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Autore: Brat    11/06/2015    1 recensioni
Tutto ciò che sono si riassume in questo. Io dipendo. Dipendo da me stesso e dalla mia solitudine, dipendo dalle cazzate che mi creo, dipendo dalle mie illusioni. Ripercorrendo il passato, l’inganno che mi fa credere che ci sia differenza fra quello che sono e quello che ero, mi rendo conto di essere sempre stato semplicemente un dipendente. Dipendo da quei cataloghi di mobilia sparsi per casa, e da quella caffettiera che vomita caffeina sui miei fornelli. Dipendo dal rigore e dagli orari della giornata. Dipendo dalla mia insonnia.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non ti capita mai di disperderti nel buio? L’insonnia porta anche a questo. Non distingui più il sogno dalla realtà e viceversa, capovolgi i fatti che roteando su se stessi e modificandosi creano intrecci fra tempo e spazio a te incomprensibili, e nel mezzo, ci sono solo rabbia e apatia, il piccolo centro caldo dell’oscurità. Tutto è una foto, un ricordo, ed è lontano, e tu sei solo nella folla, fra quelle persone di cui non ti senti parte, in mezzo a quel coro nel quale la tua voce stona. Così questa notte mi sono ritrovato alle 4.20 a vagare al centro di una città desolata. Il silenzio vince su tutto, è un’illusione quasi reale, il silenzio in realtà non esiste, ovunque qualcosa si sposti anche minimamente produce un suono che noi non siamo in grado di percepire. Un’illusione pura quasi come il tempo, così fittizio ma denso da apparire reale, così radicato nel nostro metodo di catalogazione degli avvenimenti da sembrare utile. Le cose le collochiamo sulle tacche di un orologio immaginario, che esprime lo scorrere del niente in mezzo al niente. Chiunque leggerà questa lettera penserà che sono pazzo, ma non lo sono davvero mai stato. Il viso della follia mi è sempre apparso meraviglioso e irraggiungibile, un corpo indomabile, uno spirito indomito, forte e rabbioso, che ha la forza di mille uomini e la leggerezza di una fanciulla. Lei è follia. E quando la ritrovo nella mia memoria ecco che soffro come se fosse reale. Un’altra illusione che pare tangibile, sulla mia pelle, ma che altro non è che una proiezione di una sensazione. Quella ragazza, ombra scura che volteggia fuori da quella porta, si è persa nel buio come ho fatto io, ma non sono qui per ricordarla, o provare a ritrovarla. A dire la verità neanche so il perché io sia qui. Stringo una sigaretta fra le labbra che pesa come la goccia di morfina nella vena del malato, una goccia così leggera, ma per lui così pesante da fare la differenza fra la speranza di potercela ancora fare e la consapevolezza che sia finita. Sono la goccia che scivola in quel tubo lentamente. Vado senza sapere dove andare. Sono un bravo ragazzo, lo sono sempre stato, eppure questa notte mi chiede di non esserlo più, il suo spirito persuade la mia mente a contorcersi e ritorcersi, a sfidarmi a seguirla nei suoi giochetti fra inconscio e subconscio, nella linea sottile che mi regala la calma consapevole che un assassino prova prima di commettere un omicidio di massa. Sento il battito e il respiro, il sangue scorre in un flusso continuo. Quelle sensazioni mi sovrastano, e il rombo infinito degli ingranaggi che scattano e stridono nella mia mente stanca da un lieve suoni di passi. Ora posso percepirlo. Qualcuno si sta muovendo. Sono il silenzio che scompare sotto le suole di quei passi. Mi faccio infrangere dalla forza di quell’avanzata infernale, che nel silenzio del nulla fa un fragore quasi maggiore di quello di un tuono. Sento sghignazzare, e mi volto, alla ricerca della sagoma che si avvicinava, ma nel buio non c’è niente. Mi sono letteralmente perso in un nero che sembra così leggero da trasportare, un nero sottile come carbone in polvere, che mi sembra di poter soffiare via con facilità, ma che si addensava sul mio corpo tanto da rendermi difficile muovermi, vedere, sentire. Cominciai a credere che questo silenzio sia solo un’illusione, e che l’individuo sia la realtà che prorompe nelle mie fantasie.
