Anime & Manga > Rossana/Kodocha
Ricorda la storia  |      
Autore: yesterday    10/06/2015    10 recensioni
La tradizione giapponese vuole che ogni persona, fin dalla nascita, porti al mignolo della mano sinistra un invisibile filo rosso, indistruttibile, che la lega alla sua anima gemella. Per quanto impossibile le due estremità si ricongiungeranno sempre ed i due saranno destinati ad incontrarsi. In qualsiasi universo o condizione.
Prendi una bellissima storia, stravolgila quanto basta. Come unica costante l'inevitabilità di un incontro, quel filo rosso...
Non saprei, chi corre sotto la pioggia scappa da qualcosa o insegue qualcuno. Ed io ho visto che eri solo.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akito Hayama/Heric, Sana Kurata/Rossana Smith | Coppie: Sana/Akito
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
'Cause when you're looking you'll never find
All that you're looking for will find you blind


Il tempo di un caffè


Forse era per il modo in cui spostava i capelli di lato. O quando li portava raccolti ordinatamente in una coda alta che le scopriva la nuca... Forse perché gli sembravano così morbidi che a volte gli prudevano le mani dall'irrefrenabile voglia di passarci le dita. Perciò serrava i pugni sotto al tavolo e scostava lo sguardo, spostandolo oltre la vetrata, verso la strada.
Forse, invece, era per il modo in cui rideva. Sollevava gli angoli della bocca e il viso si illuminava di una striscia di denti bianchissimi. Sorrideva spesso, un sorriso appena accennato, un grazie ad un cliente, una battuta con una collega. Il sorriso raggiungeva sempre i suoi occhi e contagiava chi le stava attorno. Come un sole in mezzo a tutto quel grigiore.
Probabilmente erano i suoi occhi. Sì, se ne convinse la prima volta che lei li posò su di lui il giorno in cui la trovò al bancone per pagare il suo caffè. Due gemme incastonate nel viso. Uno sguardo limpido, pulito.
Era il quindici Aprile. Akito se lo ricordava bene, il primo giorno in cui lei lo guardò negli occhi. Uno sguardo, un sorriso di cortesia, ma non di quelli finti: in lei non c'era nulla di artefatto.
Per la prima volta dopo molti anni Akito riconobbe la sottile differenza tra guardare e vedere. Quegli occhi non lo guardavano di sfuggita, superficialmente. Lo vedevano, lo vedevano per davvero, quasi lo sondassero in profondità, fino al midollo osseo.
Sono 350 YEN per il tuo caffè, con lo sforzo di una semplice frase era riuscita ad incatenarlo a sé. Senza nemmeno saperlo.
Magari sarà stata la sua voce... Quasi infantile a tratti, leggera, spontanea. Gli piaceva il suono della sua voce. Era intonata, metteva buonumore. E lui era uno che ne aveva disperato bisogno, nella sua vita.
Leggerezza, felicità... Erano cose che di solito scappavano nella direzione opposta alla sua.
La prima volta che era entrato in quel bar, un comunissimo ed anonimissimo locale sulla strada verso l'università, alle otto e trenta di una mattina disastrosamente uguale alle altre, la prima volta che l'aveva vista muoversi dietro quel bancone - saranno stati i capelli, sì, o forse la risata... Ma no, ma no, sicuramente gli occhi - la sensazione era stata quella di un pugno sulla bocca dello stomaco. In senso buono, s'intende, un gran bel pugno sullo stomaco. Di quelli forti, ben assestati.
All'uscita, il suo americano pagato e dieci minuti di ritardo accumulati che lo avrebbero costretto ad una corsa, l'ennesima, di nuovo sentiva quello sguardo perforargli la schiena.
Passò tutta la giornata con quella strana sensazione addosso, che proprio non riusciva a scrollarsi di torno. A lezione, mentre pranzava, di ritorno a casa coi suoi compagni di università, mentre si allenava, durante ogni singolo momento una parte del suo cervello ripeteva in loop il momento in cui aveva incrociato quello sguardo, la sensazione quasi di elettricità che aveva avvertito sottopelle. Sotto il getto freddo della doccia, quella sera, Akito arrivò ad una conclusione che lo lasciò senza scampo e senza fiato: lei aveva posato gli occhi su di lui e, come un lattante, era rimasto lì, inerme, vittima di quell'occhiata. Quindici secondi e mai si era sentito tanto nudo di fronte a qualcuno.
Scosse la testa, una bella dormita gli avrebbe fatto ridimensionare le cose.
La mattina successiva, come se niente fosse, era stato attirato ancora lì dentro... Non era riuscito a resistere all'attrazione di quella calamita.
Un caffè americano.
Da portar via?
No.
Sono 350 YEN. Grazie, buona giornata.
E un sorriso.
Il ventiquattro Aprile Akito si rese conto di aver sviluppato una sorta di dipendenza. Dipendenza da caffè americano, vecchia abitudine del paio d'anni che aveva trascorso a L.A.. O perlomeno cercava di giustificarsi così.
Lei aveva smesso di chiedergli cosa volesse. Il sorriso non era più di cortesia, era più aperto, naturale. Quasi fosse felice di vederlo. Quasi fosse diventato pure lui un'abitudine, per lei, esattamente come lei lo era diventata per lui. Ma probabilmente era solo una sua impressione.
Il solito? Un sorriso.
Esatto.
Si sedeva nell'angolo più lontano del bar, attento a non disturbare. Lei scambiava qualche chiacchiera coi clienti che si fermavano a bere il caffè al banco. Rideva spesso.
Akito si fissava ogni giorno in un particolare diverso: il movimento della mano con cui si aggiustava i capelli dietro l'orecchio, una catenina argentata che portava al collo - non era ancora riuscito ad intravederne il ciondolo -, quanto le donasse il colore blu. Con un sospiro si rese conto di non averla nemmeno mai guardata per intero, quella ragazza, dopo pochi secondi i suoi occhi tornavano sempre alla ricerca del viso, pronti a catturare ogni espressione, desiderosi di leggere ciò che le passava per la testa.
Chissà a cosa pensa mentre sorride a quella bimba. Chissà se le piacciono i bambini... Chissà se è il tipo di ragazza che sogna di averne di suoi, o di quelle che ancora non ci pensano.
Chissà cosa pensa di quest'idiota seduto a fissarla nell'angolo del bar...

