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Autore: cliffordsarms    10/06/2015    1 recensioni
Ma dove correvi Lucretia? Dove correvi quella sera, mentre la pioggia batteva a un ritmo quasi regolare sul tettuccio di Charlotte, la tua amata macchina rossa? Forse l’avevi scordato anche tu.
[...]
E tu, Lucretia Schmidt, avevi smesso di correre. Avevi smesso di sfrecciare, non solo nella tua auto, ma anche tra i tuoi pensieri. Ora non ne avevi più.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Vic Fuentes
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'A Drop In The Ocean'
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A Lovely Place To Be
 
(consiglio come sottofondo queste due tracce nell’ordine proposto, basta cliccarci sopra)
 
La pioggia scrosciava e Lucretia, sfrecciavi per la via principale di San Diego senza nemmeno renderti conto della velocità a cui stavi tirando la tua macchinina rossa di seconda mano, troppo presa a fare headbanging su Pressure dei Paramore. Di fonte a te però, in lontananza vedevi quella luce tonda verde trasformarsi in rossa e dovesti premere più forte che potevi sul freno per riuscire a fermarti in tempo sulla linea dello stop.
Ma dove correvi Lucretia? Dove correvi quella sera, mentre la pioggia batteva a un ritmo quasi regolare sul tettuccio di Charlotte, la tua amata macchina rossa? Forse l’avevi scordato anche tu.
Appena la luce era diventata verde, eri scattata via, veloce come un fulmine di nuovo, mentre il motore di Charlotte faceva un rumorino strano, che tu però non potevi chiaramente sentire, troppo impegnata a concentrarti a tamburellare con le dita il ritmo della batteria di Something’s Gotta Give degli All Time Low. Avevi messo la freccia a destra, che ticchettava mentre giravi su quella via piena di case, piena di ville maestose, che tu ti domandavi a chi appartenessero, ma non riuscivi a sentire nemmeno quella.
Solo che poi Charlotte aveva sussultato, aveva tremato un po’ e si era fermata nel bel mezzo della strada. E tu, che cosa avresti fatto? L’avevi mandata a fanculo senza troppi scrupoli, stupida macchina, continuavi a pensare.
Avevi spento la radio e avevi preso il telefono, pronta per chiamare la tua amica Clary e farti venire a prendere. Ti eri però accorta che non avevi idea di dove diavolo fossi. E adesso? Beh, i telefoni hanno la fortuna di avere una cosuccia chiamata localizzazione e un’altra chiamata Google Maps. Avevi attivato entrambi, ma il tuo telefono aveva deciso che avevi ascoltato troppa musica per quella sera e che i suoi servigi erano stati troppo efficienti, così si era spento. Lo avevi lanciato sul sedile del passeggero e avevi colpito con entrambe le mani il volante, accompagnandole con un grido frustrato.
Fanculo la pioggia.
Fanculo Charlotte.
Fanculo il tuo telefono.
Fanculo tutto.
Che poi, era proprio il motivo per cui eri saltata in macchina quella sera ed eri sfrecciata via. Era il motivo per cui eri sfrecciata da Los Angeles a San Diego, anche se in realtà non lo sapevi. Non avevi idea di aver guidato per quasi due ore e mezza. Come potevi saperlo? Sempre troppo presa dalla musica che deve coprirti i pensieri.
Eri fuggita da LA perché troppe cose erano successe insieme. Volevi fuggire e quando ti eri trovata in difficoltà, avevi subito pensato a Clary per tornare indietro. Ti sentivi anche codarda solo per averci pensato. Eppure eri convinta di non volerci stare a Los Angeles. Quella città ti faceva schifo. Piena di gente che pensa sempre solo ai soldi, che non lascia vivere una vita normale nemmeno a una ragazzina di diciannove anni forse un po’ troppo ingenua.
Ti aveva trovata lui in un locale una sera. Ti aveva trovata quel Josh. Ti aveva scoperta, come diceva lui. Ti aveva vista sul palco a suonare e gli eri sembrata così carina, sicuramente abbastanza carina da metterti sulla copertina di album. Ti aveva ascoltata suonare la chitarra e cantare, quella stessa sera, e aveva pensato che fossi abbastanza per un bel disco. Lui, Josh, un produttore discografico, o almeno così si era presentato quella sera, quando ti aveva fermata fuori dal locale. Parlavi con Clary, con Wendy e con Daisy, loro ti facevano i complimenti per quanto fossi brava e lui ti aveva poggiato una mano sulla spalla.
Era bello lui, era alto, aveva un bel fisico, aveva i capelli castani, gli occhi azzurri e un sorriso brillante e amichevole. Ti aveva detto di avere ventiquattro anni, di essere un produttore discografico affermato, ti aveva detto di lavorare per Sound City. A te si erano illuminati gli occhi. Ti eri presentata con il tuo vero nome, ti eri presentata come Lucretia Schmidt, non avevi usato Nina, il tuo nome d’arte perché ti era sembrato un così bravo ragazzo.