-Dio, ma perché diavolo porti quella dannata cravatta?- il possessore di quelle scarpe è uomo. La sua voce è esattamente come l’avrei immaginata, se avessi avuto il tempo per farlo, era roca, pacata, dura come il cemento su cui poggiano i miei piedi. Mi rendo conto che la mia certezza che sotto le mie scarpe ci sia realmente del cemento è incerta, ma solo per un secondo. Penso più che altro alla domanda che mi è stata posta, come se fossi io stesso a chiedermelo. Ho la cravatta perché il mio capo vuole così. In quell’ufficio è come se quello debba essere il segnale di riconoscimento per uomini acuti e laboriosi. È un simbolo di dipendenza, si, sono un dipendente. Porto la cravatta perché dipende da quello ciò che in ufficio il mio capo pensa che io possa essere. Sono la dipendenza del drogato, la sua eroina, e la cravatta è il tramite fra me e lui, come la siringa nella vena di quel disperato.
-Perché sono un dipendente- tutto ciò che sono si riassume in questo. Io dipendo. Dipendo da me stesso e dalla mia solitudine, dipendo dalle cazzate che mi creo, dipendo dalle mie illusioni. Ripercorrendo il passato, l’inganno che mi fa credere che ci sia differenza fra quello che sono e quello che ero, mi rendo conto di essere sempre stato semplicemente un dipendente. Dipendo da quei cataloghi di mobilia sparsi per casa, e da quella caffettiera che vomita caffeina sui miei fornelli. Dipendo dal rigore e dagli orari della giornata. Dipendo dalla mia insonnia.
-E ti sta bene così?- la voce parlava, e io ascoltavo. Non penso neanche più che ci sia una vera e propria persona, è come parlare da solo, è come parlare al vento, che rapisce il suono e lo porta lontano, a disperdersi nel vuoto. Ma mi sta davvero bene così? Sto bene in quello stretto spazio fra me e quello accanto, accalcati nel pulman per arrivare puntuali al nostro stupido lavoro? Sto bene stretto fra quei corpi sudaticci e quelle menti nervose, irrequiete, che si guardano intorno cercando una via d’uscita, uno spiraglio? Indubbiamente sembro perfettamente uno di loro, stessa camicia bianca, stessa cravatta nera, stessa pettinatura composta e seria, stesso sguardo vuoto. Ma è davvero lì che volevo stare?
-Non lo so, credo di si- rispondo, non so neanche perché rispondo così, ma sono un dipendente, dipendo da ciò che devo dire, ciò che penso non ha importanza.
-Tu credi eh?- dice la voce, e la sento spostarsi accanto a me. Sento ancora i passi, ma è come se arrivassero da lontano. Da una vita di distanza. Che metro di misurazione, una vita, che cos’è una vita, se non l’errore dello scrittore universale su un figlio bianco? Una striscia di penna senza significato. Qualcosa nella mia testa, scatta, una scintilla, e un ricordo che suppongo di aver vissuto. Non ero sempre stato così, non l’avevo sempre pensata così.
-Bene- continua la voce. – E quanto credi alle tue convinzioni?- Questa domanda nasce dalla mia mente e si sposta a quello che il mio interlocutore propone. Le mie convinzioni sono reali? Il tempo e lo spazio non lo sono, la dipendenza? Lo è? E l’insistente convinzione di non appartenere a me stesso? A questo posto? A questa camicia sgualcita, a quel sonno? Magari persino l’insonnia non è che una convinzione.
-Le mie convinzioni sono false. Sono solo mie- L’individuo sghignazza ancora, come se avessi centrato il punto. Lo immagino che guarda lontano, e butta la sigaretta a terra per poi girarsi verso di me. Lo immagino, non lo vedo. Ma so che sta accadendo, perché la sottile oscurità che ci avvolge è mia amica. La sento respirare. Voglio disintegrare lo spirito e abbandonare il corpo. Perdere la memoria e rimescolare tutto, dimenticare i limiti autoimposti dalla mia necessità di classificare gli avvenimenti in base al loro tempo. Sono il piccolo centro caldo del tempo, del ricordo. -Bene, bene, sei un tipo acuto- mi strappa un mezzo sorriso, o almeno penso di aver sorriso. L’individuo certamente l’ha fatto, sento la sua voce che scivolava fra i denti semi serrati del suo sorriso che quasi sembra deridermi.