Il ventotto Aprile Akito perfezionò la sua definizione: non era un'abitudine, non era nemmeno una dipendenza. Quella ragazza era diventata la sua debolezza.
Lo capì quando, dopo il consueto caffè della mattina, sentì il bisogno di fermarsi di nuovo lì, nel mezzo di una corsa interminabile in tarda serata, nel vano tentativo di scaricare la tensione.
Si accorse di aver voglia di lasciarsi alle spalle il resto del mondo... Ma, chissà perché, si era fermato sotto la pioggia torrenziale esattamente di fronte al suo bar.
Probabilmente non sta nemmeno lavorando, stasera.
Indietreggiò di qualche passo, gli mancava il coraggio di alzare lo sguardo per controllare.
Che idiota. Farmi vedere due volte nello stesso giorno...
Scosse la testa.
Ehi, straniero! Entri o rimani sotto il diluvio?
Il cuore sembrò esplodergli al centro del petto quando riconobbe la voce: era lei, era proprio lei. Con una mano teneva aperta la porta dell'ingresso, un sorriso caldo le piegava le labbra. Per lui, lì in piedi in mezzo al marciapiede, zuppo di pioggia, sudore e malumore, quel sorriso era la cosa più somigliante al concetto di casa che gli fosse capitato di vedere da mesi.
Con un cenno imbarazzato annuì ed entrò.
Forse era il suo profumo, si disse quando le passò accanto. Sapeva di un qualche fiore esotico... Non sapeva nemmeno distinguere quale. Di buono. Sapeva di buono.
Avanzò di qualche passo, impacciato, e per la prima volta si sistemò accanto al bancone.
Serataccia, straniero?, incalzò lei, armeggiando con la macchina del caffè. Non aveva nemmeno bisogno di chiedere. Il solito, ovviamente.
Straniero?
Lei si strinse nelle spalle. Caffè americano, tipica tradizione giapponese... - si abbandonò ad una leggera risata, poi improvvisamente si fece più seria - e poi hai la faccia di uno che non si sente a casa.
Colpito ed affondato.
Akito boccheggiò, alla disperata ricerca di un modo per cambiare argomento. Tre parole fuori dalla loro abituale formula e già era riuscita a metterlo in difficoltà.
Ti sembra che io abbia una serataccia?, tergiversò, guardandosi attorno.
Il bar a quell'ora era quasi vuoto.
Una cameriera puliva un tavolo, c'era una famiglia chiassiosa seduta nel suo angolino.
Poi tornò a guardarla.
Non saprei, commentò lei ad occhi bassi, mentre appoggiava la tazza con il suo americano sul bancone, chi corre sotto la pioggia scappa da qualcosa o insegue qualcuno. Ed io ho visto che eri solo... 
Poi sollevò lo sguardo, inchiodandolo al suo.
Rimase in silenzio, incapace di proferir parola.
Lei se ne accorse.
Scusami, ho questa orribile abitudine di impicciarmi dei fatti altrui... Sono stata indelicata.
Aggrottò le sopracciglia.
Akito cercò di mantenere il controllo della voce.
No, è che... , cercò le parole adatte fissando le piastrelle del pavimento. Riesci a mettermi in difficoltà. Come se sapessi già che punti toccare, ammise infine senza la minima vergogna.
Lei appoggiò i gomiti sul bancone e lo guardò intensamente. Piegò la bocca in una smorfia pensierosa e poi aggiunse: sì, anche a me sembra di averti già incontrato. Chissà, magari in qualche vita passata.
Già, Akito sollevò un sopracciglio. Sicuro.
Straniero, lo rimbeccò, non iniziamo già col sarcasmo. Vedo una grande mancanza di fede nel destino e nel genere umano. Spinse leggermente la tazza fumante nella sua direzione, invitandolo a bere.
Già.
La ragazza sgranò leggermente gli occhi e, mentre lui beveva un lungo sorso di caffè, commentò: solitario e parecchio loquace, questo straniero!
Akito si trattenne a stento dallo scoppiarle a ridere in faccia. Non iniziamo già col sarcasmo. Sollevò un sopracciglio ed un angolo della bocca, rimandandole il rimprovero scherzoso che lei aveva sferzato poco prima. Terminò il suo caffè in silenzio.
Quanto ti devo?
Domanda retorica, concluse lei incrociando le braccia sotto al seno, lo sai già. Ma stasera nulla, i migliori caffè hanno tre caratteristiche: si bevono amari, cosa che ho notato sei solito fare, in piedi e clamorosamente offerti... Ma questo non lo dire al mio capo. E si guardò intorno con fare sospetto.
Lui scosse la testa, divertito.
Tranquilla, il tuo segreto è al sicuro con me.