Stupida, continuavi a ripensare a quella sera di sei mesi prima e riuscivi a darti solo della stupida. Avevi accettato di andare con un ventiquattrenne a Sound City, quella casa discografica da te tanto agognata, dove il tuo disco preferito, Suck It and See degli Arctic Monkeys, era stato inciso, e non solo quello. Tu eri andata con lui il mattino seguente e avevi firmato quel contratto.
Nel giro di un mese ti aveva fatta innamorare e tu ci eri cascata come una deficiente. Il tuo EP era quasi pronto, mancava giusto quell’ultima canzone che avevi scritto per lui, quando eri andata a casa sua quella sera, volevi fargli una sorpresa. L’avevi trovato ubriaco, e ti aveva ricattata. Ti aveva detto che se non fossi rimasta, non avrebbe pubblicato il tuo disco. Tu avevi troppa paura per restare. Eri scappata via e ora eccoti qui, persa a San Diego, con la tua Charlotte in panne e la pioggia fuori.
Avevi sospirato ed eri scesa dall’auto, avevi suonato praticamente tutti i campanelli della via e nessuno ti aveva aperto, non che questo ti stupisse: probabilmente era ormai l’una di notte e, se non erano già andati a dormire, erano tutti fuori a fare festa, essendo sabato sera.
Eri zuppa, eppure ti sembrava che la pioggia avesse trovato ancora qualche millimetro del tuo corpo da bagnare. Eri arrivata davanti ad un’altra villa, c’erano le luci accese e almeno così sapevi che qualcuno in casa c’era. Avevi suonato e mentre aspettavi che qualcuno ti aprisse avevi notato che quella era l’unica casa senza tettoia sopra la porta, e quindi ti stavi infradiciando ancora di più, e quindi maledicevi i proprietari. Ti tenevi le braccia, forse cercando di riscaldarti inutilmente. Un ragazzo non troppo alto, anche se sicuramente più di te, ti aveva aperto la porta, aveva i capelli lunghi fino alle spalle che gli incorniciavano il viso con dolci onde e aveva un naso carino, con un piccolo anello girato intorno ad una delle narici.
«Mi si è rotta la macchina, il telefono è scarico, non so nemmeno dove mi trovo.» avevi gridato, cercando di sovrastare il volume della pioggia. Lui non aveva capito nulla di ciò che gli avevi detto e ti aveva semplicemente invitato a entrare.
Non avevi indugiato, ma quando avevi messo piede dentro quell’abitazione maestosa e costosa, perché ne eri certa che quella roba costasse forse quanto il tuo intero patrimonio, non ti eri spostata dall’ingresso. Avevi paura di sporcare il pavimento e tutto quello che c’era intorno, perché ti conosci e sapevi che avresti inzuppato tutto. Il ragazzo era andato in cucina e, quando si era accorto che non lo stavi seguendo, si era affacciato.
«Io non vorrei sporcare…» avevi quasi sussurrato, stringendoti nelle spalle e abbassando lo sguardo. Avevi notato la pozzerella di acqua che avevi creato sotto di te e che continuavi ad alimentare con le gocce che ti cadevano dai capelli.
Il ragazzo ti aveva sorriso ed era corso su per le scale, senza dire una parola. Iniziava a stancarti il fatto che non parlasse, però forse era muto. Era tornato giù e ti aveva porto una maglia e ti aveva indicato il bagno. Ti eri levata le converse, che ormai sembravano più un lago che delle scarpe, e vi eri corsa, lasciando piccole impronte di piedi, colpa della tua ostinata fissazione per non mettere i calzini.
Ti eri infilata la maglietta e avevi tolto anche i pantaloni, notando che tanto quella ti arrivava a metà coscia. Avevi raccolto i capelli in uno chignon disordinato, sperando che almeno in quel modo avresti fatto cadere meno gocce, anche se sapevi che non si sarebbero mai asciugati rinchiusi lì dentro. Avevi appoggiato i tuoi vestiti sul bordo della vasca e ti eri voltata, guardandoti allo specchio. Ti aveva dato una maglia dei My Chemical Romance che il tuo reggiseno fradicio aveva già inzuppato un po’. Avevi pensato che, anche non parlando, aveva dei buoni gusti musicali, il ragazzo che ora, di fronte a te in cucina, ti porgeva una tazza di the.
«Sono Vic, Vic Fuentes.» ti aveva poi detto, porgendoti la mano. Allora parlava e aveva anche un nome, avevi pensato.