-Ora ti chiedo, se le tue convinzioni sono false, cosa c’è di reale?- questa domanda scivola giù ancora per il mio collo, come sudore freddo che si congela sulla pelle del lottatore che sta per essere sbattuto a tappeto, e mentre beve il suo stesso sangue si domanda se ne sia valsa la pena. Sono il sudore freddo della vita.
-Niente, suppongo?- suona più come una domanda, e in effetti lo è. Non centro il punto, non capisco dove quell’individuo nascosto nel buio mi sta portando.
-Quindi cosa c’è di importante?- continua. -Niente- gli rispondo. Mi rispondo. Queste domande suonano così familiari che d’un tratto, ancora per un istante, mi chiedo se stia effettivamente parlando con qualcuno che non sia io. Ma solo per un istante.
-Allora che cazzo ci fai quassù?- quassù? Dove sono, esattamente? -Cristo, apri gli occhi!- urla l’individuo, e, inaspettatamente, li apro. Ora è un tripudio di suoni e di luci a circondarmi, i miei piedi nudi poggiano sul ferro freddo, le macchine sfrecciano sul ponte di Brooklyn, dietro di me, e il mare, sotto di me, ruggisce sbattendo contro i pilastri. Sto guardando giù, verso la massa di acqua nera. Sono il senso di rifiuto di me stesso, un senso che sta per esprimersi in quella caduta. Nel rifiuto stesso.
-Che cazzo ci fai quassù se niente importa?- mi volto, e alla mia destra un uomo sta seduto accanto a me sul telaio in ferro di quel ponte. Per un attimo mi chiedo come possa essere esattamente come me l’ero immaginato, ma poi non ci faccio caso, non più di tanto. È poco più di un ragazzo, le spalle larghe si nascondono sotto una giacca di pelle rossa come il fuoco, i capelli disordinati rimangono immobili nel buio della notte. Il suo sguardo è severo, pacato, come la sua voce, ma anche folle. Percepisco quell’ombra di follia nei suoi occhi, una traccia di un ricordo, forse, o di una malattia, magari, la traccia che segna irrimediabilmente la sconfitta dell’uomo contro la vita. Sul viso porta i segni di una spasmodica lotta contro se stessi, i forti segni delle occhiaie ricordano il marchio di un pugno, o forse semplicemente lo sono? Le labbra rosse e carnose sono spaccate da una ferita verticale ancora aperta. Su di esse poggia una sigaretta che ne illumina il profilo, rivelandolo, incendiandolo, dandogli rilievo, significato. Marchiandolo a fuoco nella mia mente.
-Bè, perché la mia vita fa schifo- rispondo, ma so che non basterà questa risposta, perché neanche a me basta. Neanche per me vale la pena di fare quel sacrificio, ma allora perché sono qui?
-E che importa? Se niente importa, perché questo si?- chiede l’uomo, sollevando lo sguardo. Mi ricordava quello di me stesso in un riflesso passato, ma lui sembrava reale, a dispetto di quel riflesso.
-Non lo so, forse è che non ho niente da perdere- dico, e guardo giù, di nuovo, verso il mare rabbioso. Quella massa di acqua informe e nera mi ricorda tanto ciò che resta della mia mente, una massa di letame che si aggroviglia dentro il mio cranio senza offrire soluzioni migliori del suo fetido odore di finito. Un clacson squittisce dietro le mie spalle, e qualcuno urla. Non è con me che parlano, non è me che vogliono, sono fuori da tutto quello. Non sono un uomo, non ho un’anima, o forse sono l’unico ad averne una. Quella puzza di gas di scarico e fumo di sigaretta, mi fa quasi sentire a casa nella mia lontananza. Quegli odori e quei rumori penetrano nella mia bolla di assenza riempiendola di ciò che c’è fuori e allo stesso tempo tenendomi lontano.
-Bene, coraggio, allora fallo- riprende l’uomo, bevendo un sorso della birra che teneva nella mano che ancora non avevo visto. Sembra essersi composta nel momento in cui è stata sollevata, potrei giurare che prima non esistesse, ma d’altronde non so neanche se quell’uomo esista.