Ad un certo punto Akito perse il conto di quante volte aveva ripetuto mentalmente quello scambio di parole.
A Maggio inoltrato la situazione era peggiorata.
Non aveva più avuto modo di parlarle al di fuori delle consuete battute. L'elettricità nell'aria gli sembrava insostenibile ogni volta che si trovava dentro quel bar.
Nei momenti meno opportuni la loro ultima conversazione faceva capolino nei suoi pensieri. La analizzava, parola per parola. Aveva impresso nella memoria ogni singola espressione, il tono di voce divertito. E non sapeva nemmeno come si chiamasse, quella ragazza del bar...
Si sentiva un vero idiota.
Ma l'apice della sua idiozia lo raggiunse solo qualche giorno dopo.
Otto e trenta del mattino, come da manuale, stesso tavolino lontano, il solito?, un sorriso, esatto.
Otto e trentotto, uno sguardo allo schermo del telefono, uno sguardo a lei, che non erano mai abbastanza e...
Eccola. Stessa espressione divertita, stesso tono sagace, peccato che quello al bancone di certo non era lui.
Sono proprio un idiota, pensò tra sé.
La ragazza chiacchierava spigliata con qualcuno di spalle, che Akito avrebbe tanto voluto poter vedere in viso.
Poteva essere chiunque. Non per forza un fidanzato... Un amico, magari. Forse persino suo fratello.
Ma la sensazione che quell'immagine gli scatenava dentro lo spaventò: non era mai stato tanto terrorizzato in vita sua, soprattutto nel vedere una sconosciuta parlare con un altro.
Non c'era stato il minimo contatto tra i due, ma Akito si sentiva ribollire. Come se fosse stato addormentato per molto tempo, e solo ora si fosse finalmente risvegliato. Come se lei lo avesse risvegliato...
Si schiarì la voce, si alzò e si avvicinò al bancone, cercando nel portafoglio gli ormai celebri 350 YEN.
Il mio americano, commentò con un fil di voce, allungandoglieli.
Lei lo guardò un po' incuriosita, poi gli sorrise come se non fosse accaduto nulla. Come se fosse un'ordinaria giornata di malumore dello straniero.
Akito uscì da quel bar che gli sembrava improvvisamente troppo piccolo e sbuffò.
Domani non ci torno, si ripeteva, non posso permettermi di essere geloso di una sconosciuta.
Diede fondo alla sua determinazione. Gli ci volle tutta la buona volontà di cui disponeva, ma alla fine ci riuscì. Il mattino successivo non si presentò. Sfilò davanti alla vetrina del bar senza nemmeno lanciarle un'occhiata. Nemmeno con la coda dell'occhio.
Si sentì potente per un secondo, poi ricominciò a sentirsi un idiota.
Atteggiamento da ragazzina in piena crisi di gelosia, complimenti. Ottima mossa. Non posso permettermi che se ne accorga... Domani torno. Devo pensare ad una scusa.

