e rimettendosi seduta.
- Vedo che 'sto caratterino non ge te sei decisa ancora a domarlo, ne?-
Il sibilo che gli era uscito dalla bocca era cattivo.
Olga si voltò di nuovo e scoprì sulla faccia, di solito inespressiva e tonta come quella di un bue, una linea brutta e inspiegabile.
- Son fatti miei anche quelli...-
Fece per alzarsi, ma Carlo le si parò davanti, a poche spanne dal corpo. Il respiro le si mozzò per un attimo, ma si riprese subito.
Svirgolò verso destra, agile, ma non abbastanza, perchè lui la agguantò per un braccio, facendole male.
- Ma lassameeee! Che diavolo vuoi da me?-
Gli urlò, incattivita, con le sopracciglia che si toccavano e la bocca distorta in una smorfia di sorpresa e dolore.
Non voleva essere toccata da nessuno, voleva solamente andare via da lì. Avrebbe pure ballato, forse, ma adesso voleva andare via; non voleva quella manona stretta attorno al suo polso sottile, non voleva sentire il peso di quel corpo gravoso sopra il suo, quel fiato alcolico che le premeva contro l'orecchio.
Lui la tenne ferma, approfittando della differenza di stazza, lei si divincolò, scalciando.
- Ora te fazo veder quello che voglio fare...-
Il ghigno di Carlo non era umano. Lo aveva visto qualche volta sulla faccia dei bambini quando torturano gli animaletti, come le ranocchie vicino al rigagnolo che passava dentro la proprietà. Era pura cattiveria e anche piacere. Adesso aveva paura.
- Lasame! Brutto stronzo!-
Cercò di morderlo, ma quello che gli lasciò sulla spalla non gli aveva fatto effetto più che un pizzico di zanzara.
- Te convien star ferma, brutta puttana!-
Una delle grosse mani gli teneva ferme entrambe le mani, mentre l'altra percorreva tutto il suo corpo, appena coperto da un vestito fino. Lo sentì strappare con un gesto, lasciandola nuda ed esposta.
Non voleva piangere, ma più scalciava, più si sentiva spossata e senza speranza. Gli assestò un calcio allo stinco, ma finì per farsi più male lei che altro.
Cercò di urlare, ma la musica era alta e nessuno avrebbe sentito.
Carlo intanto cercava di baciarla, con quella pelle ruvida e la lingua che le percorreva tutto il viso. Olga si scansava, dimenava senza sosta, ma lui era più forte.
Sentì la sua mano che la cercava in mezzo alle gambe, con insistenza. Cercò di stringersi, svincolarsi come poteva, ma sentiva che non aveva più forza di stare in piedi, tutti i muscoli in tensione e le lacrime che iniziavano a rigarle le guance; le inzuppavano i capelli nerissimi come quella notte.
La musica gioiosa era così dolorosa da sentire adesso che il pianto le aveva annebbiato gli occhi e il cervello. Non aveva più forze, si accasciò come una marionetta usata e sentì lui che si calava sopra di lei, i pantaloni abbassati fino alle caviglie.
Chiuse gli occhi, con forza, mordendosi a sangue la lingua. Ma non successe nulla. Aveva paura di aprire gli occhi e rivedere quegli occhi iniettati. Rimase con le mani sulla faccia per quello che le sembrò un'eternità prima di riaprirli.
Sentì uno schiocco potente, quasi come un colpo di pistola. Poi lo vide.
Carlo era accasciato a qualche metro da lei, si teneva tra le mani quel nasone tritato come carne macinata. Perdeva sangue come un fiume e si lamentava, mugulando come le bestie al macello.
Non si era accorta di tremare fino a quando non aveva visto l'altra figura, nell'ombra, grossa quasi quanto Carlo.
Indietreggiò verso la parete quasi senza accorgersene.
- Te convien scender subito...-
La voce era tagliente, non lasciava molto spazio al dubbio.
Carlo, le mani ancora piene di sangue si tirò su i calzoni alla bell'e meglio e sparì nell'oscurità, facendo le scale di corsa e facendo ondeggiare e scricchiolare tutto il legno.
- Chi-Chi sei?-
Olga non sapeva come riuscire a parlare, le parole le erano uscite così, come se il corpo non fosse suo e lei stesse guardando tutto da sopra la luna.
Quello non parlò, si limitò ad avanzare verso la luce bianca.
La musica non era terminata, anzi, si faceva sempre più incalzante e tutti sembravano divertirsi un mondo.
Il viso che le si parò davanti era quello di Fernando Grossi. Carlo era uno dei suoi cugini.
Olga rimase a guardarlo negli occhi e lui fece lo stesso, ma per poco, perchè poi lo abbassò.
Era bello, Olga lo sapeva, ma che fosse anche buono non ne aveva la riprova. Di certo l'aveva aiutata e di questo poteva esserle solo che riconoscente.
Lo vide avvicinarsi, ma stavolta non indietreggiò. Rimase semplicemente ferma, non provò neppure a coprirsi dal suo sguardo, perchè lui non la stava guardando con malizia.
Lo vide sbottonarsi la camicia che portava, gliela mise sulle spalle e non parlò. Anche lui doveva sapere quello che dicevano su di lei.
Ormai erano due anni che viveva lì eppure Fernando era uno dei pochi che non aveva cercato di avvicinarla. Le sembrava un tipo solitario anche lui, a modo suo.
Non parlò mai, neppure quando fece per andarsene e lei si tirò su di scatto, cercando il suo polso.
Fernando si era girato di scatto, tra il sorpreso e l'interrogativo.
- Puoi restare se ti va...-
Gli disse l'Olga, rimettendosi a sedere di fronte al finestrone. Se ne stettero l'uno vicino all'altro, le gambe nude di lei che sfioravano quelle di lui, inconsapevoli del fatto che quella luna li stava facendo innamorare.
  
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