-Chi sei tu?- gli chiedo, e lo osservo mentre si alza di scatto. È poco più alto di me, e sembra sovrastarmi, oscurarmi, nascondermi.
-Che cazzo di domanda è? Ti sembra importante? Ho detto fallo!- urla. Penso che qualcuno possa sentirlo, nella strada, ma nessuno, fra quell’ammasso di scatole di metallo che soffiano benzina bruciata nella notte può percepire quel suono. Nessuno può percepire la nostra presenza. Ancora una volta mi ritrovo a chiedermi cosa sia reale e cosa no, quale sia la distanza fra me e ciò che so, cosa ci sia di vero in quello che conosco, quale sia l’esatta distanza fra e me quel mondo che sembro ricordare ma di cui sembro non fare parte.
-Jack, comunque, io sono Jack, ora torniamo al tuo salto nel vuoto, immortala questo momento. Stai morendo. Cosa ti viene in mente?- Guardo lontano e un groviglio di idee mi riempie la testa. idee stupide. Idee senza importanza. Mi chiedo cosa penseranno della mia casa, quando la perquisiranno per accertare la mia scomparsa e confermare le manie suicide di un folle. Troveranno due scatole di pastiglie di Xenax, dei sonniferi per cavalli, e qualche bottiglia di vodka e rum nascoste sotto al cucina. Troveranno tutto pulito, il letto in ordine. Se non altro penseranno che sono una brava persona. E io lo sono. Lo sono? Mi chiedo se il mio cadavere verrà mangiato dai pesci, o verrà ripescato. Mi chiedo se morirò per l’impatto o se affogherò scivolando verso il buio. Mi chiedo se le mie mani sono abbastanza pulite, e se sono vestito bene per l’occasione. -Niente- rispondo
–Non riesco a pensare assolutamente a niente-
-Cosa vorresti aver fatto? Cosa penseresti della tua vita, se cadessi adesso?- ora sta urlando, e mi fissa dritto. I suoi occhi gelidi riflettono i miei. Jack ha i miei stessi occhi. Sono la vita sprecata di Jack.
-Non lo so-
-Cosa?!-
-Non lo so!- lui si volta, fa un tiro profondo e lancia la sigaretta in basso, verso il nulla. Ora lo vedo come un’ombra, come se stesse sparendo. Sono sveglio o sto dormendo? Ho dormito e mi sono svegliato? È reale o è un’illusione? Come il tempo? Come la fortuna? Come la vita?
-Chi sei tu?- chiede Jack, con un mezzo sorriso sulla faccia. Incute quasi terrore, quel ghigno malefico che mostra un panorama di denti insanguinati e candidi a tratti, quelle labbra spaccate dalla lotta, quei lividi scuri che ne modificano l’espressione rendendola ipnotica, terrificante. Sublime.
 -Chi sono io?- faccio eco. Ora come ora l’unica certezza che potrei avere, il mio nome, mi sfugge. Magari non era quello che intendeva, non era quello che voleva sapere, ma il mio nome mi sfugge come il senso di tutto questo, scivola via fra le dita come il sangue dopo la lotta, intangibile e leggero, eppure così evidente da non poter non essere reale. Già, chi diavolo sono io? Il dipendente? Lo sfigato? La vittima? Sono dentro o sono fuori? Sono l’assassino, o sono l’assassinato? Sono il reato, o sono il movente? La punizione o la colpa? Chi sono io? -Chi diavolo sei tu?!- Urla. Non lo so. Lo guardo e lui mi guarda. Ci stiamo guardando ma non ci vediamo. Poi mi spinge. Precipito, giù nel vuoto.
Chi sono io?
 
 
 
Mi sveglio sul mio letto. Il sudore cola gelido sulla mia schiena, le mani tremano e gli occhi fissano un punto indefinito nella parete davanti a me. Provo un indicibile sollievo nel sentirmi lontano dal muro, seduto nella mia stanza. Vivo o morto non ha importanza. Le mie percezioni sono sfasate, rifiuto me stesso come rifiuto il mondo. Chi sono io? Sono Jack Hybris.
 
 
 
 
“Tu non sei il tuo lavoro, non sei la quantità di soldi che hai in banca, non sei la macchina che guidi, né il contenuto del tuo portafogli, non sei i tuoi vestiti di marca, sei la canticchiante e danzante merda del mondo”
  
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