Il solito?, sorriso.
Esatto.
Akito si sistemò al suo tavolo e aspettò che la ragazza gli portasse il suo caffè. Ovviamente non aveva nessuna scusa pronta, la notte aveva portato solamente consigli orribili che quella mattina gli erano sembrate scuse per niente credibili.
Avvertì il rumore sordo della tazza che veniva appoggiata sul legno. Voltò il viso dalla strada verso gli occhi di lei. Deglutì.
Lei sembrò pensarci su. Aprì la bocca, poi la richiuse.
Dovresti far qualcosa per curare quel malumore, straniero. Dico davvero.
Si morse il labbro, Akito scostò lo sguardo per non guardarle insistentemente la bocca. Sarebbe stato imbarazzante.
Proseguì: avevi una faccia ieri mattina... E se ora inizi a far battute sul fatto che ti ho guardato ti uccido. Sì, ti ho guardato, sei difficile da non notare.
Forse era per quel leggero velo d'imbarazzo che le colorò le guance mentre diceva quelle parole. Sì, doveva essere certamente per quello.
Lo devo prendere come un complimento o come un'offesa?
Lei si strinse nelle spalle. A libera interpretazione.
Ovviamente.
Perlomeno niente più corse sotto il diluvio universale.
Akito si lasciò sfuggire un sorrisetto. Non ha più piovuto. Corro solo sotto una pioggia torrenziale o non corro proprio, mentì.
Ovviamente.
Forse era per come alzava gli occhi al cielo, per quel sorriso abbozzato che le era spuntato naturalmente in viso...
Lavori sempre?
Delle mille curiosità che aveva riguardo a lei, cominciò chiedendo il particolare più stupido.
Lei osservò il bancone, probabilmente preoccupandosi che non ci fosse bisogno di lei, poi tornò a guardarlo.
Sì. Sai che si dice... I sogni si realizzano a suon di sacrifici.
Annuì. Sì, mi era giunta voce... Quindi dodici ore di fila ogni giorno? Bisogna essere allenati. Ma che razza di domanda era? Che idiota.
Eh già. Per fortuna non per molto ancora.
Sana! Porta questi al tavolo quindici. Dalle spalle di lei li interruppe la voce roca e spazientita di un uomo sulla cinquantina. Akito si sporse per guardarlo; probabilmente era il suo capo.
Vai, non vorrei mai farti finire nei guai.
Lei gli rispose con una linguaccia, come una bambina.
Me la so cavare.
Non ho il minimo dubbio... Sana.
Così finalmente sapeva il suo nome.