«Lucretia, Lucretia Schmidt.» avevi risposto stringendo la sua mano, che ti  era sembrata calda, grande e callosa. Avevi sorseggiato il the e ti eri seduta su una sedia, incrociando le gambe e buttando la maglietta in mezzo, sperando che non ti si vedessero le mutande.
Ancora una volta non ti eri presentata con il tuo nome d’arte, perché infondo lui non era un produttore discografico, a lui non interessava di conoscerti come una cantante o chitarrista o autrice.
«Allora, Lucretia Schmidt,» aveva detto sedendosi di fronte a te «che ci fai qui, fradicia?» aveva chiesto sorridente.
«Charlotte, la mia macchina, mi ha abbandonato, il mio telefono è andato a farsi fottere e fuori piove e nessuna persona si è degnata di aprirmi la porta, perciò ho dovuto suonare in tutte le case della via.» la cosa ti faceva rabbia, perché dovevano capitare tutte a te? Povera Lucretia. «Scusa, ma» e avevi bevuto un sorso di quel the caldo, che stava facendo riprendere al tuo corpo una temperatura normale «dove... dove mi trovo? Dio, non so neanche dove sono, penserai che sono una svitata.» avevi detto appoggiandoti una mano sulla fronte.
«Neanche troppo svitata.» aveva detto ridendo, e tu gli avevi sorriso. Aveva una risata niente male, quel Vic. «E comunque sei a San Diego. Posso sapere dove sei diretta?» ti aveva chiesto gentile. Tu avevi abbassato la testa sospirando e lui si era forse sentito un po’ in colpa per quella domanda.
«Non lo so nemmeno io, sono solo salita in macchina e ho guidato per, quanto? Due ore e mezza? Dovrei chiamare qualcuno e tornare a Los Angeles. Come cavolo ho fatto a pensare di poter scappare?» avevi detto tutto d’un fiato. Ti sentivi ancora più idiota di quando avevi conosciuto Josh.
«Scappare? Sei in qualche guaio con la polizia? Io non voglio avere problemi.» ti aveva risposto, alzando le mani. Tu avevi riso, quasi di gusto e quel ragazzo dolce ti aveva guardata piuttosto male.
«No, no, niente polizia. È una lunga storia.» avevi detto sbadigliando. Ti eri stiracchiata un po’ e l’avevi guardato. «Senti, se mi fai usare il telefono, chiamo e mi faccio venire a prendere, così la smetto di disturbarti.» eri stanca e volevi solo andare a casa, volevi solo dormire e scordarti di questa storia, anche se sapevi che non sarebbe stato facile.
Se fossi tornata a casa lui, Josh, ti avrebbe trovata, ti sarebbe venuto a cercare. Avevi capito che ti voleva solo per scopare, forse non eri nemmeno così brava come lui ti aveva fatto credere. Forse, in realtà, facevi proprio schifo come musicista.
«Io non credo tu possa chiamare…» aveva detto, distogliendoti dai tuoi pensieri. «Le linee sono interrotte a causa del temporale.» ti aveva indicato la tv, dove una graziosa donna dimezza età lo dichiarava più volte, scandendo le parole.
Avevi sospirato, infondo tu volevi solo fuggire, e alla fine ci stavi riuscendo. Volevi stare lontana da lui, e ci eri riuscita, anche se solo per poche ore. Ti eri alzata ed eri andata a sederti sul divano, seguita da Vic, che ti si era seduto accanto ma non troppo vicino. Sembrava piuttosto imbarazzato e tu ti sentivi solo una svitata.
«Tu… suoni la chitarra?» avevi detto, indicando l’oggetto appoggiato sull’apposito sostegno di fianco al mobile del televisore. Lui aveva annuito e «Posso?» avevi chiesto, e lui ti aveva risposto di sì.
Eri triste e sapevi che suonare e magari canticchiare un po’ ti avrebbe aiutato. Ma cosa potevi strimpellare? Avresti voluto fosse qualcosa che poteva piacere a entrambi. Non una delle tue canzoni, di certo. Non ti avrebbe fatto bene poiché ti avrebbero fatto pensare a Josh, e tu non volevi pensare a Josh. Avevi optato per Somebody That I Used To Know di Gotye, quella canzone la trovavi adatta alla situazione di quel momento. Così avevi cominciato con quei primi accordi.
«Now and then I think of when we were together / Like when you said you felt so happy you could die / Told myself that you were right for me / But felt so lonely in your company / But that was love and it's an ache I still remember» avevi intonato quasi sottovoce. Senza che te lo aspettassi, lui si era unito a te, quel Vic sapeva anche cantare.
«You can get addicted to a certain kind of sadness / Like resignation to the end, always the end / So when we found that we could not make sense / Well you said that we would still be friends / But I’ll admit that I was glad that it was over» l’avevi guardato, perché lui sapeva cantare molto bene. Decisamente, molto bene. Aveva una voce particolare, ti piaceva, ti era sembrata rilassante, e stavi per sbagliare anche accordo, mentre ti perdevi in questi pensieri.