Non poteva andare avanti così, si ripeteva Akito.
Da un mese abbondante a quella parte aspettava le otto e trenta del mattino come un bimbo aspetta di scartare i regali il giorno del suo compleanno. Era diventato il fulcro della sua giornata, un rituale a cui non riusciva a fare a meno e su cui non aveva più il minimo controllo.
Non sapeva niente di lei. Era solo Sana, la ragazza del bar, che faceva dei sacrifici perché aveva un sogno. E che sembrava leggergli dentro con una facilità estrema, ammise con fatica.
Eppure.
Ci pensò giorni interi. Chiederle di uscire? E se avesse avuto il ragazzo?
Invitarla a cena? Troppo.
Al cinema? Una sala buia accanto a lei? L'elettricità tra di loro sarebbe stata ingestibile.
Un caffè? Ironico.
Solo al termine della settimana si decise. Era ora di fare l'uomo.
Otto e ventinove, passo spedito, non sapeva cosa dirle ma avrebbe improvvisato, al diavolo le mille paure. Come aveva detto lei? Sembrava che già si conoscessero. Ricordò con piacevole precisione il momento in cui il suo sorriso aveva iniziato a sembrargli casa molto più di quanto avrebbe voluto ammettere.
Svuotò i polmoni, spinse la porta, entrò.
La cercò dietro al bancone e... Rimase deluso.
Di lei non c'era traccia. Perlustrò con un'occhiata l'intero bar. Nulla.
Sarà ammalata.
Avrà chiesto un giorno di permesso.

Poi gli tornarono in mente le parole usate da Sana: per fortuna non per molto ancora.
E non ebbe più dubbi sulle ragioni della sua assenza.
Ordinò il suo americano, lo bevve bollente senza pensarci troppo. Amaro, in piedi. Il proprietario, lo stesso uomo sulla cinquantina, di sicuro non l'avrebbe offerto. In ogni caso non sarebbe stato uno dei migliori caffè della sua vita.
Con un cenno indicò i 350 YEN che aveva lasciato accanto alla tazza ormai vuota; lanciò un'ultima occhiata intorno e sospirò; la delusione gli incurvò leggermente le spalle.
Si sentiva un macigno sullo stomaco.
Più di un mese gli ci era voluto. Che codardo.
E quando finalmente aveva trovato il coraggio era troppo tardi. Ovviamente.
Tirò la maniglia della porta e uscì a testa bassa, infilandosi nel flusso di passanti che percorrevano frettolosamente il marciapiede.
Ehi, straniero!
Di nuovo ebbe la sensazione che due occhi gli perforassero la schiena.
E quella voce... Sana.
Si voltò.
Era proprio lei, lo sguardo furbo e divertito, nessuna divisa, i capelli morbidi le cadevano sulle spalle. Un sole in mezzo ad una folla di passanti grigi, che impallidivano al suo fianco.
La vide avvicinarsi e si sentì di nuovo visto, visto sul serio.
Realizzò che forse, per la prima volta, tutto ciò che di solito scappava a gambe levate nella direzione opposta alla sua gli si stava avvicinando con un gran sorriso dipinto in volto.
Realizzò che non era stato idiota, non troppo perlomeno: era inevitabile essere gelosi di quella sconosciuta, era inevitabile persino provare già qualcosa per lei, fosse curiosità, attrazione o quel gran bel pugno nello stomaco che aveva avvertito la prima volta che l'aveva vista. Nel solo tempo di un caffè. Era stato inevitabile incontrarla e, inevitabilmente, se lui non l'avesse trovata al bar, lei l'avrebbe aspettato esattamente fuori dalla porta. Come aveva potuto dubitarne?
E se non fosse stata quella l'occasione si sarebbero incontrati più avanti, magari aspettando la metro o al supermercato. Di sicuro. Magari erano davvero destinati ad incontrarsi. O magari si erano già incontrati in una vita precedente, come diceva lei.
Stamattina ci avevo pensato io, ma ovviamente hai rovinato tutto, gli avvicinò uno dei due caffè che teneva in mano. D'ora in avanti solo deca, la caffeina non fa bene al tuo malumore!
Ti posso assicurare che oggi il mio umore è ottimo, Sana.
Visto? Merito del deca.
Sicuramente.

Dove mi porti?

 
-----------------------------------------
 
Niente, in questi giorni pensavo che mi sono iscritta ad EFP quando ancora dovevo diplomarmi. Ora sono laureata, vivo all'estero e di lavoro faccio ciò che amo, cioè questo.
Però mi piace sempre tornare dove ho cominciato, soprattutto se sono stata davvero bene.
C.
   
 
Leggi le 10 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Rossana/Kodocha / Vai alla pagina dell'autore: yesterday