«But you didn't have to cut me off / Make out like it never happened and that we were nothing / And I don't even need your love / But you treat me like a stranger and that feels so rough  / No you didn't have to stoop so low / Have your friends collect your records and then change your number / I guess that I don't need that though / Now you're just somebody that I used to know» avevate cantato insieme, pieni di sentimento, e forse anche risentimento. Tu l’avevi cantata pensando a Josh e lui probabilmente a qualche sua ex ragazza, avevi dedotto da quello che ti aveva trasmesso.
Finita quell’ultima frase del ritornello avevi riposto la chitarra, non ti era sembrato il caso di continuare. Lui ti aveva osservata compiere ogni singolo movimento, e tu ti eri chiesta cosa pensasse. Forse quella maglietta era troppo corta per te. Forse ti sentivi troppo stretta, chiusa in quella casa, con quel ragazzo. Era quello il momento in cui ti era venuta quell’idea. Pazza, folle, completamente irrazionale.
«Ti va di… di andare a fare una passeggiata?» gli avevi chiesto.
Ti vergognavi. Tu indossavi solo una sua maglietta, e fuori pioveva. E quella pioggia scrosciava, e tu ti sentivi troppo stretta in quella casa. Eri decisa, volevi uscire, ti veniva la claustrofobia. Ti eri sciolta i capelli che avevano fatto cadere delle gocce per terra.
Lui ti guardava, e quel suo sguardo ti sembrava dire che dovevi essere bellissima. E lo eri, cara Lucretia. Lo eri, eri così bella, con tutti quei capelli che ti ricadevano davanti alle spalle, quell’enorme maglietta dei My Chemical Romance che, nonostante ti stesse così grande, sembrava fatta apposta. E le gambe che ne sbucavano fuori, non erano lunghe, perché tu non sei mai stata troppo alta, Lucretia. Però, agli occhi di quel Vic, tu eri decisamente bellissima.
Non aveva risposto alla tua domanda, era andato vicino alla porta e si era messo le scarpe. Tu lo avevi raggiunto, e ti eri infilata le tue converse, che non erano ancora asciutte, non del tutto, per lo meno. Ti aveva aperto la porta ed eri uscita, assaporando l’odore della pioggia.
Avevate camminato in silenzio, non eravate andati dalla parte dove avevi lasciato Charlotte, lì sola in mezzo alla strada, ma dall’altra. Perché avevi detto che ti sarebbe sembrato come tornare indietro e, alla fine, avevi deciso che non lo avresti fatto.
Quel Vic ti piaceva. Dopo un po’ ti aveva preso la mano, ti eri sentita in imbarazzo, eppure, non l’avevi lasciata, perché quella mano, grande, calda e callosa come prima, ti faceva sentire sicura, ti faceva pensare che tutto sarebbe andato per il meglio.
E ti eri abbandonata a quei pensieri, mentre la pioggia vi accarezzava il viso, mentre quel fresco, che faceva venire un po’ i brividi, vi entrava nelle ossa e vi faceva sentire un po’ rinati. Eravate solo tu e lui per strada e chissà che ore fossero. Da una parte volevi saperlo, dall’altra non ti importava. E avevi deciso di seguire la parte di te che diceva che non era importante sapere l’ora.
Eravate arrivati sulla spiaggia, mentre continuava a piovere, anche se la pioggia, ormai, sembrava farsi più rara, le gocce non cadevano più con quel ritmo quasi regolare di prima. Vi eravate seduti sulla sabbia bagnata, e aveva smesso di piovere. Avevate visto le nuvole diradarsi nel cielo, che si era ormai fatto arancione, un po’ rosa anche e forse un po’ violetto. Ed eccola lì, l’alba, il sole che sbucava da dietro la riga dell’oceano.
E tu, Lucretia Schmidt, avevi smesso di correre. Avevi smesso di sfrecciare, non solo nella tua auto, ma anche tra i tuoi pensieri. Ora non ne avevi più.
 
Notes
Ciao a tutti!
Questa è la mia prima storia nella sezione Pierce the Veil e, in realtà, avrei anche potuto non inserirla qui, visto che alla fine Vic non è Vic e sarebbe potuto essere chiunque altro. Però io mi sono immaginata Vic.
Mi sembra una storia particolare e che in realtà non ha molto senso, ma mi è uscita così e a me piace molto, spero che piaccia anche a voi.
Non ha nessun significato particolare, non è che si rifaccia a qualche mia storia passa, anche perché sarebbe un po’ impossibile.
Lasciate pure una recensione, che fa sempre piacere, molto piacere.
Alla prossima,
@cliffordsarms
  
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